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Un giorno devi andare: Intervista esclusiva a Giorgio Diritti
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Lo scorso 28 marzo è arrivato nelle sale Un giorno devi andare, la terza fatica cinematografica di Giorgio Diritti. Presentato con successo al Sundance Festival 2013, Un giorno devi andare racconta la presa di coscienza di Augusta, giovane benestante che, in seguito a tormentate vicende personali (un aborto, l’impossibilità di divenire madre, l’abbandono del marito e la perdita del padre), decide di lasciarsi tutto alle spalle e partire per l’Amazzonia alla ricerca di se stessa.

 

Descritto quasi sempre come un film sulla fede, Un giorno devi andare contiene nei suoi 109 minuti di racconto e immagini suggestivi diverse tematiche che, in base alle diverse sensibilità degli spettatori, affiorano in superficie per essere indagate. Per capire qualcosa in più dell’opera, tutt’altro che facile ma colma di significato, ne abbiamo parlato direttamente con il regista. Ne è venuta fuori una chiacchierata/confronto che spiega meglio il film a chi ha avuto già modo di vederlo e che può servire da stimolo a chi ancora non lo ha visto.

 

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Un giorno devi andare viene sovente descritto come un’opera sulla fede. Personalmente, invece, ci ho visto qualcos’altro.

Sono d’accordo con te. È anche un film sulla fede, nel senso che è una delle tante tracce che il film ha. Secondo me, racconta di un viaggio che diventa specchio di domande che uno si fa e, tra queste, ci sono anche quelle inerenti alla fede, insieme ai temi della maternità, dell’ambiente, della comunità, della socialità e della differenza tra il ruolo dell’uomo e quello della donna. È chiaro che la fede ha una presenza abbastanza forte, anche per via dell’imprinting iniziale e della scelta della protagonista Augusta di affiancare suor Franca ma non si limita solo a quello.

 

 

Io lo considero soprattutto un film sulla maternità, quattro differenti linee narrative che poggiano sul rapporto madre/figlio. Da un lato, in Amazzonia, vediamo infatti Augusta e Janina, mentre dall’altro lato, in Italia, troviamo la madre e la nonna di Augusta: quattro diversi modi di intendere la maternità. Volendo, anche suor Franca potrebbe essere considerata una madre.

Si tratta di maternità e femminilità che si fondono. E possiamo anche aggiungere la maternità della comunità amazzonica nei confronti di Augusta, che in favela viene accolta e inserita in un nucleo familiare. Anche li, dove ci sono una nonna anziana e molte donne, è presente un’accoglienza quasi materna.

 

Oltre alla maternità, vi ho anche intravisto una forte critica alle nuove forme di colonialismo, da un lato religioso (con suor Franca e i suoi tentativi di conversione religiosa) e dall’altro lato economico (con la costruzione del supermercato nella favela o dell’albergo in piena foresta).

Nelle mie intenzioni, c’era anche una riflessione sulla dimensione dello sviluppo che, in quei territori, il mondo occidentale bianco ha man mano posto, proposto e imposto. È una critica su questo modo di agire e di cui lascio allo spettatore la possibilità di far delle considerazioni proprie.

 

A differenza di Il vento fa il suo giro e L’uomo che verrà, in cui la comunità italiana di base si ritrova in contesti e momenti storici differenti ad accogliere lo straniero, in Un giorno devi andare è un’italiana che deve essere accolta in terra straniera. È una scelta studiata, quasi per chiudere un’ideale trilogia, o è stata dettata dal caso?

Sai che mi è quasi difficile risponderti? Faccio le cose di istinto e non mi soffermo a riflettere sui possibili collegamenti. Dieci anni fa sono stato in Amazzonia per un documentario e quel viaggio mi ha lasciato suggestioni che mi hanno spinto a lavorare a Un giorno devi andare. Le considerazioni che fai sono vere, segno che nella mia mente certi temi e certe sensazioni, specchio gli uni delle altre, sono ricorrenti e mi piace raccontarli: il senso della comunità, il valore della gioia dei bambini o l’attenzione che si dovrebbe riservare sempre alla loro semplicità la specularità delle cose. Così come noi accogliamo (o non accogliamo in certi casi, purtroppo) dei forestieri, allo stesso modo ci trasformiamo in forestieri nell’altra parte del mondo. Evidentemente sono cose che sento e che fanno parte di un unico discorso che forma quasi un trittico. Vedremo cosa sarà il quarto film, se si distaccherà di molto o se sarà affine agli stessi argomenti.

 

 

C’è già un’idea per un quarto film?

No. Solo delle sensazioni che galleggiano e devo capire chi e quale vincerà tra varie ipotesi.

 

 

Rimanendo in tema di italiani che arrivano in terra straniera, Un giorno devi andare è stato presentato in anteprima internazionale allo scorso Sundance Festival negli Stati Uniti. Senza ombra di smentita, possiamo asserire che è quasi un’occasione rarissima per un regista italiano essere in concorso in uno dei festival cinematografici più importanti al mondo. Quale è stata l’accoglienza internazionale riservata al film?

L’accoglienza è stata più che buona. Quando sei lì, ti rendi conto di essere in uno dei due o tre festival più grandi al mondo. Agli occhi degli americani, il Sundance ha lo stesso valore del festival di Cannes e vi è una grande attenzione al contenuto delle opere presentate e al loro valore artistico, con pochissimo glamour – quasi niente – intorno. Questo per me è un valore aggiunto che dona ai film il ruolo centrale che meritano. Il riscontro della critica americana, come si evince anche da Variety e The Hollywood Report, è stato poi molto positivo, soprattutto se confrontato con il giudizio che di solito i critici statunitensi hanno sul cinema italiano. Eravamo anche speranzosi che saltasse fuori un premio, dato che c’erano tutte le premesse.

 

 

E la critica italiana invece? Di solito, si guarda spesso con sospetto ai registi che vanno all’estero a presentare le loro opere e queste sono ben accolte.

Io penso che ognuno, nel mondo della critica, svolga il suo mestiere con la stessa onestà intellettuale con cui mi sono posto io per realizzare il film. Almeno lo spero. Ogni tanto ho la sensazione che non sia così, che ci sia la voglia di trovare un difetto o che si intraprenda un percorso molto razionale. In relazione a ciò, Un giorno devi andare, per esempio, può creare qualche problema perché cammina su altre sottili dimensioni emotive, per cui come nel viaggio della protagonista uno deve lasciarsi andare e non pensare troppo ai perché o trovare una spiegazione a ciò che accade. In un viaggio, capita di incontrare persone, di perderle e poi di incrociarle nuovamente: per me era importante raccontare le sensazioni e non chiedermi perché una certa cosa avviene in certi momenti. Era più importante far passare le emozioni e non sono stato legato ai canoni tradizionali della trama, spiegando certi passaggi.

In piena libertà chiunque può dire quel che vuole sul film, anche se qualche piccola cosa mi ha dato fastidio. C’è stata qualche battutina sulla dimensione della favela, definita come un posto troppo accogliente o “finto”, rispetto alla descrizione di una presunta violenza che i media hanno contribuito a diffondere. Io sono orgoglioso di aver raccontato che non esiste solo la realtà della violenza nelle favelas, non nascondo infatti i problemi, e di aver messo in luce un’altra dimensione raramente vista.

 

Tra le varie sequenze di Un giorno devi andare ce n’è una che mi ha particolarmente colpito: la ripresa dall’alto che mostra Augusta in viaggio sulla barca (chiamata non a caso “Itinerante”) divenire quasi un tutt’uno con l’acqua e con il cielo.

Quella sequenza lì, mentre Augusta legge Attesa di Dio di Simon Weil, è stata realizzata da un elicottero e nasce da una delle cose che mi avevano più colpito dal viaggio in Amazzonia di dieci anni fa che ho citato prima: la specularità tra acqua e cielo. In relazione al testo di Weil e alla particolare dimensione psicologica di Augusta, mi sembrava fondamentale riprodurre il senso di spaesamento che lei (o chiunque altro) prova con un’immagine affascinante e al contempo inquietante di una barca che diventa sempre più simile a un puntino di fronte all’immensità di cielo e acqua. Man mano che il film va avanti, anche la stessa Augusta si prefigura come un puntino con la sua scelta di isolarsi e di diventare nulla di fronte allo spazio della natura.

 

 

 

Il tema della genitorialità è evidente anche quando Augusta riceve dalla madre il pacco con i piatti appartenenti al padre da poco scomparso. In quella sequenza, la svolta psicologica di Augusta raggiunge il suo apice, permettendole di chiudere i conti con la figura del padre che, seppur mai mostrata, è fondamentale nel rapporto che lei ha con la madre.

Quella scena presenta molteplici livelli di lettura ed è fondamentale nel recupero di Augusta, permettendole di raggiungere una dimensione di armonia con lei stessa e con la madre. Dopo tanti silenzi tra le due, il parlarsi via Skype spinge la madre a inviarle quasi un “segno” del padre, un segno che smuove in Augusta un desiderio di riappacificazione che l’aiuta a superare il dolore per la scomparsa del padre e per i bambini, permettendole di andare oltre. Fa parte del percorso di risoluzione del dolore che Augusta ha intrapreso e che in quel momento la porta verso la rinascita, anche se il dolore e il disagio le ripiomberanno addosso quando sarà venduto il bambino di Janina, come se a lei non fosse concesso di essere in armonia. Il suo è un disagio che risolverà solo nel finale quando il bambino che viene dal niente le va incontro senza che lei lo abbia cercato.

 

 

In un’altra sequenza, durante una delle piogge tropicali, si vede una baracca della favela di Manaus portata via dalle acque.

Quelle immagini purtroppo sono reali e fanno parte della natura di quel territorio. Sono state girate da coloro che abitano lì un anno prima dell’inizio delle riprese.

 

L’aver inserito durante la permanenza di Augusta nella favela un legame sentimentale con il giovane Joao non può essere considerato come una forzatura?

No. Tra Augusta e Joao si instaura una complicità affettiva che per Joao è mediata dalla necessità di stare meglio, tanto che egli si propone di andare in Italia per una vita migliore. Il suo è un affetto quasi strumentale, anche se è realmente concreto. Una cosa che mi preme sottolineare è semmai come il loro approccio, come avviene per cultura in quei luoghi, sia molto semplice e diretto: due persone si piacciono e vanno a dormire insieme senza girarci intorno e senza troppi pensieri su presente, futuro o passato. La nascita di un nuovo affetto per Augusta risponde al suo desiderio di riappropriarsi delle cose della vita, della propria serenità o sessualità, e di rimettersi in gioco dopo il trauma vissuto.

 

Perché invece non vediamo mai il marito di Augusta? Non c’è niente che ci faccia capire chi è o com’era?

Inizialmente avevo anche delle foto del matrimonio di Augusta che volevo inserire. Poi ho pensato che il film dovesse essere uno specchio in cui poteva riflettersi chiunque a seconda delle proprie sensibilità. Quindi, non mostrare il marito fa sì per certi aspetti che questi sia il marito di ogni donna o che sia anche ognuno di noi, che in un momento di difficoltà sparisce anziché stare vicino alla persona amata. Così facendo, si permette allo spettatore di mettere qualcosa di suo nella storia. A differenza di L’uomo che verrà o Il vento fa il suo giro, che sono più strutturati narrativamente, con Un giorno devi andare ho giocato molto sul coinvolgimento dello spettatore e sul suo desiderio di mettersi in gioco e capire i tasselli mancanti.

 

 

Un giorno devi andare è una produzione solo italiana?

No. È una co-produzione con la Francia, che ha contato sul sostegno di Eurimages, sulla partecipazione della Rai, su un contributo statale e sul sistema del tax credit. Il contributo statale è stato anche sostanzioso, non è stata una cifra piccola ma relativa rispetto al costo generale del film. Su questo ci sarebbe da intavolare un discorso ancora più complicato sul ruolo dello Stato nel preservare il cinema come arte e difenderlo dall’attacco della pirateria, studiando soluzioni adeguate che permettano ai produttori stessi di continuare la loro attività. Ci vorrebbe la volontà politica di risolvere il problema ma, per via di altre priorità, le questioni culturali vengono lasciate quasi sempre da parte, dimenticando che il seme di un futuro migliore passa anche per la cultura o la ricerca. Soprattutto in un Paese che, come il nostro, non ha pozzi petroliferi, miniere o risorse naturali: non dimentichiamo che l’eccellenza dell’Italia è sempre stata nell’arte.

 

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Gli scatti fotografici allegati all'intervista sono stati realizzati dal regista Giorgio Diritti sul set del film Un giorno devi andare.

 

Si ringrazia per la collaborazione l'ufficio stampa Vic Communication e, in particolar modo, Vera Usai.

 

 

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