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Profughi a Cinecittà
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o quello che il neorealismo ha dimenticato di raccontare…

 Correva l’anno 1944, e ne corsero ancora fino al 1950.

 

Migliaia di uomini, donne e bambini, vecchi e donne incinte, zingari ed esuli giuliano-dalmati, ebrei scampati ai campi di sterminio e italiani senza tetto dopo i bombardamenti di Monte Cassino e Roma, ex coloni libici e chissà quanti altri ancora, folla variopinta e multietnica dalle mille storie sulla pelle, passò da quegli studios smantellati e depredati dai Tedeschi, soggiornò per qualche mese, alcuni anche anni, molti bambini consumarono lì la loro infanzia e non pochi vi morirono di tifo, era l’epidemia del momento che si preveniva a suon di DDT, spruzzato dalla testa in giù con indimenticabili bombolette azzurre a stantuffo.

Per sei anni così funzionò la gloriosa Hollywood sul Tevere, fiore all’occhiello del regime, smantellata, bombardata e, soprattutto, protagonista di una storia dimenticata per i successivi settant’anni.

Profughi.

 

Dagli elenchi dei profughi trovati a fatica dal lavoro certosino di Noa Steimatsky, ricercatrice a Yale e autrice di  The Cinecittà Refugee Camp 1944-1950, spunta anche qualche nome divenuto celebre in seguito, come Angelo Iacono, produttore di Dario Argento, o Mario Schifano, illustre rappresentante della Scuola Romana degli anni’60, pittori, scultori e scrittori che, tra Rosati in P.za del Popolo e Via Veneto, animarono quella Roma felliniana che voleva a tutti i costi chiudere i conti col passato.

 

Eppure quel numero enorme di anonimi sventurati, sommersi due volte, dalla guerra e dalla dimenticanza, ha continuato ad esistere.

Accuratamente accantonate nelle pizze dell’Istituto Luce le poche riprese dirette del luogo e dei protagonisti, assolutamente invisibile la fiction Umanità del ’46 di Jack Salvatori , girata all’epoca in quei locali con taglio molto realistico, pertanto imbarazzante per un establishment in fase di ripresa dopo los desastres de la guerra, del tutto ignorata dal cinema neorealista che pure tanto si prodigò nel documentare le sorti di quell’Italia, la storia dei profughi di Cinecittà rischiava di essere definitivamente sepolta.

 

 

Marco Bertozzi, regista e storico del cinema, professore associato alla Facoltà di Design e Arti dell’Università IUAV di Venezia, un nutrito curriculum alle spalle di documentarista (il suo Predappio in luce ha concorso al Film Festival di Roma e ha vinto l'Art Film Festival di Asolo) ha maturato nel 2005 l’idea di un documentario intitolato inizialmente Cinecittà Campo Profughi, poi più felicemente Profughi a Cinecittà.

 

Sette anni per la gestazione e la ricerca di un editore, un finanziamento statale di 40 mila euro (le risorse italiane per la cultura!) e tanta buona volontà hanno prodotto per la Vivo Film quest’ opera di  51 minuti, unica nel suo genere.

Presentata nei mesi scorsi negli USA e a Roma, é approdata ieri, 15 giugno, a Venezia, per gli incontri del Convegno internazionale “La luce e i suoi percorsi passionali”  promosso dall’Ateneo Veneto.

Giocando con la parola, i filmati Luce sono intermittenze frequenti nel docu-film e si alternano a flash dalla fiction  Umanità e a momenti di memoria affidata alle parole di anziani sopravvissuti.

Il racconto é scarno, la memoria orale non si affida ad espedienti retorici e la sofferenza é un rimosso che non crea più lacrime, ma colpisce duro.

Le due sorelle profughe libiche, belle nella ragnatela di rughe  che le avvolge, ricordano come le ragazze  passate di là, una volta fuori, venissero guardate con sospetto bigotto dalle fanciulle in fiore, loro coetanee più fortunate, vissute in bei collegi. Nel campo vigeva infatti la promiscuità più assoluta, e negli anni cinquanta i marchi d’infamia erano di vario genere e misura.

Qualcuno sfoglia vecchie foto, ci mostra fratelli e genitori, li riconosce nei filmati che scorrono.

Girano per i teatri di posa, toccano i manichini, ricordano quasi con stupore la loro storia vera che sembra un film, vissuta nel posto dove si facevano film e poi si fece la storia vera.

Compito del regista é stato comporre una memoria integrando materiali e persone, compiere il passaggio necessario dal livello realistico al livello evocativo, far parlare quel passato con la nostra contemporaneità.

La storia

La storia inizia il 16 ottobre 1943: 16 vagoni merci carichi di attrezzature cinematografiche partono da Roma, quattro con destinazione Germania e quattro Repubblica di Salò.

Gennaio 1944: bombardamento degli Alleati su Roma e i teatri di posa subiscono gravi danni.

Giugno 1944: l'Allied Control Commission requisisce gli spazi del cinema per i profughi di guerra, divisi in due settori, nazionale e internazionale, da un filo spinato. 

Cibo scarso, dal settore internazionale qualcosa veniva  steso per pietà oltre il filo spinato, malattia, sovraffollamento. La capienza era di 5000 persone, in sei anni il turn over fu intenso, alle porte di Roma.

Quando agli inizi degli anni ’50 sembrò che tutto si potesse dimenticare, i cinegiornali mostrarono un giovane Andreotti  e altri notabili prodighi di visite e lodi alle strutture in ricostruzione, mentre nel ’51 Mervyn Le Roy girò a Cinecittà il chilometrico Quo Vadis ingaggiando come comparse molti profughi ancora lì che “vennero vestiti da centurioni romani e sfruttati come comparse e la loro paga era il cestino giornaliero” racconta il regista.

 

Dissotterramento della memoria, l’incontro con il filmato e con il regista è stato premiato da una folla numerosa fatta soprattutto di giovani.

La commozione incontenibile di Marco Bertozzi quando ha ricordato le liste dei profughi non é facile da dimenticare.

 

 

 

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