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Raccontare un film da un'altra prospettiva: "Quadrophenia", ovvero "La storia di Jimmy"
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La storia di Jimmy (raccontata “a suo modo” da Ernesto de Pascale, esimio critico musicale recentemente scomparso a cui intendo così rendere anche un affettuoso, postumo omaggio di riconoscenza).

 

Non era facile la vita per Jimmy. Il mondo che lo circondava non era il suo. Quando tornava a casa c’era sempre qualcosa che andava storto. Neanche un rispettabile posto da “ragazzo alla porta”  del principale albergo delle sue parti lo rendeva felice. A casa era incompreso. Jimmy non era il solo, come lui, molti altri. Ragazzi provenienti da famiglie per bene, né poveri né ricchi, ragazzi educati ai quali era stata data una certa sicurezza. Qualcosa, però, non funzionava.

A quell’epoca Jimmy guadagnava 3 pounds e 10 pennies (questo è l’attuale valore equivalente, naturalmente!) alla settimana. Il suo ultimo acquisto, un abito visto sulla rivista Tailor and Cutter, ne costava da solo 35. Diceva orgoglioso: “Quando lo indosso mi sento totalmente diverso. E’ come se la mia vita cominciasse da capo”.

Il senso di depressione, il sentire la necessità di essere padroni di qualcosa, riempiva la testa del nostro e di tanti altri ragazzi come lui. Per troppo tempo si erano sentiti dei lunatici, additati come stravaganti nelle metropolitane che da Shepeerd’s  Bush portavano in pieno centro. Adesso era invece chiaro che il loro stile, inimitabile se pur estremamente semplice, era la chiave di volta. Adesso erano qualcuno, si riconoscevano e non avevano più paura di essere additati. Adesso erano i “Mods”.

Ma questa è la storia già del 1965, che è poi l’anno descritto dallo stesso Pete nella sua  “Quadrophenia,  quando i “Mods” sono all’apice del movimento, quando il giovane Pete Townshend scrive con gli appena nati “The Who”, l’inno del movimento, My  Generation.

Questa storia ha, però, dei precedenti che vanno raccontati. Nel 1960 Mark Feld da Forest Hill, ha solo 12 anni. Ricorda di quei giorni: “Senza uno specchio mi sentivo perso. Mi lavavo ogni ora, una doccia due volte al giorno; per farlo usavo colonia Vart di Carvin. Non c’era niente di casuale nel mio modo d’essere. Perfino d’estate mi sentivo più a mio agio se indossavo un abito di tweed e un impermeabile.” Per Mark non era una questione di uniformi come lo era, proprio in quei giorni, per i Teddy Boys alla Gene Vincent. Per Mark era un’esercitazione di stile, puro narcisismo da dandies. Il giovane Feld diventa un’influenza locale. Lo conoscono in pochi ma, non appena si muove, tutti lo additano. Lui pare non curarsi degli altri. “Scopro in poco tempo – racconta – che solo nella mia zona, Forest Hill, siamo in sette. Poi diventiamo venti. Tutti fra la mia età e i quattordici anni, tutti ebrei, piazzati in casa con i genitori, nessuno impegnato con il lavoro, poco interesse per la scuola. L’unica cosa veramente importante è l’abito.” 

La musica, le pillole, gli scooters non sono ancora arrivati sulla scena e per un po’ non si fanno vedere. E’ il 1962 quando Mark Feld appare sulle pagine della rivista Town: indossa una giacca tre quarti con spacchi laterali alti, un impermeabile lungo di pelle nera, un fazzoletto gli spunta dal taschino della giacca e la camicia è di quelle con colletto duro e stondato sulle punte. L’effetto è fortissimo ma assolutamente inclassificabile. E’ qui che spunta il termine Mod: per i ragazzi non fa differenza. E’ una classificazione e basta e a loro non interessa. E’ qui che musica, immagine, vita di strada, ideali, falsità e tutto il resto, si mixano in un unico grande calderone: quello che genera il fenomeno di massa.

Da Richmond emergono i “Rolling Stones”, amanti del blues, che vengono subito adottati dai “Mods” locali e supportati mentre il loro diciannovenne manager, Andrew Loog Oldham, non fa niente per mettere chiarezza contando sulla forza autopromozionale della ghenga locale. Non appena il gruppo raggiunge il successo nazionale i “Mods” li mollano per gli “Yardbirds” capitanati dal biondo Keith Relf e con uno spaurito Eric “Slowhand” Clapton alla chitarra solista che ben presto saluta tutti per tornare al suo vero amore: il blues. Nascono programmi tv come Ready Steady, Go!, un “must” del sabato pomeriggio, basicamente un programma televisivo mod; anche Carnaby Street, per un breve tempo, viene additato come Mod.

Mark Feld  continua con  i suoi ricordi: “Era il 1964 e la situazione mi sembrava prendere una cattiva piega. Io prendevo le cose con infinita serietà mentre i Modsdell’ultima ora mi facevano i pupazzi.” Quel che il nostro non capiva era che, anche per lui, come per tutti gli iniziatori, era venuto il momento di mettersi da una parte e guardarsi intorno senza troppo apparire… stava arrivando, insomma, il momento di Jimmy.

Jimmy, poi, a vedere bene, non era così distante da Mark: i due erano, in fin dei conti, coetanei, entrambi intorno ai sedici. Jimmy era solo più casinaro, più dentro il movimento di massa. Erano arrivate le lambrette, la musica, le pillole uppers e downers e lui aveva accettato tutto subito, così senza riflettere, solo perché tutto questo era parte della scena. Era anche lui, comunque, un puritano. Se a Carnaby Street cercavano di infinocchiare i turisti con i gadget di bassa lega lui e i suoi evitavano il luogo; avevano ampliato e migliorato il guardaroba con copriabiti simili a giacconi da guerra chiamati Parkas su cui cucivano colli di pellicce di volpe; usavano esclusivamente cravatte strette, scarpe di camoscio marrone o polacchine desert boots di marca Clarke.

Portavano  i capelli corti e non appena si trovavano in prossimità di uno specchio potevano passare lunghi minuti a specchiarsi.

Qualcuno, fra gli amici  di Jimmy, si dava mascara e si faceva il rigo nero agli occhi ma non vi erano implicazioni sessuali, era solo il desiderio di stranezza. Si dice anche che uno dei suoi migliori amici, un certo Bernard Coutts, non avesse accettato l’invito di una ragazza perché lei, in casa non aveva uno stendi pantalone con ferro da stiro. E la riga, si sa, deve essere fatta almeno una volta al giorno!.

Jimmy e i suoi amici arrivavano nel West End durante i fine settimana e vi rimanevano per trentasei ore filate. Gravitavano in clubs, bars, agli angoli delle strade e quando si sentivano sfatti si tiravano su con pillole chiamate Purple Hearts. A parte questo non facevano un bel niente. Ballavano fra di loro – le ragazze erano praticamente inesistenti – perché la musica batteva loro in testa. Sembravano senza emozioni, passivi a tutto fuorché al proprio narcisismo. Se c’era qualcosa che li galvanizzava era la musica di questo diciannovenne nasone e riottoso che si chiamava Pete Townshend. Il suo gruppo si era chiamato per un po’ “The High Numbers” poi decise che “The Who” suonava meglio, era più consono al movimento.

Il martedì sera era la loro serata fissa al Marquee Club di Wardour Street. Ed era, naturalmente, una serata speciale. Jimmy era sempre lì in prima fila e poteva vantarsi di essere loro conoscente. Sua sorella per un periodo era uscita con il bassista del gruppo, un tipo sempre taciturno e loro lo salutavano anche se forse neanche sapevano il suo nome. Mark Feld li andò a vedere una sola volta poi disse che in quel locale c’era troppo casino e che quei “Mods” si stavano comportando con uno stile troppo uncool, erano poco “stilosi”, diremmo noi. Gli “Who” sapevano il fatto loro: il batterista Keith Moon era un ragazzo forsennato e il suo stile di accompagnamento non aveva riferimenti, il cantante faceva roteare continuamente il microfono e più volte colpì qualcuno in testa nell’angusto spazio del club di Wardour Street. Del bassista, poi, abbiamo già detto. Pete, il chitarrista e mente del gruppo, dava l’impressione di essere monomaniaco: spendeva cento pounds la settimana in vestiti e si era fatto fare una giacca con la bandiera britannica, perfettamente in tono con la loro canzone Happy Jack. Keith, il batterista, vestita, invece, delle fantastiche magliette in stile Pop Art e nessuno fra i “Mods” presenti, riusciva a capire dove fosse riuscito ad ottenerle. Erano insomma, uno schianto!

Townshend era andato oltre: difficile dire se per ispirazione o per raziocinio, aveva scritto quella “My Generation” che recitava più o meno così: People try to put us down / just because we get around / thing they do look awful cold / hope I die before I get old. Da quel momento in poi, ricorda Mark Feld, il movimento cominciò a sfrangiarsi. Forse proprio per questo motivo, per scontare le sue colpe, Townshend avrebbe scritto otto anni dopo, nel 1973, Quadrophenia”. Jimmy però non sapeva tutto questo, non sapeva nemmeno che sarebbe diventato il personaggio di quel Quadrophenia” e neanche lontanamente immaginava la sua fine. Jimmy sapeva solo che troppe cose intorno a lui cominciavano ad essere apostrofate come Mod. Perfino i barbieri, i “Beatles”, gli attori e i nuovi libri. D’estate si migrava a Brighton così come oggi, più di quarant’anni dopo, da tutte le parti d’Europa si cala a Rimini per Pasqua. Allora e oggi, lo si faceva per cercarsi, per contarsi. Ma in quei giorni, in quel 1965 i “Mods” cominciano a diventare un fenomeno troppo serio per non creare contrasti fra bande e giovani di differente estrazione. Tra i veri “Mods” si insinuano centinaia di falsi, ragazzi violenti, uncool, direbbe  Mark Feld, poco “stilosi”, diciamo noi. L’evento di massa porta perciò tante ritorsioni sociali con sé. Poco possono i veri “Mods”, di quelli come Jimmy, e degli altri venti della prima generazione, non resta più neanche il ricordo! Al Nord, nelle città industriali o giovani si incazzano pesantemente. Come spiegare loro la differenza fra veri e falsi “Mods”, fra casinari che urlano e si ubriacano nelle dance-halls, infastidiscono tutti nei weekend passati a Soho e quelli veri di soli pochi mesi prima? Al nord si formano gruppi agguerriti, si fanno chiamare “Rockers”, sono della stessa matrice dei “Teddy Boys”, solo più violenti e più poveri, per loro il Mod è un essere molle, inutile. Difficile dire se questi “Rockers” credono a quel che dicono: la loro filosofia è di terza mano, la brillantina nei capelli non ha nulla a che vedere con l’olio “STP” che si passava Elvis Presley o Jerry Lee Lewis la mattina, i loro abiti sono sdruciti, le giacche di pelle vengono dai mercatini di Salvation Army, i fregi sono stati cuciti dalle mamme la sera prima. Per mesi e mesi le due fazioni si scontrano settimanalmente sul lungomare di Brighton, lasciandosi Londra alle spalle, fornendo così gran rumore alla stampa e alla televisione. Nessuno capisce che così facendo si fa il gioco altrui. O forse qualcuno lo capisce: lo capiscono i gruppi come gli “Who” che vanno avanti per la propria strada, i veri “Mods” come Mark Feld, che se ne sta rintanato a First Hill a vivere la sua vita imparando a comporre canzoni, lo capisce Jimmy che non vuol proprio saper niente di tutte queste storie. “Cosa c’è che non va nella mia vita?” si domanda Jimmy. “Non c’è posto per me, non c’è posto più neanche fra i “Mods”, ora loro sono così diversi da allora! A casa sono uno zombie, gli “Who” da quando hanno avuto successo non mi salutano più e l’ultima volta che uno di loro mi ha rivolto la parola mi ha chiesto se mi ero trovato un lavoro. Io odio chi mi parla di lavoro.”

Jimmy scrive il suo destino in solitudine. Il mondo intorno a lui sta cambiando. A nessuno importa più dei “Mods”. La stampa li ha definitivamente abbandonati e gli scontri non divertono più neanche coloro che li aizzano. La gente comincia a portare i capelli lunghi, al posto delle pillole arriva la marijuana e quando si parla di rivolta se ne parla (ancora) in termini propositivi. Gli “Who” dal canto loro  sono, alle porte del 1966, già lontani mille miglia dai giorni del marquee, dei “Mods”, degli stessi primi scontri di Brighton. La vita va avanti. Per tutti la vita va avanti, ma non per Jimmy. L’unica cosa da fare è farla finita, pensa. Come in “My Generation” non c’è più tempo per diventare adulti. Gli resta solo l’abito, il Parka e la sua lambretta. Simboli, lo ha capito, ormai vecchi. Solo il mare e gli scogli davanti a Brighton potranno accoglierlo. Quando Mark Feld verrà a sapere della scomparsa di Jimmy così commenterà: “A volte mi guardo indietro e quel che è stato mi fa sentire molto stanco.”

Da lì a poco Mark cambierà nome, scegliendo quello di Mark Bolan, un nome e un cognome che gli porteranno fortuna. Intanto, quel giorno, si chiude un capitolo. Definitivamente. Ci penserà, come abbiamo prima accennato, a riaprirlo proprio Pete Townshend nel 1973 con la composizione di “Quadrophenia”, un’opera rock non troppo lontana da queste vicende dove tutti hanno un posto all’infuori del povero Mark Feld, in quei giorni del ’73 con i suoi “T.Rex”, troppo famoso per essere menzionato in una storia senza vincitori quale quella dei “Mods”.

Bye bye Mark… Addio Jimmy!

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