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Gioco di ombre

Regia di Tom Van Avermaet vedi scheda film

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La recensione su Gioco di ombre

di OGM
6 stelle

Cervellotico Oscar nominee, che gioca con la vita, la morte, la luce e il buio, sovvertendo liberamente le leggi del tempo e della logica. Questo cortometraggio affida all’impalpabilità dell’ombra il compito di rappresentare i frementi contorni del dolore, che diventano creativamente tragici nel momento del trapasso. C’è uno strano individuo che ha l’abitudine di collezionare quelle sagome scure, che si contorcono nella complessa danza dell’agonia. Le proietta su un telo bianco, e poi le fissa al muro con due chiodi. Tante diverse immagini della fine dell’uomo, raccolte ed esposte come in un album di farfalle morenti.  A catturarle, con una strana apparecchiatura fotografica, è il suo fido assistente di nome Rijckx, cacciatore di istanti finali, per sempre presenti come le anime che li hanno vissuti, ripetibili a piacere e reversibili a comando. I fantasmi partecipano in maniera confusa al meccanismo del cosmo. L’orologio si sposta avanti e indietro, mentre salta la distinzione tra qui e altrove. Intanto la pianificazione delle missioni di Rijckx è affidata a quella che si direbbe una macchina combinatoria di lulliana memoria, rivisitata ingegneristicamente ed arricchita di congegni ottici ed elettrici, e funzionante come un database anagrafico dell’intero universo umano.  Il quadro è confuso, affetto da una complessità che soffoca la suggestione, e appesantito da un manierismo che applica la ricercatezza stilistica ed i classici modelli del romanticismo dopo averli privati del soffio vitale. Il gusto dell’arcano non può intralciare il racconto. La passione narrativa non può rimane intrappolata in un rompicapo che ne interrompe gli slanci. La fantasia, in nome del mistero, si lascia anche comprimere, sotto il peso delle domande che si accumulano e dei conti che non tornano. Ma, prima o poi, ci si aspetta che esploda. Purtroppo qui il botto finale fa poco rumore, e serve solo a far rientrare una storia bislacca nei ranghi delle solite favole d’amore. L’arzigogolo si srotola, e il discorso, riavvolgendosi, ridiventa lineare. L’inspiegabilità decade nel cliché. La ragione si arrende, ma la poesia non decolla.  

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