Espandi menu
cerca
The Canyons

Regia di Paul Schrader vedi scheda film

Recensioni

L'autore

scapigliato

scapigliato

Iscritto dall'8 dicembre 2002 Vai al suo profilo
  • Seguaci 137
  • Post 124
  • Recensioni 1361
  • Playlist 67
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su The Canyons

di scapigliato
9 stelle

Con un incipit carpenteriano fatto di pose di edifici in rovina o in disuso, vere architetture della vacuità, Paul Schrader ci accompagna lento e inquietante – proprio come Carpenter in Halloween (1978) – in un mondo saturo e vuoto allo stesso tempo, quello del lussuoso ambiente cinematografico americano, allegoria di un Paese, e per estensione di un Occidente, capitalista e consumistico. La fede calvinista del regista fa tutto il resto. Un cinema di peccato, espiazione e redenzione. Questo si dice quando si parla di Paul Schrader. Ma se è legittimo come approccio critico, è anche vero che negli interstizi di tale dottrina scopriamo anche la sua vulnerabilità, la sua assenza e la sua menzogna.

The Canyons gioca con il genere noir aggiornando il torbido dell’ambiente cinematografico unito alla caduta degli dei di celluloide, già rivisitato da De Palma con The Black Dahlia (2006), agli anni della liquidità immaginifica, della liquidità comunicativa, della distanza e della vicinanza, sempre liquide, del villaggio globale. Come si riducono le distanze, così si avvicinano gli oggetti di desiderio innescando un domino di patologie e ossessioni che influenzano i rapporti umani, ridefinendoli.

Centro nevralgico di questa nuova percezione della realtà nel nuovo millennio, quello della online-generation, è il desiderio sessuale, la sua esibizione, la sua fruizione. Questa sua centralità nell’intrico dei rapporti umani è resa dal regista con la centralità del turbamento sessuale nel sistema dei personaggi. Personaggi che, non a caso, sono nella loro fisicità i significanti perturbanti di tale desiderio. Il nuovo reuccio del porno americano, James Deen, che ho sempre trovato insipido e di cui non mi spiego tale successo – non basta essere superdotati per essere maschi – porta con sé la sfacciataggine del piacione manipolatore, oltre che il proprio background fisico che lo precede; Lindsay Lohan sfatta come una vacca svaccata, sorprendente nella sua decadenza, è la carnalizzazione di un desiderio mortifero, una rilettura giovane e carnale della Swanson de Viale del Tramonto (1950); mentre Nolan Funk è la carnalizzazione dell’innocenza dell’adolescenza che diventa consapevole malizia del giovane corpo adulto.

A differenza di molti suoi lavori precedenti, qui Schrader invece di utilizzare un linguaggio angosciante, formalmente reso con le ombre e gli angoli bui della messa in scena, con interni foschi e ambigui, opta per una lucidazione della scena e rende tutto pastello, sterile, preferendo le pose in campi totali alla frenesia della macchina a mano che interviene solo quando la distanza tra spettatore e attore deve necessariamente saltare per innescare l’empatica pulsione torbida. Con questa pittorica estetica hopperiana il regista segna la distanza emotiva tra oggetto e soggetto del desiderio.

Parole chiave del cinema schraderiano, come in particolare di The Canyons, sono dominio e possesso, o meglio l’ossessione di dominio e l’ossessione di possesso, naturali figlie di un’epoca dove il facile accesso a qualsiasi cosa ha azzerato il giudizio critico e liberato l’istintualità primitiva ribaltandone però di segno la pulsione alimentare del corpo altrui, sterilizzando così l’esperienza affettiva e sessuale in cambio di un’esibizione delle stesse per le quali, per poter affermare la loro portata evenemenziale, basta solo una proiezione virtuale, una condivisione internauta, un post, un video, un’orgia sì vera e carnale, ma fatta per soddisfare solo un piacere voyeuristico, come fare una foto di gruppo.

Oggetti di questo desiderio sono i corpi dei protagonisti, più che la loro anima e i loro turbamenti. I loro corpi mettono in scena la loro patologia meglio dell’introspezione attoriale. Il corpo mediocre e borioso di James Deen; quello sfatto della Lohan; quello perfetto di Nolan Funk. E qui andrebbe notato come tutti gli attori maschili, comprese le comparse di nudo e semplici generici – a parte gli attempati produttori e datori di lavoro per ovvie ragioni di interesse puer/senex – sono tutti belli, fisicamente perfetti e sessualmente dotati, mentre le attrici, pur belle e invitanti, sono imperfette. La Lohan su tutte, anche se è ugualmente capace di caricare eroticamente il suo corpo in ogni scena, mentre i personaggi di Cynthia, Tiziana Avarista, e Gina, Valentina Mari, normalizzano il corpo femminile senza sussulti se non quelli elementari.

L’interesse quindi, per la perfezione e la dotazione esibita del corpo maschile è fondamentale per interpretare questa pellicola le cui torbidi pulsioni sessuali sono inversamente proporzionali alla loro resa estetica. Ci si poteva aspettare di più. Ciò non toglie che, Schrader ci mandi ugualmente a dire, sottilmente tra le righe, che tra un James Deen sessualmente malato e psicologicamente schizofrenico ossessionato dal corpo femminile della Lohan e della Avarista, un Nolan Funk diviso dall’attrazione morbosa per la Lohan e quella sana per la compagna Gina, e la stessa Lindsay Lohan ossessionata dalla tresca pornografica, il vero oggetto del desiderio e soggetto stesso del desiderio – il narcisismo edonista del suo personaggio lo conferma – è in realtà Nolan Funk, e non la Lohan. Il giovane Funk è infatti l’unico a non esibirsi integralmente nudo, erotizzando il suo corpo in ogni inquadratura e l’unico, signori, a guardare in camera.

Oggetto e soggetto del desiderio, tenuti a giusta distanza dalla sterilità della messa in scena, si fondono in un unico personaggio, in un unico corpo attoriale,  e si confondono in un gioco di morbosità e ambiguità, purtroppo martoriate dalla grammatica ellittica adottata in più passaggi dal regista, per rivelare lo sconcerto tutto ellisiano dell’attrazione sessuale e del puro bisogno sessuale, del suo piacere fine a se stesso e del piacere della sua condivisione intima. La sterilità del corpo perfetto, della dotazione belluina, della copula facile e promiscua, osteggiate dalla ortodossia calvinista, sono, in The Canyons come in Spring Breakers (2012), allegoria dell’istintualità umana, oggi fuori controllo, ma pur sempre sacrosanta.

 

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati