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Gypsy

Regia di Martin Šulík vedi scheda film

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La recensione su Gypsy

di OGM
8 stelle

Il film slovacco candidato al premio Oscar 2012 è una storia di gitani. Vista dall’interno del loro mondo, dove quello che noi bolliamo come un comportamento antisociale è solo l’espressione di un universo in frantumi. Un popolo malvisto e diviso, schiacciato dalla necessità e non più autosufficiente, è un popolo senza futuro. Non bastano la libertà di costumi e la voglia di far festa a riempire la vita e creare una prospettiva per il domani: il piccolo Adam è il solo a rendersene conto, ma non sa come ribellarsi. Suo padre, che è stato trovato morto per strada, forse vittima di un incidente, continua ad apparirgli, per raccontargli la sua storia e ricordargli il senso della dignità, che impone di reagire alle ingiustizie. Adam vorrebbe andare a lavorare e sottrarsi all’autorità del patrigno, lo zio Zigo che ha sposato sua madre, e che pratica il furto e l’usura, costringendo i figli ad assisterlo. Intorno a sé, il ragazzino vede solo disonestà e violenza: l’unico rifugio sono la chiesa e la palestra gestita dal parroco, che ogni tanto frequenta, senza che, però, questo gli cambi la vita. La speranza di un riscatto lo lambisce,  ma non arriva a strapparlo ad una tirannica figura paterna che predica la diffidenza nei confronti dei bianchi ed applica la legge del più forte. Solo l’amore per Jula potrebbe accendere una scintilla di ottimismo in mezzo a tanto squallore: però anche lei partirà, per andare in sposa ad un ricco signore di città. Sembra la classica favola destinata a finire male, in quanto nata nel posto sbagliato; invece è solo lo spaccato di una realtà malata, ammorbata dalla mancanza di cambiamento e di apertura nei confronti del resto dell’umanità. Tra nomadi e stanziali non c’è dialogo, ma solo ostilità: un’orgogliosa chiusura, da entrambe le parti, impedisce di trovare un punto comune per avviare una convivenza serena. Paura e disprezzo hanno creato una barriera di incomunicabilità, che distorce anche i singoli tentativi di trasmettere un messaggio positivo. La situazione appare irrimediabilmente compromessa da una cecità che induce tutti a perseverare nel proprio errore. Questo film descrive il tragico stallo che tiene in ostaggio Adam, che non può scegliere, né crescere, perché è schiacciato dal doppio meccanismo del pregiudizio e del rifiuto di  esporsi al confronto per compiere autocritica. Le persone normali, che stanno là fuori, non vogliono che lo zingaro esca dal recinto per invadere i loro spazi, ed i suoi simili, da parte loro, fanno di tutto perché resti dentro, in mezzo a loro, come fedele seguace delle loro usanze. Il quadro è bloccato, i suoi colori sono bianco e nero, non vi sono sfumature in cui si possa annidare al poesia, se non in quei pochi, fugaci attimi di sogni adolescenziali, svaniti a causa della brutale volontà degli adulti. Ai giovani non è consentito provare ad essere qualcosa di diverso: questa è la premessa, valida in ogni contesto, dello scontro generazionale, che si manifesta nel modo che meglio corrisponde all’epoca e all’ambiente in cui esso ha luogo. Conosciamo bene le armi delle nostre rivolte, che, di solito, sono quelle che gli stessi genitori, inconsciamente, mettono in mano ai loro figli.  Questo film ci mostra quel che accade dall’altro lato della barricata, dove non abbiamo voglia di posare lo sguardo: l’insofferenza di un ragazzo nei confronti di regole divenute inaccettabili parla esattamente il linguaggio che ha imparato dalla sua gente. Il rancore e la vendetta sono sempre e comunque sbagliati, e non c’è motivo di considerarli più condannabili quando, semplicemente, assumono forme a noi estranee. Cigán ci presenta la realtà degli altri proprio come ce la immaginiamo, senza abbellirla retoricamente né ipocritamente metterla in dubbio: ci consente soltanto di vederla meglio, per poterci riflettere su, e, magari, convincerci come, altrove, possa risultare del tutto naturale anche ciò che non potremo mai comprendere.

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