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Storia segreta del dopoguerra: dopo la guerra di Tokyo

Regia di Nagisa Oshima vedi scheda film

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La recensione su Storia segreta del dopoguerra: dopo la guerra di Tokyo

di spopola
8 stelle

Tokio senso sengo hiwa, tradotto da noi Storia segreta del dopoguerra dopo la guerra di Tokio, potrebbe benissimo essere considerato il manifesto di quella che si definiva allora, come  la “teoria del passaggio”. E’ in ogni caso un’opera che si inserisce perfettamente e in maniera fortemente problematica nelle riflessioni socio culturali, oltre che nelle istanze politiche, proprie di quegli anni. Sono dunque a mio avviso tutt’altro che casuali, poichè  riflettono perfettamente l’aria di quei tempi, i riferimenti che accomunano alcune tematiche, per esempio con le riflessioni che riguardano le responsabilità personali trattate anche da Resnais in Muriel, o le implicazioni  fortemente psicoanalitiche che si avvicinano al Bergman di Persona, ma rivisitate con lo sguardo più disincantato e cinico dei “classici” apologhi godardiani del periodo, primi fra tutti Vento dell’est e La cinese.

La struttura perfettamente chiusa del film, acquista infatti un’indubbia efficacia narrativa chiarendo – e lo fa soprattutto in chiave prettamente politica - proprio i termini di un fallimento (la rivolta degli studenti) e le sue conseguenze, mentre la ricerca del protagonista (esplicitata principalmente “dal film nel film”) si articola e si muove attraverso una fitta rete di problematiche che fanno riferimento appunto proprio a un cinema  che interroga se stesso (J.L. Godard), in cui si pone una non facile scelta tra un’attività militante che rifiuta in pratica la funzione artistica del “mezzo”, subordinandolo a un ruolo più velleitario di documentazione, e la fuga soggettivistica di chi cerca invece di capire il mondo,  oltre che di esprimerne la propria visione, seguendo schemi appartenenti  a una cultura intesa soprattutto come  “rappresentazione” che vuole essere anche “testimonianza”, piuttosto che  semplice  intervento divulgativo di conoscenza.

Nell’opera in esame, ci sono antefatti importanti e fondamentali (proprio la storia di quel collettivo militante di studenti che perde progressivamente fiducia nella nozione di “cinema politico” fine a se stesso e come tale sterilmente perdente, per portare avanti la sua battaglia finalizzata ad affermare un diverso modo di intendere le immagini, più strettamente legato alla casualità dell’osservazione diretta delle cose).

Il protagonista, Motoki cerca infatti di ripercorrere l’itinerario che ha seguito prima di lui un  giovane suicida che gli ha lasciato come testamento un film (ancora la “doppia” espressione artistica che si compie dentro l’opera) fatto di paesaggi cittadini, banali e slegati,  quasi insignificanti che “restituiscono” la realtà non filtrata della vita. La ricerca, quasi  ossessiva operata in parallelo, lo porterà così  a scoprire dietro quei paesaggi all’apparenza ordinari e “senza storia”, i segni di continue, reiterate violenze delle quali è oggetto anche la sua compagna Yasuko, e alle quali  lei è costretta a soggiacere passiva, senza che nemmeno il suo uomo opponga alcuna apparente ribellione e resistenza.

Yasuko prenderà così lentamente coscienza del suo ruolo di vittima predestinata accettato senza reazione anche da Motoki, e superando con un coraggio tutto al femminile proprio la sua insipiente distruzione interiore, porrà coraggiosamente l’uomo di fronte alle sue responsabilità, costringendolo così ad affrontare il peso del  posizionamento di passivo testimone che si è assunto, che è già di per sé un suicidio  soprattutto “morale” senza alcuno sbocco o prospettiva. Anche Motoki allora, schiacciato sotto il peso della propria insipienza, si suiciderà, non tanto per una libera e consapevole scelta, ma perché comprende che solo in quell’atto estremo e senza ritorno, potrà ritrovare il senso del suo soggettivismo interpretativo delle cose e del mondo, che lo ha portato inesorabilmente a “non agire e ad identificarsi invece, ripetendo così le gesta,  del suicida che gli ha lasciato come testamento il film su cui ha lavorato così intensamente.

Il cerchio si chiude dunque con il pesante fardello di un pessimismo inesorabile, senza che vengano evidenziati risvolti positivi, o comunque effettive indicazioni di un superamento che potrebbe essere anche di semplice “presa di posizione” cosciente di un limite, poiché nemmeno il lavoro (e la visione) degli ottusi compagni di Motoki, burocrati senza storia di una rivoluzione che non è “rivoluzionaria”, si sviluppa poi in positivo, non riuscendo a loro volta ad identificare nel gesto del loro compagno, alcuno spunto concreto capace di rivificare una effettiva funzione rigenerante, tanto che preferiscono restare ancorati alla “negazione” persino dell’atto, dimenticando e cancellando così ogni propria funzione liberatoria  e di crescita non solo personale, ma principalmente ideologica e soprattutto emancipativa.

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