Regia di Laetitia Carton vedi scheda film
Un grande festival di danze popolari. Antiche e moderne, di ogni parte del mondo. E gli artisti siamo noi. Noi, che non sappiamo ballare.
Il luogo si chiama Gennetines. È un paese dell’Alvernia, nel cuore della Francia. E, per due settimane d’estate, è anche il centro del mondo. Ogni anno, nel mese di luglio, quello spazio immerso nel verde si riempie degli echi polifonici dell’intera umanità. Di suoni antichi, di voci forestiere, di corpi che non si sono mai visti prima, che vengono da chissà dove, e magari non si parlano, eppure si toccano, per pochi istanti, sorprendenti e irripetibili. Il festival del Grand Bal de l’Europe è la vorticosa sintesi dei tanti moti primordiali che avvolgono la nostra storia, mescolando istinto e disciplina, espressione aperta e tacita intesa, esibizione goffa e seducente mistero. Entrare in quel disordinato melting pot dal sapore un po’ così, come di pietanze casalinghe improvvisate per un ospite inatteso, è scoprire di essere persone qualunque, una fra le tante, uguale e disuguale nella indefinita imperfezione che ci rende indescrivibili, ogni a modo suo. Tutti siano fantasticamente ordinari, macchine di carne dai contorni poeticamente sfumati, tanto irregolari da incastrarsi senza indugio nel multiforme caos di una danza popolare intrecciata da maldestri sconosciuti. Impossibile restare a guardare dall’esterno, anche impugnando un microfono e una videocamera. Chi risponde alle domande forse non pronunciate, chi si offre come soggetto nella casuale ricerca di un’immagine, diviene sempre rivelatore di un pezzo di sé: un segreto finalmente condiviso, che riguarda un’espansione dell’io, che partecipa all’essere altrui, nel momento in cui due mani si intrecciano e due visi si sfiorano. È un’ancestrale profondità, formulata nel registro delle chiacchiere da bar e delle frasi ad effetto delle fiction, quella che l’obiettivo di Laetitia Carton coglie nei capannoni di una fiera, nei locali di una fattoria, fra la cucina da campo e le tende montate a casaccio fra l’erba e la terra battuta. La gente arriva per far festa senza sapere con chi e perché, vestendo gli abiti meno eleganti, rispettando orari da maratona e regole da caserma. Sceglie di sospendere ogni abitudine per buttarsi a capofitto in un mondo in cui la libertà è, semplicemente, un insieme di norme assurde: il fare non ha limiti, perché una legge rivoluzionaria impone di superarli tutti, quelli fisici della fatica e della capacità di apprendere, quelli emotivi del riserbo e dell’insicurezza, quelli logici che vogliono che l’intimità sia sinonimo di familiarità esclusiva ed appartata. Di giorno si va a lezione per imparare nuove danze, anche quelle dimenticate dal tempo, di notte si balla, fino all’alba, tutti insieme, ognuno per sé, oppure due a due, non importa: il movimento è comunque unico, corale, perché è una confusione priva di attriti e stonature, in cui le coppie nate dal nulla sono inghiottite dalla folla, eppure sono sole, nel condividere una sensazione muta e universale che segue passo passo le note. Questo film propone, nella sua disarmonica e spontanea alternanza di dialoghi e monologhi, musiche di sottofondo e melodie in primo piano, un viaggio travolgente attraverso le molteplici forme del non detto: il discorso, frammentario e variegato, parte sempre, per metà incompreso, da un’arcana premessa. Quella che, in un’epoca remota, in un posto che nessuno ricorda, ha generato il ritmo. Tanti ritmi, dotati di sensi diversi, che tutti capiscono al volo, senza però saperli spiegare.
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