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Sono la bella creatura che vive in questa casa

Regia di Oz Perkins vedi scheda film

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La recensione su Sono la bella creatura che vive in questa casa

di SamHookey
8 stelle

La bella creatura filmica di Perkins, piccolo e prezioso racconto di fantasmi

 
Al suo secondo film il buon Oz (che non è il biondo licantropo di “Buffy l’ammazzavampiri”) centra nuovamente il bersaglio, confermandosi regista da seguire e di cui parlare (in tempi in cui non è più di moda conoscere i nomi dei registi, soprattutto di quelli nuovi). Perkins ha uno stile riconoscibile e ben definito: pochi e sinuosi movimenti di macchina; ritmo lento (smettiamola di pensare che sia un difetto); cura maniacale dei dettagli; la solitudine come tema ricorrente; interesse per l’inconscio e il potere della suggestione; centralità delle figure femminili (mai soltanto vittime o stereotipate ‘final girl’ da salvare); atmosfere decisamente fiabesche. Infine, un’indefessa voglia di raccontare storie, che si traduce in un cinema alto ed elegante.
“Sono la bella creatura che vive in questa casa” è un piccolo e prezioso racconto di fantasmi (lo si capisce già dal titolo), di quelli che fanno salire i brividi sulla schiena prima di dormire. Le sue immagini, curatissime, sembrano illustrazioni uscite da un libro di fiabe per bambini: disegnate in modo eccelso, non fungono da ornamento ma sono parte integrante della storia. Quello di Perkins è un film d’atmosfere: siamo ancora capaci di sostenere un cinema fatto solamente di immagini, silenzio e suoni? O ci servono per forza le vuote seghe mentali di “Tenet”? La trama della “Bella creatura” è esile, classica, come nelle migliori storie di paura, perché ciò che conta è la situazione: un’infermiera deve badare a un’anziana scrittrice di romanzi dell’orrore, ma la casa ospita forse la presenza di una giovane donna uccisa e murata proprio lì tempo addietro. Fine. Le immagini e l’attenzione ai giusti dettagli fanno la differenza: le stanze in penombra che lasciano intravedere altre stanze, lo schermo spento di un televisore, una sedia appesa alla parete a testa in giù, un tappeto sgualcito, il filo lungo di un telefono, il fiore conservato tra le pagine di un libro, una macchia di muffa sul muro. Non è ciò che vediamo a generare paura, bensì ciò che non vediamo, quello che potremmo scorgere aguzzando bene la vista, come quando ci fermiamo sulla soglia di una stanza buia: il timore dell’ignoto che, attraverso l’immaginazione e l’affabulazione, può trasformarsi dapprima in ossessione e poi in fobia.
Tornano alla mente (anche per la radicale ambiguità di racconto) “Suspense” di Jack Clayton (1961) e “Gli invasati” di Robert Wise (1963), capolavori illustri di cui inspiegabilmente non si parla più. I quali continuano a ricordarci – come la bella creatura filmica di Perkins – che il nemico più temibile è, semplicemente, la paura stessa. L’unica, insieme alla solitudine, capace di generare i mostri di cui sono popolati gli incubi; giro di vite, tenaglia che ci soffoca senza scampo. Henry James docet.
Poscritto: il film di cui sopra (essendo distribuito da Netflix) non vedrà mai il buio della sala cinematografica, né potranno mai essere apprezzate appieno le preziose atmosfere di cui è ricco.
 
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