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Filmmaker 2023
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Mi trovo a Milano a sintonizzarmi sulle frequenze del FILMMAKER 2023, festival che dal 1980 celebra l'esperimento cinematografico nazionale e internazionale, su misura della più curiosa cinefilia milanese. Raccoglierò in questo post generali impressioni sul festival, andando aggiornandole giorno per giorno da oggi, 19 novembre, al venerdì 24 novembre, giorno in cui lascerò il capoluogo lombardo per raggiungere un altro festival, quello torinese, e iniziare un'altra corsa. Alcune piccole cose per film già visti verranno aggiunte in date diverse dal periodo suddetto secondo calendario del festival, per rendere conto anche di altri titoli.

Filmmaker Festival - festival - Filmitalia

17 novembre

Per l'apertura del festival la scelta è caduta su La Chimera di Alice Rohrwacher. Si può trovare qui il mio commento (negativo) al film.

Recensione: La chimera - Cineuropa

18 novembre

Il concorso internazionale del festival si è aperto con la proiezione del secondo capitolo della serie di documentari Nuit Obscure di Sylvain George. Sono tre ore di nuovo a Melilla, luogo di confine già esplorato nel primo capitolo in cui la vita di immigrati che vogliono attraversare lo stretto di Gibilterra e raggiungere l'Europa è una condizione derelitta che confonde, nelle sue nude fattezze, il pre-istorico e il post-umano. Si va dai graffiti di luce sulle onde del mare del primo capitolo, Feuillets Sauvages (Les brulants, les obstinés) fino alla maggiore compattezza del secondo capitolo, Au revoir ici, n'importe où, che ha quasi un protagonista nel giovane ragazzo immigrato che George segue in più occasioni. Il film ritorna a una struttura segmentata già tipica di Les eclats (2011), differente dalla fluvialità estensiva del primo film di cui parlai qui da Locarno 2022 e che imponeva un respiro più ampio e pachidermico: forse nel desiderio di inquadrare in modo più concreto e "contenutistico" alcune situazioni - forse nella legittimissima necessità di creare un ponte con i futuri capitoli della serie - George perde in plasticità cubista e recupera in umanesimo e ritrattistica, come se con questo (finora) dittico abbia replicato, con la larghezza opportuna di durate oceaniche, la differenza tra le due parti del suo titolo più celebre, Qu'ils se reposent en révolte (des figures de guerre) (2010). Sempre bello comunque tornare al suo bianco e nero, alla sua guerrilla cullante, che pur nel peso dei singoli movimenti di camera ha la levità di uno sguardo umile e invisibile.

Nuit obscure - Au revoir ici, n'importe où

19 novembre

La sera del 19 novembre al Cinema Arlecchino la visione di due film in concorso già ci trasporta dentro una selezione attenta a sguardi laterali, di primo impatto ipnotico, ambientati in luoghi alieni la cui dimensione fisica restituita dalla pellicola ambisce a incastrare lo spettatore in un ping pong fra riconoscibilità e irriconoscibilità, allineamento e straniamento.

Per prima cosa il breve corto El Chinero, un cerro fantasma di Bani Khoshnoudi: 11 minuti di mesta contemplazione di un luogo di morte, violenza e deportazione in Messico, sfondo di una barbarie che dietro le quinte veniva sfogata su cinesi e asiatici immigrati in Centro America negli Anni Dieci del Novecento. Uno dei tanti luoghi dimenticati dal mondo e dalla storia, enigmatico tanto più la cinepresa gli si avvicina, lo circonda, lo tocca con mano. All'interrogativo sul segreto del suo oblio, la collina El Chinero risponde senza parole ma con la sua pura massiccia presenza, e non si capisce se quella presenza così afona sia indifferenza o crudeltà calcolata. Le passeggiate della cinepresa sui luoghi desertici non possono non ricordare il vagare disperato e allucinante di Wang Bing in Traces (2014) e Dead Souls (2018).

El Chinero, un cerro fantasma (2023) - Filmaffinity

Dopodiché, si procede con un lungometraggio, L'albume d'oro di Samira Guadagnolo e Tiziano Doria. Qui di seguito un mio commento:

Il bianco e nero e la pellicola, l’otium e il negotium, il fisico e l’impossibile: accostamenti incommensurabili ne L’albume d’oro, primo lungometraggio di Samira Guadagnolo e Tiziano Doria, esperimento estivo di immagini fisse, contemplazioni in grandangolo, voci dal vuoto e miracoli meliesiani. Quattro puntate nella vita di alcune persone di campagna: un’anziana che fa miracoli con le galline, delle anziane che mangiano a tavola in mezzo alla natura, degli uomini che si addormentano e un uomo che realizza un innesto su una pianta. I quattro segmenti del film si rincorrono in una struttura allusiva e allegorica: le immagini sono fisse perché restano su persone, angoli e volti per svariati minuti; le contemplazioni sono in grandangolo perché scoprono, in una sfida visuale ai bordi del 4:3, un punto di vista imprendibile fra i rami e le foglie; le voci vengono dal vuoto perché in forma scritta su uno sfondo nero o da un fuoricampo che sembra irraggiungibile; i miracoli sono meliesiani perché arrivano in ogni episodio, uno alla volta, con un taglio in asse su dei frutti caduti da degli alberi o su un pollo cucinato che da dentro una pentola esce di nuovo vivo e pronto a volare e a beccare. 4 indirizzi in 4 episodi che sono una rêverie lunga una stagione, che dall’archetipo dei sogni di dipinti religiosi sfociano in silenti attimi sospesi fra gli alberi, un sapore di antico che sa di passato, di una semplicità sfuggente sensibile ai miracoli, una terra del possibile.

Piuttosto che sviluppare un lungo sogno, i due registi prediligono un insieme dell’accumulo suggestivo, rinunciando al raccordo e accostando i suoi momenti con il ritorno dei simboli e il reiterarsi delle allusioni. L’uso della pellicola e del bianco e nero, più immediato stratagemma per toccare con mano un mondo che non sembra nemmeno terrestre, mistifica il lavoro manuale, la semplicità agricola, arrivando a una beatificazione ascetica del mondo contadino come luogo di ritorno al gesto, al tocco, al tatto. Su brani ambient ipnotici che mai ben si integrano con i rumori in presa diretta – spesso isolati, direzionati, ingigantiti e resi espressionisti – il rivolo di suggestioni de L’albume d’oro, su un’esperienza di visione che sia tattile e fatta di pura energia (la citazione di Djibril Diop Mambéty, che invita a chiudere gli occhi per accedere a un nuovo mondo), si consuma in un catalogo di luoghi comuni del cinema sperimentale, che tende più ad astrarsi nell’alterità che non a guardarsi davvero attorno. Nell’acritica celebrazione di un candore sconosciuto piuttosto che nel dialettico confronto con uno sguardo palesemente estraneo e in attonito apprezzamento.

Filmmaker Festival 2023: 43 anni di cinema

20 novembre

La manifestazione prosegue nella serata del 20 novembre al cinema Arlecchino con due esperienze. 

La prima, Strade Perdute, è quella della compilation (a cura di Fulvio Baglivi e Cristina Piccino) di scene tagliate di alcuni registi amici del festival, propositivi nell'offrire alla visione dei momenti scartati di loro celebri titoli. Più che un film antologico, Strade Perdute è davvero un catalogo di suggestioni, ancor più efficaci se si conoscono i film pre-esistenti. L'haiku di poco più di un minuto di Michelangelo Frammartino riassume i binomi di luci e ombre de Il buco (2021); le Escadas di Julio Bressane, da O longa viagem do onibus amarelo (2023), è una sfilata impazzita di personaggi dei suoi film che salgono e scendono delle scale; il progetto mancato di Mauro Santini, Storia di una famiglia francese, è una raccolta di negativi di fotografie che uniscono l'intimità allusiva di una storia familiare al perturbante di forme oscure; il viaggio a ritroso su una strada ferrata sotterreanea in A ritroso di Alberto Momo scopre luoghi e spazi nuovi fra volti, falò, scintille e rumori di ferraglie tramite la sovrimpressione; Tonino de Bernardi prosegue sulla scia dei suoi ultimi progetti di home video itineranti; Massimo D'Anolfi e Martina Parenti regalano una divertentissima scena su una lezione di topografia fatta a dei militari già visibili nel loro splendido Guerra e Pace (2020); l'opening de L'intervallo (2011) di Leonardo di Costanzo si ripropone in un montaggio differente, con un approccio più raw, grezzo, come premonizione delle umide esplorazioni fantasmatiche dei due protagonisti del film; la scena tagliata da Menocchio (2018) di Alberto Fasulo è una scioccante seduta di stregoneria; addirittura la scena scartata da The Book of Vision (2020) di Carlo Hintermann riesce a recuperare lo spirito suadente e mortifero che il film a fatica conquistava; il frammento escluso (purtroppo) dal montaggio de Gli ultimi giorni dell'umanità (2022) di ghezzi e Gagliardo è un miracolo di semplicità unica, con Ghezzi che parla tenendo la camera su uno scoglio delle Eolie dialogando con se stesso e con altre immagini, come a decidere di un montaggio delle immagini al momento delle riprese, confondendo il profilmico in mille commoventi direzioni; la scena di Wanted (2023) di Fabrizio Ferraro, già presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, evoca un film diverso dal prodotto finito, con due personaggi che camminano e si interrogano sulla luce, sugli uccelli, sugli istinti, e - se si conosce il film originale - sul controllo del ritmo della vita da parte di forze sconosciute; la scena di Sylvain George è una corsa nella landa distrutta della Jungle della seconda parte di Qu'ils reposent en révolte (2010), con apparizioni scioccanti e poetiche di un gatto nero; con la scena mancante da The Walk (2021), Giovanni Maderna è l'unico (con Ruth Beckermann) a prendere la parola esplicitamente descrivendo la scelta di togliere dal suo film il vero finale, che finalmente può far vedere; proprio Ruth Beckermann, in Jackson/Marker 4 AM, si interroga su una sequenza girata per strada negli USA, mai messa in American Passages, e che ancora per lei ha un ascendente enigmatico insondabile; Stefano Savona porta altro materiale dal suo Le mura di Bergamo (a Berlino 2023); Claire Simon offre tre magnifici ritratti inediti dalla sua altrettanto magnifica enciclopedia antropologica Les bois dont les reves sont faits (2015); Bruno Oliviero restituisce pezzi dimenticati di umanità nelle scene scelte da Cattività (2019). 

La compilation verrà trasmessa su Fuori Orario venerdì 24 novembre, e resterà per 10 giorni su RaiPlay. Abbastanza imperdibile.

Gli ultimi giorni dell'umanità - Film (2022) - MYmovies.it

Dopo Strade Perdute, si prosegue col concorso internazionale: si tratta del piccolo Le Fardeau di Elvis Sabin Ngaibino, ambientato nella Repubblica Centrafricana, girato con pochissimi mezzi (ma con il francese Aide aux cinémas du monde e con l'italiana Rai Cinema) e incentrato sulla storia di un aspirante pastore cristiano che prima demonizza, col sostegno di un sacerdote, l'AIDS come punizione divina, e poi contrae la malattia anche lui e si ritrova costretto a ritrattare. Sebbene sia un film formalmente frustrante, che più che mantenersi secco e diretto evoca perennemente l'incertezza della regia e l'eccessiva prudenza nel generare enfasi drammatica, Le fardeau è sicuramente una finestra spalancata su mondi, ritmi, frasi e volti lontanissimi, spesso fuori dal cinema, e che si confrontano con la fede e il cosmico pur nell'isolamento e nella miseria del paese in questione. La forza con cui la storia si dipana nel bel mezzo di scenografie di povertà e affetti disperati è sicuramente degna di rispetto; manca, semmai, una mano organizzatrice che si faccia forte del piccolo, dell'isolato, dell'unicum geografico, dell'irripetibilità del fare esperienza di un cinema africano sempre laterale e collaterale.

Le fardeau», il coraggio di superare lo stigma | il manifesto

21 novembre

Al cinema Arlecchino viene proiettato Sparta (2022) di Ulrich Seidl, ultimo lavoro del celebre regista austriaco, secondo episodio del dittico Wicked Games che in forma compatta è stato proiettato al recente Festival dei Popoli a Firenze. Sparta, la cui distribuzione per festival è stata ritardata dopo polemiche più tardi smentite a proposito del tema del film e di alcuni avvenimenti dietro le quinte, prende in considerazione la storia del fratello del protagonista del primo wicked game, cioè Rimini, che lascia la famiglia e si trasferisce in Romania dove crea una sorta di comune-asilo, dove può farsi circondare da bambini per i quali prova una passione e un desiderio non accettabili. Quasi in continuità con l'episodio del pedofilo in Nymph()maniac (2013) di Lars von Trier, Seidl invita a perlustrare il desiderio giustamente frustrato del protagonista, che a prescindere da qualsiasi giustezza è comunque frustrato e sofferente. Il pedofilo di Sparta è un pedofilo che si ritrae, che non commette violenza né sorpruso, ma che decide in modo programmaticamente masochista di circondarsi di bambini da guardare ma non toccare. Il film diventa inevitabile esplorazione sullo sguardo come negazione, come ultima frontiera del desiderio, come palestra di sadismo autoinflitto, facendo tra l'altro vacillare - come in Rimini - le certezze dei tableux vivants del regista, e sciogliendole in una messa in scena più vistosamente nervosa e cinetica.

Sparta (2022) di Ulrich Seidl - Recensione | Cinema Austriaco

In contemporanea con Sparta, all'Arcobaleno Film Center viene presentato un programma che mette insieme Ritratto Temporale III - Alessandra di Ilaria Pezone e La misura del coraggio di Bruno Bigoni e Gruppo Maelstrom. Matteo Marelli, del comitato di selezione del festival, presenta l'accoppiata citando opportunamente Godard: '1+1 non fa 2 ma fa 3', perché l'incontro fra due soggetti dentro un film dà vita a una terza realtà e una terza via di espressione di quelle soggettività. Per l'appunto, i due film parlano di incontri, e di cosa quegli incontri hanno prodotto.

Ritratto Temporale III - Alessandra è il terzo capitolo della serie che Ilaria Pezone dedica ad alcuni artisti italiani che lei intervista e ritrae più ampiamente in un formato corto (19 minuti in questo caso) che risponda alle esigenze di uno sguardo attivo che replichi però le suggestioni dello sguardo dell'oggetto protagonista del film; per intenderci, il film è un accurato ritratto dell'opera di Alessandra, un'artista di Milano, ma è anche filtrato dalle scelte molto caratteristiche di Pezone, che già con Ritratto Temporale II - Emanuele lavorava al montaggio come a fare un collage di suoni e di interruzioni, che attivano la ricezione spettatoriale aspramente rispetto al procedere fluido della parola fuoricampo. Tra salti, cambi di contesto e split screen che indagano lo spazio fisico dello schermo, Pezone cerca una connessione fra il suo uso del suono e dell'immagine e la ricerca sinestetica della sua protagonista, che si interroga sul suono dello spazio che il corpo umano occupa nel mondo.

Ritratto temporale III - Alessandra - Ilaria Pezone (2023) - trailer IT -  YouTube

La misura del coraggio è invece una sorta di esperimento alla William Greaves (Symbiopsychotaxiplasm Take One, 1967) in cui un gruppo di tre giovani registe, che fa un documentario sui legami fra il femminismo contemporaneo e la lotta partigiana, si fa riprendere da un altro gruppo di giovani registi (per lo più uomini) coadiuvati dal regista, già navigato, Bruno Bigoni. Sguardi su sguardi, e cosa contengono quegli sguardi: sebbene si possa dibattere sulla ricerca di un piano conforme e unico fra gli sguardi fuori dalle barriere del gender - nella ricerca utopica dello sguardo puro fuor di sesso e orientamento - esplicitato dalle parole di una delle registe, La misura del coraggio si costruisce e si arricchisce proprio sulla base dell'esperienza del diverso, dell'alterità, dello sguardo sull'altro e dello sguardo dall'altro. La simpatica chiusa del film, con le tre ragazze che finalmente inquadrano il Gruppo Maelstrom come a rispondere a quello sguardo, non è una catarsi che ha finalmente portato all'uguaglianza ontologica di quegli sguardi; è piuttosto la ridiscussione di una gerarchia che un osservante impone sempre a un osservato, una promozione di una pari dignità. E la lotta fra sguardi, che viene messa in parallelo con la lotta partigiana della Val di Susa e con l'opera di Ada Gobetti, rende assolutamente l'idea che è necessaria una sintesi che non renda gli sguardi tutti uguali, ma che crei qualcosa di nuovo dallo scontro di sguardi inevitabilmente diversi, trovando arricchimento dove c'è conflitto. Altrimenti 1+1 farebbe 2, e invece è importante che faccia 3.

LA MISURA DEL CORAGGIO - crowdfunding

22 novembre

Mentre all'Arlecchino è la serata di Last Things di Deborah Stratman, che già da Berlino presentava un montaggio di luministica minerale e indagine sulle origini della terra e della geologia, all'Arcobaleno Film Center è stata la volta di altre due "Prospettive", quella di Lacrime di terra di Manuele Granelli, Ettore Rinaldi e Francesca Venzano, e quella di Buon Anno di Yichun Ma.

Lacrime di terra parla di abbandono: un luogo abbandonato, un tempo vissuto, che nel suo deserto presente nasconde le tracce dei movimenti passati, rievocati da materiali di repertorio accelerati, in cui il caos di corpi e figure in movimento ricorda i febbricitanti spasmi di gruppo delle formiche alla bocca del formicaio all'inizio del film. Cosa se ne va, cosa rimane: fantasmi.

NABA Cinema Awards 2023 | Lacrime di terra TRAILER - YouTube

È Buon Anno però la vera sorpresa della serata, forse anche del festival tutto. Semplice cronaca della notte del Capodanno cinese per una giovane ragazza cinese trapiantata a Milano per studiare: in differita col suo paese e quindi con tutta la sua famiglia, si prepara dei ravioli come da tradizione (ma preconfezionati), guarda lo spettacolo "Festa di Primavera" (ma sull'iPad), accende una candela scintillante (ma da sola, alla finestra, mentre fuori è buio e silenzio). Di fatto, la "semplice cronaca" della solitudine di una ragazza che in Occidente vive un mondo di libertà che è anche un mondo di isolamento, di vaga ghettizzazione: neanche i sogni la portano lontana, ma soltanto nella vicina metro lilla. Tra lievi simbologie (il maiale animato che corre sulle ferrovie) e dolci contemplazioni (la lunga sequenza della preparazione del cibo per i gatti), Buon Anno setaccia la condizione di vita di una persona immigrata in Italia, ricattata emotivamente dalle telefonate della madre in Cina e dotata invece di un pacato spirito ribelle. La cosa che davvero stupisce di Buon Anno è la nudità dello sguardo della regista, la sfacciataggine di un montaggio approssimativo, amatoriale, pieno di errori, di out of focus fuori posto, di riflessi che mostrano la camera: sebbene durante il dibattito Yuchin Ma abbia ammesso di non essersi accorta dei riflessi - bisogna crederle? - l'effetto è felicemente straniante. Perché è il suo fantasma che attraversa la vita della protagonista, come una consolazione metafisica di compagnia nella solitudine del suo isolamento. E la restituzione di un momento reale, senza filtri e senza barriere.

BUON ANNO di Yichun Ma

23 novembre

Oltre ad essere il giorno de Le mura di Bergamo di Stefano Savona, già visto a Berlino 2023, è il giorno di Background di Khaled Abdulwahed, vincitore del FID Marseille di quest'anno e in concorso internazionale qui a Filmmaker. Il racconto per sottrazioni e sottintesi del padre del regista, che racconta del tempo trascorso in Germania negli Anni Sessanta mentre Abdulwahed, ascoltandolo, smonta e rimonta le poche foto rimaste di un periodo dimenticato. Una lotta contro l'oblio della memoria a cui si sostituisce l'immaginazione; la condivisione di un racconto per colmare una distanza altrimenti incolmabile; la voce piena di tosse e singhiozzi del padre al telefono mentre il figlio cerca di chiedergli più informazioni, più dettagli. Il film è straziante e Abdulwahed trova qualsiasi soluzione possibile per rendere l'idea di una distanza siderale e cosmica, a tal punto che le voice over provenienti dalla conversazione al telefono registrata col padre nel 2019 sono voci separate: o sentiamo solo le domande del regista o sentiamo solo le risposte di suo padre. Perché Abdulwahed non può fare a meno di credere che pur nel dialogo quello che sta facendo è un sforzo monologico, più solitario che solipsistico, in cui anche il più fisico dei gesti si perde nel vuoto.

Background (2023) | MUBI

24 novembre

Il cinema Arlecchino, in serata, nel mio ultimo giorno di Filmmaker, impila tre proiezioni, quella fuori concorso di Lovano Supreme di Franco Maresco e quelle dei film in concorso Loving in Between di Jyoti Mistry e Being in a Place: A Portrait of Margaret Tait di Luke Fowler. 

Lovano Supreme è una straordinaria ode alla storia del jazz come luogo di diversità e sintesi di culture, reazioni e tradizioni. La visita del saxofonista tenore Joe Lovano nella Sicilia che era dei suoi nonni (nelle località di Alcara Li Fusi e Cesarò) è occasione per Maresco di muoversi, con rinnovata energia narrativa, fra la storia di John Coltrane fra Miles Davis e Ascension e la storia della famiglia Lovano, e del motivo della musica come tratto comune a diverse generazioni. E' facile riconoscere Maresco dalla raffigurazione di una Sicilia sincera ma folklorica, che lui guarda con un certo imbarazzo mentre Joe Lovano, come novella Letizia Battaglia, guarda con ammirazione e commozione; è meno facile riconoscere in Maresco invece una gioia e un'allegria vere per qualcosa - nonostante la sua estesa produzione di documentari musicali - che però è, evidentemente, qualcosa di lontano dalla realtà di tutti i giorni. Il confronto costante fra il jazz e la popolarità è forse il realizzarsi per via cinematica di un'utopia che riporti un genere musicale folgorante e sempiterno all'apprezzamento collettivo come forza pacificatrice e sintetizzatrice fra culture. 

Lovano Supreme», la felicità di reinventare il gesto del cinema | il  manifesto

Il corto Loving in Between, in concorso internazionale qui al Filmmaker, è uno dei montaggi più vorticosi e funambolici di materiali d'archivio capitati di recente sui grandi schermi festivalieri. A partire dalla poesia Advice di Langston Hughes, che celebra l'amore in tutte le sue forme, Jyoti Mistry tenta in 18 minuti di celebrare anche l'immagine in tutte le sue forme facendo incontrare occhi inediti, sguardi su corpi non conformi - molto materiale viene da ricchissimi archivi olandesi - e rivelando la pellicola cinematografica come testimone di varietà, amore libero e gioia condivisa fin da tempi non sospetti. Se non dovesse sorprendere la costante rottura del formato ad opera di uno stormo di uccelli argentati che uniscono idealmente il collage virtuosistico su un'unica traccia, può sorprendere il forte colore del sottofondo musicale, che da canto corale spiritual degno dei riverberi più astratti di Jane Siberry verte su una musica tribale e ancestrale di grande passione verso il climax che illumina il titolo del corto in chiusura. Una piccola sorpresa: può apparire ovvia nei contenuti (ovvia non è) ma rivela una passione tecnica quasi memorabile.

Loving in Between 02

Infine, Being in a Place: A Portrait of Margaret Tait prende in considerazione la produzione cinematografica indipendente della regista scozzese del titolo attraverso un "repertorio fuggitivo" ritrovato dentro un capanno di una cosa dove la donna abitava col marito. In costante tensione verso la ricchezza del cinema europeo e la povertà della produzione scozzese, sospinta verso un uso poetico dell'immagine cinematografica contro la documentazione, Margaret Tait - anche poetessa - sviluppa una tecnica e una modulazione del visivo degna del documentario d'osservazione più ascetico, per il quale lo scopo è la restituzione tridimensionale e prospettica di un luogo senza una sua forzata contestualizzazione geografica, storica o antropologica - che spesso comunque viene da sé con l'incontrarsi di immagini e paesaggi. Il film procede con un ritmo slabbrato, come la descrizione di una costellazione, e da un'idea fisica (quella di Tait) sull'essere presenti in un luogo risponde con un'idea astratta (quella di Fowler) di essere coscienti di un altro sguardo, nel tentativo di sensibilizzare sull'originalità di un'artista dimenticata. Forse però il montaggio compassato e la soundtrack perturbante sono troppo invadenti, e rendono uno sguardo trascendente ma corporeo in una raccolta di messaggi da uno spazio sconosciuto: Fowler non si decide mai fra la documentazione rigorosa (intere lettere da leggere sullo schermo) e il valzer paesaggistico, e alla fine mantiene la produzione di Tait aliena e distante come accecato da un oscuro rispetto.

Being in a Place – A Portrait of Margaret Tait – BFMAF

 In chiusura di questo post a proposito di un festival così originale e inetichettabile, la menzione al grandissimo film di Claire Simon, Notre Corps, che verrà proiettato il 26 novembre. Oggetto labirintico, di passione documentaria irripetibile, di cui parlai qui da Berlino e che, per merito di Filmmaker e di altre realtà come il Sicilia Queer filmfest, sta facendo un tour dell'Italia. Cercatelo, guardatelo, ringraziate chi ve l'ha portato, perdetevici dentro.

Notre corps" di Claire Simon | Institut français Palermo

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