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Zembla(nce) - Prima Parte
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Would you read to me?

Blade Runner 2049 è stato uno dei grandi flop della stagione cinematografica del 2017. Le ragioni dell’insuccesso del film di Villeneuve sono state spiegate in numerose recensioni e opinioni sparse sul web, che si concentrano sulla pochezza narrativa astutamente occultata dalla resa visiva. Non è mia intenzione entrare nel merito dei singoli giudizi, quasi sempre ben argomentati; vorrei invece concentrarmi su altri elementi di Blade Runner 2049 – da ora in avanti abbreviato in BR49 – molto stimolanti per osservare il film da una diversa prospettiva, che non sia quella ormai consunta delle analisi troppo entusiaste o troppo negative su questioni di carattere tecnico.

Per farlo, parto evidenziando una serie di spunti che BR49 fornisce allo spettatore nel corso del suo svolgimento. Il primo stimolo si trova nella sequenza del rientro di K alla stazione di polizia, quando è sottoposto al Post-Traumatic Baseline Test: la prova consiste nel rispondere alle domande di un interlocutore fuori campo con lo scopo di saggiare la stabilità emotiva del replicante a seguito di un evento stressante; non importa il contenuto delle risposte, quanto l’atteggiamento di K mentre risponde, per verificare se ci si può fidare ancora di lui. Il testo che il protagonista ripete è il seguente:

K (O. S.):

“And blood-black nothingness began to

spin / A system of cells interlinked

within / Cells interlinked within cells

interlinked / Within one stem.”

[…]

K (O. S.):

“And dreadfully distinct / Against the

dark, a tall white fountain played.”

Recupero le battute direttamente dalla sceneggiatura del film per una maggiore accuratezza e in lingua originale, dal momento che l’adattamento commette l’errore grossolano di tradurre il termine «cells» con «celle» invece di «cellule». Tralasciando le notazioni filologiche, una resa accettabile in italiano del testo, pur con differenze da non sottovalutare, potrebbe essere la seguente:

[…] e un nulla nero-sangue si mise a far girare

un sistema di cellule intrecciate con

cellule intrecciate con cellule intrecciate

dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida

sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.

Durante la prima visione, al pubblico si presentano due problemi di carattere pratico: in primis, è difficile cogliere le parole sia per la velocità con cui vengono pronunciate sia perché la concentrazione è ancora tutta rivolta allo svolgimento della storia appena iniziata; in secondo luogo, la stessa scena svia continuamente l’occhio dello spettatore su altri elementi. Oltretutto, qualora si riuscissero a intendere le battute, manca qualsiasi appiglio che possa anche solo permettere di capire – figuriamoci interpretare – il contenuto del brano. Lo spettatore è dunque portato a trascurare le battute e a passare oltre.

Nella scena successiva, K torna a casa e viene accolto da Joi, l’intelligenza artificiale programmata come compagna. Per cercare di risollevare il morale del replicante, l’ologramma della ragazza prende in mano da un tavolo l’immagine virtuale di un libro, che viene così a trovarsi a favore di camera, al centro dell’immagine: si tratta di Pale Fire (Fuoco Pallido) dello scrittore russo Vladimir Nabokov. L’inquadratura dura non più di qualche secondo, il tempo di permetterci di leggere il titolo, prima che il libro venga accantonato per passare a una ben più entusiasmante proposta di ballo. Leggiamo nella sceneggiatura del film come viene raccontato il momento, a partire dalla descrizione dell’appartamento di K:

A sparsely adorned space in clear contrast to his neighbors. No pretense of cultural heritage. A simple chair. On its arm a valueless paperback novel, well-thumbed, noted, creased. Nabokov’s maddening “PALE FIRE” as it happens, not that we make thing of it.

[…]

Her form seamlessly reverts back to her lissome baseline. Companionate, respectable, smart. The way he likes her. She “picks up” his copy of “Pale Fire”, hoping to cheer him up.

JOI:

Would you read to me? I’m dying to know what happens next.

K:

You hate that book.

K smiles. She throws the book behind her back. The book disappears as it flies.

JOI:

I don’t want to read either. Let’s dance.

La presenza della copia di Pale Fire – «well-thumbed, noted, creased», definito «maddening» – è così fugace, da sembrare di primo acchito un riferimento gratuito. Eppure, la scelta di Villeneuve di concentrarsi sul libro in due inquadrature è un chiaro invito a indagare sul valore della sua presenza nel film. Sia questa scena appena citata sia la precedente del test hanno un collegamento molto stretto: se uno spettatore incuriosito andasse a cercare l’origine del brano di K, si accorgerebbe che è tratto proprio da Pale Fire. Non è finita qui, perché arriva nuovamente in soccorso la sceneggiatura a rafforzare le nostre osservazioni: nella stesura iniziale, poi modificata, Pale Fire sarebbe dovuto ricomparire in altri tre momenti. Il primo è la scena in cui il tenente Joshi fa visita a K nel suo appartamento:

She empties her glass. Pours again. K’s eye doesn’t leave her pour – we see she is using K’s single beloved book for a coaster, spills a little. No idea it’s precious to him.

In questo caso il libro viene descritto come «beloved» e «precious». La sequenza successiva vede Luv, l’agente inviata da Wallace, introdursi nell’appartamento del fuggitivo K per ottenere informazioni sulla sua meta:

LUV

Enters. Shuts the now broken door behind her. Scans the small space quickly. Ascertaining it all at a glance.

Her eyes lands on… Sapper’s glasses. Then –

K’S BOOK. She studies its cover.

La terza apparizione di Pale Fire si trovava nel momento della morte di K, una scena che avrebbe dovuto essere più estesa:

MOVE CLOSE ON K’S FACE. His eyes catch something near him only he sees. A warm FALSE VOICE comes, calming:

JOI (V.O.):

Would you read to me?

Just as she said when we first met her. K smiles at this ghost face of memory. Of course. A thready whisper of his baseline. Their old favorite.

K (V.O.):

“And blood-black nothingness began to…

spin… a system of cells interlinked…

 

INT. HALLWAY. LAB BUILDING

Deckard walks toward the door. Halts before entering.

K (V.O.):

…Within… cells interlinked within

cells interlinked… within one stem…

 

EXT. SKIES ABOVE LOS ANGELES. DAWN.

The fog recedes, a brief glimpse of true sky before the wool sweater clouds return.

K (V.O.):

…And dreadfully distinct… against the dark…

 

EXT. SNOW FIELD. DAWN.

ON K. Slipping. Barely audible.

K:

…A tall white fountain played…

 

He looks up at the snowy sky.

And dies.

Di questi estratti della sceneggiatura rimangolo soltanto alcune tracce nel film arrivato in sala, tuttavia essi sono prove utili a sottolineare l’importanza data a Pale Fire all’interno della struttura dell’opera. Chiediamoci, dunque: che legame intercorre tra BR49 e il libro di Nabokov? È possibile interpretare il film di Villeneuve alla luce del contenuto di Pale Fire?

Prima di tutto va ricordato che la saga non è affatto nuova alle contaminazioni con la letteratura, anzi essa ne rappresenta la base di partenza: il Blade Runner del 1982 nasce dal classico della fantascienza statunitense Do Androids Dream of Electric Sheep? (Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, 1968) di Philip K. Dick, ampiamente rimaneggiato nella sceneggiatura prima di Hampton Fancher e poi di David Webb Peoples; l’originale non porta direttamente in scena il libro, anche perché le sue tracce sono presenti a ogni livello. Se confrontiamo l’uso dell’elemento letterario da parte dei due film, è come se il sequel cercasse di distanziarsi e allo stesso tempo di richiamare il film di Scott attraverso l’adozione di un’ispirazione autorevole, così da impostare un dialogo attraverso le epoche. Potremmo meglio riassumere dicendo che BR49 è una sorta di riflesso alterato di Blade Runner: sembra parlare delle stesse cose, quando invece racconta altro e ne aggiorna i contenuti alla contemporaneità.

 

La luna è una ladra incallita 

Lasciando da parte il film per un attimo, concentriamoci nello spazio di questo paragrafo sul libro e sull’autore. Esule russo poi emigrato in America, Vladimir Nabokov è stato uno degli scrittori più eclettici del Novecento, ideatore di romanzi che sono giochi enigmistici, partite a scacchi – di cui era teorico e appassionato – con i lettori, costantemente sfidati nella comprensione di quanto stanno leggendo. Corrispondono alla descrizione tutti i lavori dell’autore, inclusi i capolavori del periodo americano, Lolita (1955) e Ada or Ardor: A Family Chronicle (Ada o ardore: Una cronaca familiare 1969).

Anche Pale Fire (1962) rientra a pieno titolo nel novero dei romanzi-rompicapo e, secondo la maggioranza dei critici, rappresenta il culmine della creatività di Nabokov, nonché uno degli apici della narrativa moderna. Si tratta di un’opera problematica da analizzare, pensata per generare innumerevoli interpretazioni, talvolta contraddittorie tra loro, alimento per decenni di studi letterari. A metà tra le sperimentazioni del modernismo e l’incipiente narrativa postmoderna (Thomas Pynchon fu per breve periodo allievo di Nabokov e il suo primo romanzo, V., uscì l’anno successivo), in Pale Fire è quanto mai riduttivo concentrarsi solo sulla trama, pur presente e intricata, poiché una grande novità è rappresentata dalla struttura del libro, che gli ha valso la definizione di primo esempio di romanzo ipertestuale insieme al quasi coevo Rayuela (1963) di Julio Cortázar.

All’apparenza, il libro sembra la perfetta replica dell’edizione critica di un testo letterario, divisa in quattro sezioni: una prefazione a cura del professor Charles Kinbote, originario di un paese chiamato Zembla; un poema in distici eroici intitolato Pale Fire scritto da John Shade, celebre accademico e poeta americano deceduto; il commento dell’opera composto da una fitta serie di note e l’indice analitico, entrambi curati da Kinbote. Poiché apparentemente non c’è un vero e proprio ordine da rispettare, il lettore può scegliere quale parte affrontare per prima e quale saltare, quante note leggere e se leggerle di pari passo allo scorrere del poema oppure leggere le due parti separatamente; a seconda delle scelte, il romanzo si presenterà ai suoi occhi in modo diverso: l’ipertestualità si concretizza, dunque, nel superamento del vincolo della sequenzialità di lettura.

Il poema di Shade, centro della struttura del libro, prende il titolo da una coppia di parole contenute in un verso tratto da The Life of Timon of Athens (La vita di Timone d’Atene, 1605-1608), tragedia tra le più complesse e di difficile interpretazione di William Shakespeare. L’espressione «fuoco pallido» è legata a un momento in cui il protagonista Timone, nobile facoltoso che sperpera i suoi averi elargendo doni agli amici, in un delirio paranoide arriva a sospettare di tutto e tutti, persino degli elementi naturali (atto IV, scena III):

The sun’s a thief and with his great attraction
robs the vast sea. The moon’s an arrant thief,
and her pale fire she snatches from the sun.
The sea’s a thief, whose liquid surge resolves
the moon into salt tears.

 

Il sole è un ladro e con la sua forza d’attrazione

deruba il vasto mare. La luna è una ladra incallita,

e il suo fuoco pallido lo strappa al sole.

Il mare è un ladro, la cui massa liquida tramuta

la luna in lacrime salate.

La citazione evidenzia metaforicamente la caratteristica peculiare del libro, che il lettore ha modo di scoprire soltanto leggendolo: il professor Charles Kinbote si appropria dello spazio normalmente dedicato all’analisi filologica per fornire al lettore informazioni che non riguardano i versi di Shade, bensì sé stesso e il suo passato. Le note non aiutano a chiarire la figura dell’autore originale, ma anzi vengono sfruttate per fungere da commentario di un’opera che – stando alla testimonianza dell’inattendibile curatore – Shade avrebbe dovuto scrivere sui trascorsi di Kinbote. Quest’ultimo ruba quindi il senso del poema di Shade, così come la luna ruba la luce al sole. Il suo fuoco non è vivo, ma pallido: la luna vive di luce riflessa del sole, così come Kinbote vive del riflesso di Shade, il cui nome significa non a caso «ombra». Kinbote non si eclissa come un qualsiasi critico dovrebbe fare nel commentare un altro autore, ma anzi ci tiene a far percepire il peso della sua ingombrante presenza al lettore.

Pale Fire, poema di novecentonovantanove versi divisi in quattro canti, è un resoconto lirico della vita di John Shade e della moglie Sybil, segnata dal doloroso suicidio per annegamento dell’amata figlia Hazel, che trasforma il testo in una toccante meditazione sulla morte e sull’impermanenza delle cose filtrata attraverso l’esperienza dell’arte poetica. L’apparente semplicità dello stile del testo non deve trarre in inganno: descrivendo la propria esistenza e l’accettazione del dolore, Shade rende Pale Fire un’opera fortemente autobiografica e metafisica, arrivando a immaginarsi l’esistenza di un al di là per cercare di lenire la sofferenza derivata dalla perdita della figlia. Nonostante l’oscuro abisso di morte che lo perseguita fin da quando vide morire i suoi genitori da bambino, Shade rischiara la narrazione descrivendo felici momenti di vita, piccoli gesti e semplici gioie quotidiane esperite insieme all’adorata moglie.

La serenità, tanto faticosamente tenuta in equilibrio dopo un evento così tragico, è però destinata a svanire nel modo più inaspettato, a dimostrazione della sostanziale inutilità della logica umana e della beffarda assurdità del caso: Shade muore, ucciso per errore dal colpo di pistola di un sicario che sbaglia bersaglio, mentre sta attraversando il giardino di casa di Kinbote, suo vicino. Nella concitazione del momento, Kinbote si premura di immobilizzare il criminale e subito dopo trafuga il manoscritto di Pale Fire, che Shade stava portando con sé per farglielo leggere. Sfruttando la debolezza della vedova Sybil, il professore riesce a ottenere il permesso di curare la pubblicazione del poema, di fatto appropriandosene.

Il risultato di questo furto è proprio la terza sezione del libro: nella stesura delle note, Kinbote abbandona progressivamente la letteralità del testo e lo interpreta a modo suo, sostituendo il mondo semplice e dimesso ritratto dal poeta con il proprio, fantasioso e complesso. Si viene così a scoprire l’ossessione di Kinbote per il defunto Shade, che lo aveva indotto a comprare una casa accanto alla sua e a spiarlo costantemente, allo scopo di diventargli amico per convincerlo a includere all’interno di Pale Fire i racconti del suo passato. Kinbote non si presenta come un semplice emigrato, ma suggerisce al lettore di essere in realtà Charles il Beneamato, ultimo re di Zembla fuggito in America sotto mentite spoglie, a causa di una rivolta orchestrata da alcuni estremisti politici.

Alla storia contenuta nel poema e a quella raccontata dal commentatore nelle note si aggiunge infine una terza e ultima linea narrativa, più labile e sotterranea, molto probabilmente inventata dallo stesso Kinbote: un gruppo di ribelli zemblani decide di inviare un sicario negli Stati Uniti con il compito di trovare e uccidere il re fuggiasco. L’uomo scelto è Jakob Gradus, assassino temibile quanto imbranato che, arrivato a un passo dal compiere la missione, sbaglia obiettivo sparando al povero Shade. Tutto il libro è dunque attraversato da un presagio di morte, sempre più opprimente man mano che si avvicina la tragica conclusione: con una maestria sbalorditiva Nabokov riesce a intrecciare lo scorrere del testo principale, rappresentato dall’opera in versi di Shade, con il procedere delle note di Kinbote insieme all’inesorabile cammino di Gradus, partito da Zembla proprio nello stesso giorno in cui Shade aveva iniziato a scrivere Pale Fire.

Quanto detto fin qui è solo un tentativo di semplificazione del contenuto del libro, che di fatto sfugge a una qualsiasi possibilità di sintesi. Invito, perciò, alla lettura tutti coloro che volessero mettersi alla prova con una delle opere più intellettualmente stimolanti del Novecento, definizione che si adatta anche a tutta la produzione romanzesca di Nabokov.

Per avvicinarci progressivamente a BR49, alla maniera di Gradus con la sua vittima, cominciamo a evidenziare alcuni aspetti del romanzo: la problematica principale a rendere Pale Fire così complesso è l’estrema difficoltà di risalire alla verità dei fatti, a causa della presenza di un narratore inaffidabile. Per quanti hanno familiarità con gli stratagemmi narrativi usati da Nabokov, la cosa non apparirà affatto strana: se prendiamo l’esempio del ben più famoso Lolita, notiamo come le parole del protagonista Humbert Humbert non possano mai essere prese completamente sul serio, per motivo del suo coinvolgimento diretto nelle vicende che racconta. Laddove però in Lolita la prefazione avverte il lettore delle trappole della voce narrante non sempre veritiera, al contrario in Pale Fire la distanza tra lettore e personaggi si annulla anche a livello del paratesto, generando così la massima incertezza, cui si aggiunge la complessità interpretativa dovuta alla presenza di non uno, ma ben due autori fittizi – Shade e Kinbote – che vanno a sovrapporsi all’autore reale del libro.

Le note di Kinbote non possono avere alcuna pretesa di completa attendibilità, sia sul contenuto del poema di Shade sia sul racconto del suo stesso passato. Più ci si addentra nel romanzo e più emerge il temperamento – a tratti delirante e a tratti paranoico – di Kinbote, che mina alla base la credibilità del personaggio. Il lettore si ritrova smarrito davanti alla difficoltà di stabilire con chiarezza se quello che gli viene raccontato sia reale oppure no, tema molto caro a Nabokov che ricorre nei romanzi attraverso la presenza di specchi reali e metaforici, simboli del mondo dell’arte letteraria.

Pale Fire aggiorna questo tratto tematico incorporando nella struttura stessa del libro l’idea di riflesso. Scrive Azar Nafisi a riguardo: «Per esempio, il commento di Kinbote, con la prefazione e le note, è uno specchio posto di fronte al poema di Shade, ma anche l’opera di Shade è uno specchio, nel quale si osserva il riflesso del suo mondo interiore. Allo stesso modo, lo specchio posto da Kinbote di fronte alla poesia di Shade rivela il mondo interiore di Kinbote. I due specchi, quello di Shade e quello di Kinbote, si guardano, e così nel riflesso di una mente percepiamo il riflesso dell’altra». Lo specchio rimanda al concetto di illusione, evocata attraverso l’uso reiterato della parola «shade» – che significa certamente «ombra» ma anche «fantasma», «parvenza» – e tramite l’idea di duplicazione di un’immagine riflessa, suggerita fin dalle primissime righe del poema:

I was the shadow of the waxwing slain

by the false azure in the windowpane;

I was the smudge of ashen fluff – and I

lived on, flew on, in the reflected sky.

And from the inside, too, I’d duplicate

myself, my lamp, an apple on a plate:

uncurtaining the night, I’d let dark glass

hang all the furniture above the grass,

and how delightful when a fall of snow

covered my glimpse of lawn and reached up so

as to make chair and bed exactly stand

upon that snow, out in that crystal land!

 

Ero l’ombra del beccofrusone ucciso

dall’azzurro ingannevole nel pannello di vetro;

ero la macchia di cinerea lanugine – e

ancora vivevo, volavo nel cielo riflesso.

E anche da dentro, si, mi sdoppiavo,

e con me il lume e una mela sul piatto:

scostando la tenda alla notte, lasciavo che il buio

specchio sospendesse il mobilio sopra l’erba,

e quale fu l’incanto quando una nevicata

coprì la fugace visione del mio prato

tanto che sedia e letto stavano esattamente

sulla neve là fuori, in quella contrada di cristallo!

La strofa iniziale, composta da dodici versi di sei distici rimati, contiene un’immagine di straordinaria bellezza: un beccofrusone, uccello simile al passero, muore colpendo il vetro della finestra di un’abitazione, ingannato dal riflesso del cielo che scambia per il cielo reale. Shade osserva la scena da una stanza e si immedesima nell’ombra dell’uccello, che continua a vivere e volare all’interno del riflesso, separata dal suo proprietario. Nella seconda metà della strofa la metafora del poeta prosegue: Shade si vede replicato sul vetro della finestra insieme a un lume e a una mela su un piatto, appoggiati sul tavolo della camera; spostando la tenda che da sul giardino buio, ciò che il poeta scorge attraverso il vetro è una perfetta copia della stanza riprodotta sull’erba con tutto il mobilio, resa ancora più suggestiva dalla discesa della neve, che ricopre il prato ma ovviamente non gli oggetti riflessi.

È importante evidenziare che nella prima nota del commento Kinbote analizza attentamente i versi, abbandonandosi ad alcune digressioni, ma commette un errore cruciale quando identifica Shade con il beccofrusone ucciso e non con la sua ombra; è questo un indicatore del problema alla base delle glosse di Kinbote, che insiste nel voler interpretare le immagini create dal poeta come se fossero reali, quando invece sono soltanto repliche della realtà utilizzate a scopo artistico.

La metafora pensata da Shade è tanto sofisticata nella forma quanto semplice nel significato: il beccofrusone è vittima di un evento traumatico che lo porta alla morte, così come l’autore è un genitore impotente davanti al suicidio della figlia. C’è un prima e un dopo la tragedia, dalla quale Shade esce inevitabilmente cambiato, non più sé stesso. Come conseguenza – sia nel caso dell’uccello morto a seguito dell’impatto, sia nel caso del poeta addolorato per il lutto – a sopravvivere sono le versioni immateriali e inconsistenti di entrambi, simboleggiate dall’ombra del beccofrusone librata nel cielo riflesso e poi dalla stanza replicata sul prato sotto la neve.

 

Simulacri 

A questo punto possiamo tornare al cinema: sia Blade Runner che BR49 si aprono con l’inquadratura di un occhio a indicare l’importanza dello sguardo come elemento privilegiato per la comprensione di entrambi i lungometraggi. Alla vista è strettamente connesso il modo in cui ci approcciamo al mondo circostante e attorno al potere dell’immagine tecnologica gravitano i due film. Tuttavia, i riferimenti di Villeneuve non sono mere citazioni inserite per il piacere di omaggiare il capolavoro di Ridley Scott, ma sono piuttosto dei riflessi alterati, fantasmi di un passato svanito rappresentato dall’originale. Ancora più del primo capitolo, infatti, BR49 è un continuo proliferare di ologrammi, simulazioni e immagini artefatte: copie fredde e sintetiche della realtà.

A livello superficiale è facile notare come persino l’idea alla base del sequel sia un doppio speculare dell’originale: in Blade Runner l’umano Rick Deckard si trova davanti al dubbio di essere un replicante, invece in BR49 l’androide K è guidato dalla speranza di essere un umano; l’inversione del punto di vista comporta uno sviluppo radicalmente differente, sebbene una delle critiche al film sia quella di essere una copia malriuscita del classico dell’82.

Se da un lato l’opera di Villeneuve si allontana dai binari del predecessore, continuando contemporaneamente a richiamarlo, dall’altro si avvicina molto a Pale Fire: alla maniera in cui Kinbote si autoproclama vero destinatario del poema e cerca di convincere il lettore a riconoscerlo come il re di Zembla, così K è persuaso da una serie di avvenimenti esterni di non essere un replicante e si crede addirittura il prescelto a guidare la rivoluzione degli androidi. La fantasia di Kinbote è rassicurante perché mette ordine nella sua immaginazione distorta, così come la teoria di K è seducente poiché gli permetterebbe di riscattare un’esistenza condannata a essere la copia sbiadita della condizione umana, fatta di sentimenti autentici ed emozioni da cui gli androidi sono esclusi per natura.

Anche il modo in cui BR49 racconta la storia di K è simile alla narrazione ingannevole di Nabokov: dapprima la sceneggiatura presenta il personaggio di Ryan Gosling come un replicante, per poi suggerire agli spettatori il dubbio sulla reale natura del protagonista, dilemma che però non ha basi concrete, se non quelle costruite a posteriori dall’androide. Il senso di straniamento prodotto dal film è dovuto al fatto che K non è il protagonista, bensì al massimo il personaggio terziario di una storia che nulla a che fare con lui, nonostante lo desideri profondamente.

K cerca di riempire il vuoto esistenziale e fisico attraverso le immagini compensatorie delle sue fantasie irrealizzabili: l’ologramma Joi esiste esattamente per questo motivo. A partire dal nome – storpiatura della parola «joy» ossia «felicità», una sorta di riflesso distorto del termine inglese – il personaggio di Ana De Armas non ha consistenza e vanifica qualsiasi tentativo di contatto umano ricercato da K. Nella scena più celebre del film Joi si sovrappone al corpo della prostituta Mariette per soddisfare il desiderio sessuale di K, dando così al pubblico l’impressione di una raggiunta intimità. Anche in questo caso si tratta di mera apparenza: non solo Mariette è a sua volta un replicante, ma la scena successiva, che interrompe la tenerezza del bacio, è ironicamente una pubblicità di Joi che loda le potenzialità illusorie dell’intelligenza artificiale («Whatever you want to see. Whatever you want to hear»).

Se dunque da un lato BR49 accompagna gli spettatori lungo un falso cammino dell’eroe, dall’altro anche la storia d’amore tra K e Joi è un vicolo cieco, minato alla base dalla natura artificiale del rapporto: il programma è pensato per soddisfare il replicante e quindi lo asseconda nel desiderio di credersi unico fino a chiamarlo «Joe», che è sia un nome proprio sia un’espressione, variante di «John Doe», che significa «uomo qualunque, persona generica». Nella scena in cui appare per la prima volta Pale Fire K porta a Joi un emanatore come regalo di anniversario (Joi: «Is it?» K: «No, but let’s just say that it is»); quando il replicante riavvia il sistema del programma per connetterlo al nuovo apparecchio portatile, viene mostrato il menu di personalizzazione di Joi e successivamente il logo della Wallace Corporation accompagnato da una melodia.

Il leitmotiv è composto dalle prime sei note di Petr e il lupo, celebre fiaba sinfonica di Sergej Prokofiev. La scelta del brano è importante perché serve a metterci in guardia dalla falsità del rapporto di cui siamo spettatori: K ha semplicemente comprato un software – prodotto, peraltro, dalla compagnia che controlla il mondo di BR49 – e l’ha programmato secondo le sue preferenze. Joi è una finzione pensata apposta per alleviare la sofferenza e al contempo per manipolare gli acquirenti, facendo così gli interessi dell’azienda.

Infatti, l’emanatore acquistato da K con la paga da poliziotto è un gadget della stessa Wallace, che ha progettato sia lui che Joi. Nonostante queste evidenze, BR49 fa di tutto per spingerci a credere che Joi possieda una qualche forma di umanità. Ciò implica una condizione di costante sorveglianza impossibile da eludere e beffardamente sottolineata dalle note di Petr e il lupo: la fiaba racconta la storia di un giovane pioniere che disobbedisce agli ordini impartiti e riesce a catturare un malvagio lupo; metaforicamente, si illude di fare lo stesso anche K, quando invece tutti i suoi movimenti sono sotto controllo. Ecco dunque spiegata la disarmante facilità con cui Luv riesce a introdursi in ogni ambiente del film: il potere dell’azienda è diventato così pervasivo nella vita pubblica e privata della Los Angeles del futuro da poter superare qualsiasi impedimento fisico.

Inizialmente è difficile dare peso a simili particolari perché si viene spinti a seguire la narrazione principale del film, trascurando inevitabilmente tutti gli spunti collaterali. Solo grazie a una seconda o terza visione, liberi dalla necessità di scoprire lo svolgimento dei fatti, possiamo scorgere meglio le tracce dell’inganno. Proprio sul medesimo principio si basa la letteratura di Nabokov e Pale Fire in particolare: all’interno di saggi come Strong Opinions (Intransigenze, 1973) e Lectures on Literature (Lezioni di letteratura, 1980), fondamentali per conoscere la sua metodologia lavorativa, lo scrittore delinea un personale ritratto del buon lettore, la cui qualità insindacabile deve essere quella di aver voglia di rileggere una stessa opera per coglierne i significati profondi. Tutti i libri di Nabokov sono pensati per non essere compresi dopo una sola lettura e incoraggiano a essere ricominciati più volte perché solo così è possibile districarsi nella moltitudine di stimoli inseriti dall’autore. BR49 sembrerebbe recuperare anche questo principio: rivedere il film ci permette di dare peso ai dettagli sui ricordi artificiali di K o sul suo rapporto con Joi, circostanze che modificano la percezione sulla storia da parte del pubblico, facendogli provare una sensazione di straniamento.  

Alla stessa maniera, anche le interazioni di K con Luv all’interno della piramide, archivio di dati e sepolcro di quanto resta del passato, creano un cortocircuito, provocato in questo caso dalla presenza di due esseri dalle fattezze umane che si comportano però come terminali in uno scambio d’informazioni; anche il nome del personaggio indica la versione distorta di un sentimento (Luv/Love). La sensazione di desolazione che BR49 emana è quindi dovuta proprio alla negazione di ogni legame autentico tra i personaggi, mostrati nella loro profonda solitudine e impossibilità a stabilire legami.

Merita una breve parentesi Rick Deckard: il film non scioglie in maniera definitiva il dubbio sulla reale natura del poliziotto ma lo presenta indiscutibilmente come ultimo baluardo dell’umanità, centro gravitazionale della ricerca sempre più concitata di K a cui poi dovrà la vita, esattamente come in Blade Runner era stata la mano del replicante Roy Batty la sua unica salvezza contro morte certa. Deckard (e con lui Harrison Ford) è ormai vecchio, avanzo obsoleto del passato e il suo minutaggio all’interno del film è per questa ragione esiguo. Immagini e simulacri hanno preso il posto della realtà umana, tuttavia non riescono a sostituirla fino in fondo: quando Deckard prigioniero incontra la Rachel replicante identica all’originale, cristallizzata nel momento di massima bellezza e giovinezza, non cede alle lusinghe di Wallace e alla promessa di un ricongiungimento ma anzi rifiuta l’illusione, dimostrando di aver elaborato il trauma della perdita, proprio in virtù della sua natura di uomo.

Perciò, sebbene i replicanti-simulacri siano presenti a schermo ben più a lungo dei personaggi reali, restituendo una visione decadente della specie umana relegata ai margini, essi cercano tuttavia di assomigliarle, imitandone i comportamenti e inseguendone le tracce. Su di un simile paradosso BR49 basa l’indagine alla ricerca dei residui di umanità in un presente sopraffatto dalla forza delle immagini. Per comprendere meglio questi punti, dobbiamo però tornare nuovamente a Pale Fire.

(Continua qui)

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