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Per sempre Frank
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Hoboken, Stato del New Jersey. 1915. Una brutta città industriale, sull’altra riva dell’Hudson. Cent’anni fa nasceva Frank Sinatra. Cos’è Hoboken? Una cittadina che, all’inizio del secolo scorso, era una specie di “refugium peccatorum” degli italiani (in prevalenza siciliani), che però, invece di (“do it better”), erano disprezzati, evitati, emarginati, come e più dei neri e al livello dei cani. Sinatra non rinunciò mai al suo cognome e si dichiarò disposto a mandare tutto in malora, pur di non rinunciare alle proprie origini (cosa che dovette imparare dalle vicissitudini e dall’orgoglio di italiano del padre, Martin).

Dov’è Hoboken? Non è il buco di culo del mondo, visto che è nell’area metropolitana di New York, ma certe città americane, se nasci nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, ti vomitano tutta la loro arroganza WASP, ti prendono a calci e, al massimo ti permettono di avere successo là dove lo hanno anche i neri e cioè lo sport. Come Joe di Maggio. Ci vorranno due, tre generazioni per farti rispettare e per non essere più considerato, più o meno, come un mafioso. Basterebbe leggersi i resoconti del processo a Sacco e Vanzetti per comprendere come eravamo considerati noi italiani, e cioè una specie di sottorazza di straccioni ignoranti e propensi al crimine.

Per farsi largo, spesso servivano i pugni (o la persuasione forzata) dei compari di Al Capone o Lucky Luciano. Ma cominciavano anche a farsi conoscere uomini retti, onesti e capaci come Fiorello La Guardia o Joe Petrosino. Qualcosa stava cambiando, anche se molto lentamente, nei nostri confronti.

Non ho nessuna intenzione di fare qui la solita trita e ritrita biografia con annesso panegirico e quant’altro. Che lo facciano altri, che sanno farlo meglio di me. Il mio è solo desiderio di ricordarlo e di sottolinearne i meriti cinematografici. Se dovessi tracciarne gli oscuri contorni delle sue frequentazioni con elementi mafiosi, a quanto pare nati dopo il suo viaggio a Cuba nel 1947 [a quanto pare, invitato dal mafioso Joe Fischetti, per invitarlo ad una festa in onore di Lucky Luciano], e che gli costò la nomea di amico dei mafiosi appioppatagli dalla Commissione Kefauver,   finirei per addentrarmi in un percorso che mi porterebbe lontano da quello che è il mio intendimento. Così come c’è, da parte mia, la condanna più ferma per queste “amicizie”, c’è anche assoluto interesse per un vero gigante dello swing e un ottimo interprete cinematografico.

Frank era già famoso quando Louis B. Mayer lo mette sotto contratto; siamo agli inizi degli anni Quaranta. Frank canta con l’orchestra di Tommy Dorsey, una delle più famose e applaudite. Ma il successo come attore non è neanche da paragonare ai successi come cantante (“I’ll never smile again” è il suo primo e vero successo). La MGM non rinnova il contratto e lui si trova a spasso. Qualcuno gli parla di un progetto che la Columbia sta preparando; si tratta di un adattamento del romanzo di James Jones, DA QUI ALL’ETERNITA’.

Ci sarebbe una parte interessante per lui, quella di Angelo Maggio. Eli Wallach, cui era stato assegnato il ruolo, preferisce non abbandonare il teatro, con cui era impegnato in un lavoro per lui molto importante. La carriera cinematografica, quella vera, nasce qui, dal ruolo che gli fu assegnato da Harry Cohn, capo della Columbia. Chi convinse chi? Fu forse John Roselli a “convincere” Cohn? Chi era Roselli?

Parlare di Roselli, significa scoperchiare un vaso di Pandora da cui uscirebbero scheletri negli armadi, “veleni”, misteri tremendi che hanno fatto impallidire l’America. C’è l’ombra di Sam Giancana e Santo Trafficante, ad esempio, vale a dire due capimafia tra i più influenti; c’è l’ombra dei falliti attentati a Fidel Castro e della Baia dei Porci, c’è l’ombra dell’assassinio di Kennedy, c’è l’ombra di strani contatti con la CIA, c’è l’ombra di Marilyn Monroe. Per limitarci al cinema, c’è l’episodio della “proposta amichevole” fatta da Roselli a Harry Cohn, perché sottoponesse un contratto pluriennale favorevole all’attrice, cosa che Cohn fece senza discutere, fatto assai inusuale conoscendo la grinta e l’aggressività del boss. Pare che Cohn amasse molto i cavalli… C’è altro da dire?

Stavolta, invece, pare che Roselli non abbia convinto Cohn con una proposta che non si poteva rifiutare, ma che sia stato Cohn stesso a lasciarsi impressionare dalla personalità e semplicità con cui Sinatra perorò la sua causa. Ma fu soprattutto il regista, Zinnemann, a decidere. All’inizio, era convinto che Sinatra fosse soprattutto un cantante, ma poi dovette ricredersi dopo un provino. Sinatra desiderava così tanto quel ruolo che accettò la miseria di un contratto da 8.000 dollari. Più tardi ebbe a dire:”Io, Maggio l’ho conosciuto, sono cresciuto con lui a Hoboken”.

 

Abbiamo tutti ben presente l’interpretazione di Maggio, che gli valse l’Oscar come miglior attore non protagonista. Era il 1953.

Frank, allora, era un ometto smilzo, fisicamente insignificante. L’interprete ideale. Tra le grinfie di Trippa (Ernest Borgnine) dava proprio l’idea di un agnellino alle prese con un lupo famelico. Un film che è pura dinamite, forse il migliore di Zinnemann (assieme a MEZZOGIORNO DI FUOCO). Un’interpretazione, la sua, che lo lanciò nell’Olimpo delle stelle. Un ometto dal coraggio inversamente proporzionale al suo fisico da uccellino, un tipo tanto romantico quanto orgoglioso, fiero e temerario. Trippa lo spezza ma non lo piega.

A Frank piaceva un sacco quel personaggio: un po’ vedeva se stesso, le umiliazioni, le sconfitte patite. Potevano essere il suo epitaffio le parole di MY WAY (una sorta di testamento spirituale):“ I faced it all and I stood tall and did it my way”.

Ma il vero palcoscenico di Frank era quello musicale. La cosa curiosa è che il suo rilancio fu dovuto al successo cinematografico. La sua è una voce inconfondibile, un impasto di toni e di suoni, un prodigio che avviene una volta ogni cento anni. Platee strapiene, milioni e milioni di dischi (150, dicono), e questo in un mondo ancora agli albori del divismo esagerato, strafatto e stravolto odierno.

Canzoni come “I got you under my skin”, “Fly me to the Moon”, “Lonely Town”, “Stormy Weather”, “All the Way” “September in the Rain” che ancora oggi piacciono da morire e mille altre e arrangiatori e direttori sublimi come Nelson Ridde e Billy May proiettano Sinatra nell’Olimpo degli immortali.

Nel 1981, Peter Bogdanovich stava girando a New York E TUTTI RISERO: racconta che si era recato in un palazzetto del ghiaccio con la protagonista Dorothy Stratten (che poi morirà tragicamente): a un certo punto, dall’altoparlante si udì una canzone di Sinatra. La stragrande maggioranza dei presenti smise di pattinare e si fermò ad ascoltare, chiedendosi chi fosse il cantante. Sembrerebbe un assurdo, ma è proprio così. L’America, a volte, dimentica troppo in fretta.

Seguirono film importanti come L’UOMO DAL BRACCIO D’ORO, di Otto Preminger, PAL JOEY, di George Sidney, e soprattutto QUALCUNO VERRA’ di Vincente Mannelli che io ritengo uno dei migliori mélo mai realizzati. Ci sono film che ci perseguitano, che ci seguono, premono e ci possiedono, senza mai lasciarci. Il film di Minnelli è uno di questi. Questa figura di militare, scrittore anticonformista, che torna in pullman al suo paese natío, un villaggio avvolto nella nebbia del conformismo e dell’ipocrisia, dove anche le persone che dovrebbero “essere” diverse, non lo sono e diventano prigioniere di un’educazione perbenista e di una cultura incolta. Meglio allora la compagnia di giocatori e di donnine leggere, malviste dalla gente eppure autentiche e semplici.

Frank, che ormai alterna musica e cinema, canta “STRANGERS IN THE NIGHT” e lavora col regista Gordon Douglas in un paio di film incentrati sul detective Tony Rome, ma soprattutto IN INCHIESTA PERICOLOSA (1968), un altro dei miei film preferiti. Quando uscì nelle sale (1968), rimasi affascinato dalla figura dolente, dalla personalità forte ma quasi nichilista del protagonista, un detective che, dopo aver mandato per errore un uomo sulla sedia elettrica, perde ogni fiducia in se stesso e nel mondo in cui vive. Il verminaio in cui si trova ad investigare lo porterà a scoprire il colpevole, ma lungi dal ritrovare la fiducia, lo si indovina navigare ed annaspare in una società che ormai disprezza e in un lavoro che non sente più suo.

E’ un personaggio che ricorda da vicino una delle sue ultime interpretazioni : quella del sergente di polizia Edward Delaney, in DELITTI INUTILI (1980). E’ un poliziotto prossimo alla pensione, rimasto sergente perché abituato ad avere la schiena diritta, ma ha dovuto subire l’umiliazione di vedere sbarbatelli senza arte né parte scavalcarlo, di avere capi incapaci e corrotti e, soprattutto la disgrazia di avere l’amata moglie che si sta spegnendo per un cancro, dopo che il medico curante non l’ha curata come si conviene.

E’ un po’ il suo canto del cigno, il commiato decoroso di un uomo ormai anziano, ma ancora fiero, di un uomo che ha preso di petto la vita, magari con qualche scivolone, ma che ha pochi rimpianti (“Regrets I Have a Few”) e soprattutto la consapevolezza di avere lasciato il segno, sia nel cinema sia nella musica, un merito riservato a pochissimi.

Quanto ai legami con la mafia, cosa da lui sempre negata e mai provata in modo chiaro, penso tutto il male possibile, è ovvio. Ma non è il luogo qui per intentare processi o giudicare su vicende che non sono chiare.

Ciò che è chiaro, invece, è la grandezza di un artista inimitabile. Si potrà discutere sul valore artistico in campo cinematografico, per molti inferiore a quello musicale. Non lo so, veramente, e lo dico onestamente: per me, Sinatra, soprattutto a una certa età, ha disegnato un ruolo che ritengo fra i più indovinati come figura di poliziotto. E’ un personaggio che assomiglia, nel suo “understatement” a quello di Robert Mitchum, quando interpreta Philip Marlowe. Ma mentre Chandler crea un eroe pessimista di facciata, ma, in fondo, inguaribile ottimista, il detective di Sinatra è una maschera amarissima, che si trascina ormai, che si tiene a galla per puro istinto di conservazione, schifato da un ambiente con cui non ha più nulla in comune e che gli ha tarpato ali, sogni e ogni speranza.

Per me, un grande.

 

 

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