Espandi menu
cerca
Cinema italiano della crisi
di MarioC ultimo aggiornamento
post
creato il

L'autore

MarioC

MarioC

Iscritto dal 29 settembre 2015 Vai al suo profilo
  • Seguaci 45
  • Post 55
  • Recensioni 124
  • Playlist 14
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

Umberto D. gioca con il suo cane, dopo aver oltrepassato un passaggio a livello ed aver accarezzato l’idea di una morte che finalmente lo liberi. Non soltanto uno dei personaggi più belli di tutto il cinema italiano, ma anche il paradigma filmico delle difficoltà di un uomo, il derivato iconico di una crisi economica e morale che stringe il cuore e fiacca idee e membra. Tema, questo, su cui la fabbrica dei sogni italiani si è sempre confrontata con alterni risultati, a volte cercandone la rappresentazione naturalistica, altre evitando il discorso per coerente scelta stilistica (pensiamo al cinema oleografico di Avati, magari un po’ masturbatorio ma comunque scientemente innalzato su una nuvola di aurea intoccabilità, in cui non c’è spazio per la lotta quotidiana dell’uomo contro i diktat dell’andare avanti), altre ancora aggirando il problema e puntando la macchina da presa su fasulli ambienti di una medio-alta borghesia del tutto tetragona alle infiltrazioni dei dubbi esistenziali ed indifferente alle economie domestiche ed ai conteggi di fine mese (esemplificativa la maggior parte dei titoli degli anni 2000, paradossalmente quelli in cui ha un senso reale parlare di crisi economica, eppure percorsi da opere che si tengono, dignitosamente, e un po’ ruffianamente, a distanza). Tentiamo, sul tema, un breve, ed incompleto, excursus storico.

Dopo la seconda guerra mondiale e le sue disfatte (la dissoluzione alla radice di un intero popolo e la necessità di procedere ad una ricostruzione di macerie anche interiori, problematiche fortemente rappresentate nel capolavoro rosselliniano Roma città aperta), l’Italia si avvia ad un periodo di boom economico, non prima di aver attraversato un limbo fatto di spaesamento identitario. Paradigmatico è Il cappotto di Lattuada. Tratto da un magnifico racconto di Gogol, il film (con un ottimo e drammatico Renato Rascel) segue le peripezie di un travet che identifica in un cappotto nuovo di zecca il suo passaporto per la felicità. La perdita dell’oggetto comporterà non soltanto lo smarrimento della acquisita ed illusoria riconoscibilità sociale ma anche la morte dell’uomo, vinto dal freddo e dalla impossibilità di ricostruire, senza l’agognato passe-partout, accettabili coordinate esistenziali ed economiche. Ancor prima, nel 1945, Mario Soldati, con Le miserie del signor Travet, aveva disegnato una contraddittoria figura di impiegatuccio che, nella Torino di fine ‘800, si dispone a sopportare piccole angherie di ogni tipo, pur di salvare uno stigma sociale aleatorio e volatile, prossimo alla miseria eppure mai avvertito come tale. Ed in Bellissima (1951) Luchino Visconti acuisce virtù profetiche e tratteggia, anche grazie all’ausilio di una maestosa Anna Magnani, un personaggio di repellente normalità, che sembra, mutatis mutandis, perfettamente adattabile ai giorni nostri: la madre repressa e frustrata da una vita di inconcludenti sacrifici che individua nella (presunta) bellezza di una figlioletta il modo per rivendicare, anzi imporre, la propria presenza nel mondo.

Gli anni ’60 si aprono con un salutare uppercut. La povertà ontologica delle borgate romane, la deterministica deriva verso la dissoluzione dei borgatari, vengono analizzate con forza devastante da un Pasolini all’esordio. Nel personaggio di Accattone possono riscontrarsi tutte le inettitudini di un ambiente che esclude ed isola i segnati dal destino. La morte dell’uomo, allora, quale unico viaggio possibile alla ricerca di un Eden che in terra non è dato trovare. Ancora nel 1960 Visconti si ripete e, con Rocco e i suoi fratelli, estende il discorso alla difficile realtà dell’emigrazione ed alle impossibili esperienze di urbanizzazione di un gruppo familiare contadino composito, in parte violento, e morbosamente attaccato alla vita. Da lì in avanti il cinema italiano si abbandonerà alla rappresentazione della nuova ricchezza, raggiunta a prezzo di evidenti disancoramenti. Opere capitali come Il sorpasso ed Il boom segnano l’entrata in scena di personaggi perfettamente integrati, ciarlieri, a loro modo drammatici ma di una drammaticità che prescinde, per così dire, dalle furenti leggi dell’economia. Se di cinema della crisi si può parlare nella filmografia del decennio, occorre piuttosto citare i capolavori felliniani (La dolce vita e 8 e mezzo), laddove i personaggi sono colti in un’ansia tutta interiore, nel tentativo di ricostruire quella identità che proprio l’improvvisa opulenza pare aver annientato.

Con gli anni ’70 si apre uno tra i periodi più neri della storia repubblicana italiana. Anticipati dal 1968, nuovi fermenti e nuove consapevolezze scuotono gli strati medio-bassi della società. Si aprono le battaglie per garantire a tutti le medesime condizioni di partenza, in un percorso accidentato che vedrà come meta forse inevitabile la lotta armata. Il cinema si adegua, a partire da un manifesto apertamente programmatico come La classe operaia va in paradiso (1971)di Elio Petri, film in cui un attore politico come Gian Maria Volontè declina in forma filmica le moderne rivendicazioni degli sfruttati. Rivendicazioni non esenti dal rischio di un cinismo deteriore, come ben dimostrerà Luigi Comencini ne Lo scopone scientifico (1972), film in cui il sottoproletariato è rappresentato come classe infida e laida (accadrà lo stesso in Brutti, sporchi e cattivi di Scola); eppure, in una costruzione molto latamente intesa delle lotte di classe che innervavano l’epoca, non si può non parteggiare con essa e con le sue voglie di riscatto. Nel 1973 Franco Brusati, affidandosi al volto olivastro e nervoso di Nino Manfredi, affronterà il tema dell’emigrazione in Pane e cioccolata, opera chiaramente politica benchè virata in forma di commedia amara. Quasi a fine decennio, infine, ci penserà Monicelli a porre la sua pietra tombale sui conflitti dei seventies. Un borghese piccolo piccolo (1977)è film di cupezza solo apparentemente a sé stante, in realtà agitata da problematiche all’epoca pienamente vissute e riconoscibili (la brutalità fine a se stessa della lotta armata, la necessità di ottenere giustizia, lo sconfinamento di questo legittimo auspicio nel giustizialismo reazionario).

Ventate di post-riflusso scuotono gli anni ’80: decennio di voglia di leggerezza, di disimpegno, di musica cattiva ed orecchiabile, di film che paiono voler registrare quello che si preannuncia come un ritrovato e duraturo benessere (Milano da bere, Roma folgorata da una vitalità culturale un po’ caotica ma resistente). Al cinema la crisi è vissuta più come esperienza personale e scevra di quelle risultanze collettivistiche che i ’70 avevano proposto. In Cafè Express (1980, Nanni Loy) ancora Manfredi disegna la dolente figura di un travet da viaggio che fa dell’arte di arrangiarsi il suo totem ineluttabile. C’è molta miseria nel film, molta sofferenza, eppure esso non sfugge a quel sospetto di macchiettismo che, negli anni a venire, diventerà ancora più scoperto. Ci voleva un Massimo Troisi all’esordio a sparigliare ancora le carte: Ricomincio da tre è opera inesorabilmente comica, tuttavia segnata dalla peculiare filosofia del comico napoletano, capace di cogliere nel profondo tutti i malesseri di una gioventù allo stremo, incapace di accontentarsi, perché alla ricerca di altre e nuove opportunità, e probabilmente anche soggiogata da una divisione regionalistica  che, al di là dell’involucro rutilante, il contenitore Italia tratteggia. Le peripezie del giovane napoletano in trasferta, non in emigrazione, a Firenze sono allora il miglior portato di anni come gli ’80, fuori lucenti, dentro farfuglianti come e più del Gaetano di Troisi.  

A cominciare dagli anni ’90 la società vive trasformazioni in grado di ustionare la più scafata delle salamandre. Anticipata dal crollo del muro di Berlino e dalla ricostituzione geografica e socioculturale dell’Europa, la politica nostrana vive tempi non memorabili, preda di una forte crisi di valori e di riferimenti culturali. Il divario tra classi, inizialmente accettabile in quanto poco evidente, si allarga sempre più, sino ai giorni nostri, quando parlare di crisi economica è semplicemente constatare l’ovvio. Il cinema segue l’onda, cavalcandola fin troppo e diventando vero oppio dei popoli. Si inizia con la moda dei cinepanettoni, film natalizi per non (far) pensare, in cui i personaggi vivono ed agiscono in una sconsolante bolla di atemporalità ed asocialità, in preda alle pulsioni basiche di un essere umano, alla ricerca del soldo (ben che vada del pene e/o della vagina), del successo e della soppressione di un altrui diverso da sé. Di fronte ad opere del genere, peraltro in grado di radicare profondi modelli di riferimento, del tutto avulsi dalla realtà effettiva del quotidiano, i tentativi di raffigurare le difficoltà, di cui pure la società pullula, risultano timidi, quando non velleitari. Ci prova nel 1994 un ancora acerbo Virzì, con La bella vita, breve e calibrata storia di un metalmeccanico e di una cameriera, nella quale il sentimento non può non fare i conti con la tirannia delle liste della spesa. Lo stesso Virzì, molti anni dopo, regalerà un bell’affresco in Tutta la vita davanti, opera importante in quanto ridendo castigat mores: la scorza di commedia non riesce ad occultare la tragicità delle vite dei callcenteristi a progetto, nuovi e moderni schiavi di un capitale autoreferenziale ed incapace di fare i conti con le profondità di esseri umani ridotti a voci venditrici.  Con il suo stile ellittico e doloroso Vincenzo Marra sbozzerà, con Vento di terra (2004), un piccolo gioiello senza sorrisi, sorta di pianto greco sulla ineluttabilità dei destini. La pattuglia dei registi resistenti comprende anche Gianni Amelio (Così ridevano, 1998 ed il lunare L’intrepido,2013), Matteo Garrone (Reality, 2012, devastante fermo immagine sui malati di televisione), Francesca Comencini (Mi piace lavorare, 2004, impressionante reportage del fenomeno tutto moderno del mobbing). Ulteriori tentativi, magari più raffazzonati e meno in grado di incidere sulla coscienza collettiva di un popolo, sono quelli di Gianluca Maria Tavarelli (Liberi, 2003, in cui svetta la figura di un operaio adulto e disilluso che Luigi Maria Burruano stratifica con buona intensità), Ivano De Matteo (Gli equilibristi, 2012, opera a tratti insostenibile e solo in parte riuscita), Rolando Ravello (Tutti contro tutti, 2013, sull’attualissimo e molto triste fenomeno delle case occupate), Gianni Di Gregorio (Buoni a nulla, 2014, in cui, senza esplicitarla, si sfiora la tematica dei lavoratori cosiddetti esodati). Ultimo cenno ad una serie di autori che, molto recentemente, hanno dato nuova linfa alla rappresentazione icastica della crisi: Edoardo Leo (Noi e la Giulia, 2014), l’esordiente Sydney Sibilia (Smetto quando voglio, 2014),  lo stesso Claudio Amendola (La mossa del pinguino, 2014, pur meno riuscito dei precedenti). Una buona ventata di aria nuova, la speranza che il cinema italiano apra finalmente gli occhi ed affronti di petto i micro (e macro) traumi che agitano la società.

Ti è stato utile questo post? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati