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Il melodramma che non invecchia
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Le argomentazioni critiche più profonde, le tesi più razionali, i ragionamenti più convincenti non riusciranno a togliere la sensazione chiara, ferma e assoluta di trovarci di fronte a un film indimenticabile. Cos’è che lo rende così seducente?  Come è possibile rendere straordinario un melodramma? Perché il melodramma non scada nel sentimentalismo e nel lacrimevole bisogna avere i nervi saldi, il cuore freddo e il talento di un Minnelli o di un Sirk (e,talvolta,di Negulesco), capaci cioè di coniugare perfettamente il giusto dosaggio di abilità narrativa (fluidità, assenza di tempi morti o cadute di ritmo),impatto emotivo, uso del colore e della tecnica di ripresa,  talento interpretativo ecc.). Tutte cose facili da dire e difficili da realizzare.

Il racconto fila liscio come l’olio, non ci sono intoppi, non ci assale la noia e le storie dei vari personaggi sono ben scritte e interpretate e il film sembra aver tratto giovamento dalla sceneggiatura incisiva di John Patrick e Arthur Sheekman rispetto al romanzo omonimo di James Jones.

Il titolo del film mi pare sia tratto, ma è solo un forse, da un passo del Vangelo di San Marco, in particolare all’episodio in cui gli apostoli, tornati dalle loro predicazioni, si recano da Gesù, il quale li informa che si ritirerà, assieme a loro, in un posto solitario (altro riferimento cinematografico: il film di Nicholas Ray. Forse varrebbe la pena studiarne eventuali implicazioni) per riposare. Ma le popolazioni limitrofe e non, saputo della loro presenza accorrono e addirittura li precedono. Dopo un po’, Gesù terrà il discorso della Montagna. Questo accorrere della gente a udire il discorso e la successiva incapacità o non volontà di seguire le parole del Maestro con i fatti, sembra essere un riferimento all’attualità e, in particolare, ai comportamenti ipocriti della grande maggioranza della gente che, nei fatti, non sembra seguire per nulla gli insegnamenti che, a parole, asserisce di condividere.

Il titolo originale, tradotto letteralmente, recita “Alcuni arrivarono di corsa” e non ha nulla a che vedere con il titolo italiano che si riferisce a un imprecisato “qualcuno che verrà”. Il titolo originale è intrinsecamente legato al senso del racconto di Jones: all’udire che il Maestro era nelle vicinanze, molti si recarono a vederlo, alcuni invece, lo fecero di corsa. Questi “alcuni”, attratti probabilmente più dai racconti di mirabolanti miracoli che dalla figura morale e religiosa del Cristo, dopo averlo ascoltato (e si tratta di una delle più grandi predicazioni di Gesù) tornarono alle loro occupazioni e la loro vita non cambiò. E’ la mentalità ottusa e ipocrita (nel film impersonata soprattutto dal fratello di Dave) di tanta parte della società anche contemporanea, più attenta alle cose materiali che ai veri valori.

Il racconto è ambientato in una cittadina (Parkman)dell’Indiana nel 1948. Il protagonista, Dave Hirsh è un reduce che arriva in autobus in città. Non è dato sapere da dove viene ma presto si capisce perché si ferma lì. Nel libro si racconta che è uno scrittore fallito e disilluso e che a Chicago, città in cui si trovava, è stato protagonista di una rissa in preda ai fumi dell’alcol e da lì messo su una corriera. Si racconta anche che manca da Parkman, suo luogo natale, da 16 anni, che è stato in guerra e che suo fratello maggiore, Frank, lo ha fatto studiare in un convitto per studenti bisognosi, cosa che non gli ha mai perdonato.

Dave torna a Parkman perché non sa più dove andare, anche se è l’ultimo posto dove vorrebbe abitare. Presto si capisce di che pasta è fatto suo fratello e quale ipocrisia si cela dietro la sua falsa bonomia e cordialità.

Stringe amicizia con un giocatore d’azzardo e, tramite Frank, conosce anche sua nipote che presto prende in simpatia. Conosce anche un professore e sua figlia Gwen, insegnante, che presto si interessa a lui e non solo dal punto di vista professionale. Dave è colpito dalla maestra, ma il suo tipo di vita e di amicizie non sono gradite a Gwen, la quale, pur se manifestamente attratta da lui, lo respinge. Chi è follemente innamorata di lui è invece Ginny, una ragazza di facili costumi, ma di animo sensibile e generoso. All’inizio, Dave non pare degnarla della pur minima attenzione. Poi, colpito dall’ingenuità e dalla assoluta ed intrinseca bontà d’animo della ragazza, decide di sposarla. Un suo ex-amante e “protettore”, che ella ha lasciato, arriva in città deciso a riprendersela. Dave si trova in pericolo, ma all’ultimo istante, la pallottola destinata a lui finisce nel corpo di Ginny che muore. Dave è di nuovo solo e sempre più disilluso.

Il film, pur se si classificò al decimo posto fra i maggiori incassi del 1958 in America, non sembrava avere le premesse per diventare uno dei film di culto della storia del cinema.

Le ragioni di questo successo non sono del tutto evidenti, ma sembra ragionevole pensare che si tratti di un film che sa muoversi a meraviglia sull’equilibrio quanto mai instabile tra il melodramma zuccheroso e superficiale e la storia tragica di personaggi credibili in perenne conflitto tra speranza e disillusione, tra illusione e fallimento.

Potremmo pensare anche che molta parte del successo si debba alla stupenda fotografia di William Daniels ma, per quanto importante e significativa, essa è probabilmente solo un corollario.

Forse più accettabile la ragione della presenza di Sinatra, Martin e della McLaine. Ma ritengo più plausibile che il film abbia avuto il successo che sappiamo per l’accattivante anche se poco credibile storia d’amore fra Dave (Sinatra) e Ginny (McLaine). E’ un pò, “mutatis mutandis”, la storia di PRETTY WOMAN di Gary Marshall o UN AMORE A CINQUE STELLE di Wayne Wang: storie cioè di personaggi famosi che si invaghiscono di figure femminili socialmente “impresentabili”. Un Paese in cui ancora si racconta (e in parte si crede) la favoletta (per molti il “sogno” americano)secondo cui anche un fattorino può diventare Presidente degli Stati Uniti, è facilmente suggestionabile. “Amor omnia vincit” è un adagio per contrabbandare storielle che sembrano più suggestive che credibili: un Paese che rappresenta un modello di ineguaglianza sociale e di forte classismo, ha bisogno di credere a certe favole, se non altro per illudere ed illudersi che tutto sia possibile.

La chiave melodrammatica si presta in modo particolare a questo tipo di messaggio: l’amore può fare miracoli e anche l’ultimo degli uomini ha diritto a sperare che la Fortuna possa dare una mano.

In realtà, la forza e il fascino di questo Paese, più che per ragioni sentimentali, è che sono il talento e una spietata determinazione, uniti troppo spesso alla mancanza assoluta di scrupoli, a proiettare personaggi venuti dal nulla nel Gotha della ricchezza e della notorietà.

Su questa chiave di lettura, l’obiettivo (raggiunto) del film è di riuscire a far credere (attraverso gli strumenti della seduzione degli attori, del colore, del ritmo, della solidità del racconto ecc.) che l’impossibile sia reso possibile grazie alla forza dell’amore.

Ma c’è di più.

E’ chiaro che se Ginny è conquistata, nella sua ignoranza e semplicità, dal fascino della cultura e dal carattere forte ma tenero di Dave, è altrettanto chiaro che egli, ancorato alla terra da una forte zavorra di cinismo e pessimismo, è attratto da qualcuno che sembra sconvolgere tutte le sue convinzioni, frutto di decenni di fallimenti, delusioni ed umiliazioni.

Ancora depresso per l’ennesima delusione della sua vita (il rifiuto della  sua dichiarazione d’amore da parte di Gwen), trova in quest’offerta d’amore, totale, incondizionata, assoluta, una risposta sorprendente. Ciò che lo colpisce è una sfaccettatura della realtà, che improvvisamente sconvolge le sue teorie, costruite negli anni e che riteneva, da osservatore delle cose, come lo può e deve essere uno scrittore, immodificabili e definitivamente acquisite.

Gwen è bella, intelligente e colta: ma la sua mentalità non è aperta. E’ condizionata come quegli “alcuni che arrivarono correndo” a vedere Gesù, pronti ad udirlo ma non ad ascoltarlo. Ella è imprigionata in una sfera fatta di convenzioni, pregiudizi, paure ed è incapace, per questo, di “vedere” il nuovo, di capirlo.

Ginny, al contrario, è ignorante ed ha la semplicità dei poveri di spirito, che non conoscono e non hanno barriere culturali e ostacoli sociali da abbattere. Essi sono come i fanciulli che, essendo in qualche modo “puri”, arrivano “correndo” alla verità.

Sposare Gwen non è un atto d’amore, ma una chiave per entrare in una sfera di conoscenza sconosciuta. E’ questo il senso ultimo dell’intera storia: la capacità di aderire a una visione “nuova” della vita, a una diversa interpretazione della realtà, contro ogni regola sociale, ogni convenzione (ecco il punto in comune con l’elemento evangelico presente nel titolo e nel libro di Jones), ogni personale tornaconto. Essere scrittori è anche e soprattutto questo.

 

 

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