1 stagioni - 10 episodi vedi scheda serie
Parafrasando (ma forse non del tutto) il titolo: "ChinaTown Interiore", ovvero: “Know your Asians!”
Nel romanzo – che non ho (ancora) letto, ma del quale so a grandi linee essere dotato di un lieto fine che si sviluppa coerentemente con la logica dell’universo di cui narra, persistendo a seguirne i criteri di “razionalità intrinseca” senza quindi ritrovarsi a dover subire correzioni da parte della normalità che da questa parte del velo/sipario/ o muro/parete ci abita, muove, performa ed appartiene, mentre la serie termina con una voglia di risposte (che non siano quelle di una parallelo sottoinsieme cosmogonico autogenerantesi ed autosostentantesi) non appagata né sopita da parte dello spettatore (una learning machine) che viene messo in abisso dalle 110 pagine del copione autoavverantesi ed autoinscenantesi che porta il titolo di “Int. ChinaTown” – almeno parzialmente si accetta coenianamente il mistero di un mondo che funziona seguendo regole…
{attenzione: “regole”, come quelle di un “gioco”, per quanto non rivelate del tutto, e non leggi fisiche, perché non si tratta di Hard-SF, ma di una “satira” politico-economico-sociale a guisa di fantasy speculativa: insomma una via di mezzo tra la serietà scientifica [qui invece declinata più soft attraverso la soci(età dello spettac)ologia] del “FlatLand: A Romance of Many Dimensions” di Edwin Abbott Abbott, però con l’industria cinematografica e nello specifico la serialità televisiva soprattutto degli anni ‘80 e ‘90, pur “manovrata”, come si scopre nel momento dell’agizione del deus ex machina, da “HBWC/Hulu”, cioè Disney, Warner & Fox, ma per l’appunto con non eludibili riferimenti a quella degli anni ‘00, ‘10 e ‘20, al posto della matematica e nello specifico della geometria, e l’eterogenea messe di racconti dalla caverna platonica che si muove tra metafisica ed ontologia: dal P.K. Dick di “Eye in the Sky”, “Ubik” e “A Scanner Darkly” allo Steve Erickson di “Arc d’X” e “ZeroVille”, da Thomas Pynchon, Steven Millhauser e Percival Everett al il Matt Ruff di “Bad Monkeys”, “the Mirage” e, saltando da una prospettiva sino-statunitense ad una afro-statunitense, “Lovecraft Country”, passando per “Big Trouble in ChinaTown”, “12 Monkeys”, “Abre los Ojos”, “Matrix”, “Life on Mars / Ashes to Ashes”, “WestWorld”, “Black Mirror: BanderSnatch”, “Maniac”, “Serenity”, “Kevin Can Fuck Himself”, “Don’t Worry Darling” e “American Fiction”, e poi, in oltre, “Severance”, e financo il David Lynch di “Lost Highway” e “Mulholland Drive”, eccetera eccetera eccetera, e considerando anche, giusto per fare un esempio “imminente”, il “A MineCraft Movie” di Jared Hess, tra l’altro succedaneo del “the LEGO Movie” di Lord & Miller}
…“altre” rispetto alle nostre: ma è proprio questo il punto: il vero e reale mondo che sta “fuori” dall’omonima serie da esso traslata, potrebbe benissimo essere solo un espediente per instillare nei personaggi il dubbio che qualcosa rispetto alla normalità - codificata nel, per l’appunto, nostro altrove - riscontrabile vuoi in “Starsky & Hutch” & “Simon & Simon” (ovvero il livello “Black & White” di grana grossa), vuoi in “Law & Order” & “CSI: Crime Scene Investigation” (ovvero il livello “Standards & Practices” di grana media, tipo “the Good Wife/Fight”) e vuoi in “the Wire” & (letteralmente!, in un momento gustosissimo di ennesima, ma in questo caso inaspettata, parafrasi) “True Detective” (ovvero il livello “Black & White” di grana fine) stia venendo meno alla suddetta “logica” che fino ad allora tutto sommato aveva retto bene il compito di sostenere un costrutto (derivato dal nostro e ad esso consimile e consacrato) grande tanto quanto la vita (con gentrificazione artificiale annessa e connessa): “Int. ChinaTown”: lunga, dal finale insoddisfacente, e bella, a tratti sorprendente.
Piuttosto che attraverso il cinema, perché è difficile traslare la straniamento senza renderne esplicite le cause, esperienza insegna e buon senso avverte (prefigura e stima) che questo tipo di narrazione avant-pop funzioni meglio, trovandovi maggior fortuna realizzativa, in letteratura, con le sue sfumature e soprattutto grazie al lavoro di reinterpretazione del lettore, per forza/natura di cose più dinamico dello spettatore “passivo”, e quindi più pronto a intervenire, come un regista che crea mentre legge, sulla sospensione dell’incredulità e sul “rimaneggiamento” dell’opera al contempo chiusa e in farsi, e a sopperire al paradossale connubio fra “troppo esplicito” e “non detto”, e in “Int. ChinaTown” il “cosa” sta succedendo è chiaro sin dalle prime pixelature rivelanti l’emergere dei glitch che intervengono sui titoli d’apertura, e si pensa che siano il come (quando/dove) e il perché (chi) a dover essere indagati, se non che poi, invece, ecco, no: (extra)diegeticamente mutano gli aspect ratio, cambiano gli smarmellamenti e i filtri, i personaggi accolgono l’irrazionalità dell’anormale status quo, come in un sogno, o in una versione corrotta della realtà, mentre al contempo prendono coscienza della loro natura artificiale (di machine learning) e/o dell’assenza di libero arbitrio e pongono in discussione la solidità apparente della loro esistenza, e viene messa in scena la più grande delle rivoluzioni in ambito seriale: il passaggio epocale dalla narrazione verticale a quella orizzontale.
Creata da Charles Yu (How to Live Safely in a Science Fictional Universe, WestWorld, Legion) adattando il proprio omonimo romanzo di partenza del 2020 con l’aiuto di Eva Anderson ed altri 8 sceneggiatori lungo 10 episodi da ca. 40’ l’uno, “Int. ChinaTown” è diretta da Taika Waititi (Flight of the Conchords, What We Do in the Shadows, JoJo Rabbit, Klara and the Sun), Ben Sinclair (High Maintenance, Save Yourselves!, the Resort, Spin Me Round, Poker Face), Stephanie Laing (Physical), John Lee, Jaffar Mahmood, Alice Wu, Pete Chatmon e Anu Valia, interpretata da due stand-up comedian quali Jimmy O. Yang (Silicon Valley) e Ronny Chieng coadiuvati da Chloe Bennet, Sullivan Jones, Lisa Gilroy, Archie Kao, Diana Lin, Tzi Ma, Chris Pang, Annie Chang, Lauren Tom, Michael J. Harney, Marlon Young, Maury Sterling, Spencer Neville, Allan McLeod e Chau Long, fotografata da Mike Berlucchi e Tari Segal e musicata da Mark Mothersbaugh & Nick Lee. Da segnalare inoltre il buon uso della “Fists of Fury” di Kamasi Washington in coda al penultimo episodio e la perfezione, schiudentesi a chiosa in chiusura di stagione (e/o serie), della “Lullaby” di Grace Ives:
I watch that movie ten times a day
I can recite it, you press replay
[…]
What a mess, what a lovely mess
What a lie, what a lie!
Nota personale. Ho deciso di assistere – cioè di porre la cosa in cima alla lista delle robedafare – a “Int. ChinaTown” perché il suo creatore Charles Yu (a suo tempo segnalato da Richard Powers come uno dei rimarcabili “5 under 35” per la National Book Foundation) potrebbe mettere mano, assieme a Chloé Zhao, alla realizzazione della trasposizione di “Consider Phlebas” (“Pensa a Fleba”), il primo romanzo del Ciclo della Cultura di Iain M. Banks: sorbole!, corbezzoli!, e pure nespole!, toh.
Nota legale. Questa recensione è stata gentilmente offerta da MSD Imaginary Machines. O forse no.
(This is not a) Post-credits scene: Ext. ChinaTown.
* * * * ¼ - 8.50
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