3 stagioni - 21 episodi vedi scheda serie
Captivity-Land.
Del cinema della crudeltà: “1923” e “the White Lotus: Thailand”.
Arte ≠ Conforto.
Finzione ≠ Consolazione.
Al netto del fatto che la tutto considerato e sommato amorevole rassegnazione in un caso e la “nonostante” tutto amichevolmente agghiacciata incredulità nell’altro passanti sul volto di Walton Goggins (“the Shield”, “Justified”, “Django Unchained”, “the Hateful Eight”, “the Last Days of Ptolemy Grey”, “Fallout”) nei panni di un Rick messo di fronte prima all’amore incondizionato di Chelsea (una puramente incantevole Aimee Lou Wood; “Sex Education”, “Daddy Issues”, “Toxic Town”) e poi alle rivelazioni stranosessuali spiattellategli con strutturata nonchalance da Sam Rockwell (“Confessions of a Dangerous Mind”, “the Hitchhiker's Guide to the Galaxy”, “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri”) nelle vesti del vecchio compagno di scorribande outlaw Frank sono…
– assieme alla folle messe di espressioni di mimica del viso adorabiluffe (adorabili + buffe) che la stessa Wood regala “a piene mani” in ogni qualsivoglia frangente, di Carrie Coon (Laurie; “the Leftovers”, “Fargo 3”, “His Three Daughters”) alle prese col suo toy boy siberiano che le chiede un bonifico (o un PayPal, uno Zelle, un Cash App) post-coito da diecimila dollari per aiutare la madre malata in quel di Vladivostok…
…e di Leslie Bibb (Kate; “Juror #2”), la quale forse in certuni casi avrà proprio pensato, durante alcuni motore-ciak-azione alle prese con la sorellanza composta da lei, dalla succitata Laurie e da Jaclyn (Michelle Monaghan; “Source Code”, “True Detective 1”, “MaXXXine”, “Bad Monkey”), alle avventure con le gentil donzelle pene-munite che il summenzionato Frank, il personaggio interpretato da quello che nella realtà off-set altri non è che suo marito, ha vissuto durante gli ultimi anni passati in Thailandia –
…una delle cose più divertenti e impagabili di questa terza stagione di “the White Lotus”, che di suo torna alle dinamiche e alle atmosfere - “Same Spirits, New Form” s’intitola il pilot d’annata - della prima, accantonando la metacinematograficità e le incognite della seconda, è la faccia che Parker Posey (musa di Hal Hartley e più di recente apprezzata in “Irrational Man”, “Café Society”, “Columbus”, “the Staircase”, “Beau Is Afraid” e “Mr. & Mrs. Smith”) dona e conferisce al suo personaggio, quando “finalmente” sua figlia (Sarah Catherine Hook; “MonsterLand”), “contro ogni aspettativa dello spettatore ideale” (s’ode un coro di risate in sottofondo), crolla e ammette di essere quel che è, ovvero una “normale” (le virgolette son d’obbligo come e forse più di sempre) giovane donna viziata dal benessere nell’Era della "post"-Scarsità, (con)cedendo per l’appunto alla propria benestanza upper-class (d’imporsi per il bene fisico-mentale suo e della madre), a valere il proverbiale biglietto (ipotetico), in questo caso abbonamento.
- Noi staremo insieme per sempre, non credi?
- Questo è il piano.
- Ah sì?
- Sì.
- ♥
Poi, ecco che l’ottavo ed ultimo episodio di questa “the White Lotus: Thailand”, lungo un’ora e mezza invece dei canonici sessanta minuti, prosegue la sua corsa e tutto, confermando l’andazzo appena intrapreso da quello che infatti si rivelerà essere soltanto il primo di una folta e fitta schiera di “colpi di scena” quasi interamente gratuiti, (continua a) “precipita(re) schiantandosi” contro il muro dell’ovvio, anche se permane un “bel” collassare di sceneggiatura (al solito interamente scritta e diretta dal solo Mike White, il creatore/demiurgo della serie), e così, elencandoli in ordine cronologico, andando ad aggiungersi per l’appunto al suddetto tracollo delle aspettative che la ragazza poneva su sé stessa, che però è sì la soluzione più semplicistica, ma in questo caso solamente perché è altresì la più realistica, vi sono:
- il momento (“Effetto Mandela” a parte) “Luke, io sono tuo padre!”: u(lt)r(a)-soapopera/telenovela;
- il modo in cui Chloe (Charlotte Le Bon) sembri disinteressarsi/scordarsi piuttosto in fretta delle sorti della nuova amica Chelsea;
- la scelta di chi finirà col riempire le (due, più vari expendable) body-bag: straziante e ingiusto “come la vita” (ma così, paradossalmente, è giocare sporco andando troppo sul “sicuro”!);
- e il riutilizzo near-death anti-spreco della Cerbera odollam [nomi comuni/volgari: pong-pong o albero dei... ehm (ma senza “ehm”)... suicidi], che comunque in un resort può pure starci, dai! E d’altronde in giardino qui a baita io stesso tengo, di mortalmente velenoso, 5 piante - una “macchia” - di oleandro, ch’è sempre un’apocynacea, una siepe di tasso (Taxus baccata), qualche bordo aiuola di datura stramonio, digitale purpurea e mughetto, e, in vaso, due Arum selvaticum [nomi comuni/volgari: gigaro chiaro, falsa calla o pan di... ehm (ma senza “ehm”)... serpe].
- C’è così tanta sofferenza nel mondo mentre per noi è tutto così facile! Insomma, per tante persone la vita è difficile e mi sembra una cosa così ingiusta! Ti fa stare davvero male!
- Siamo fortunati, è vero. Nessun altro nella storia dell’umanità ha mai vissuto meglio di noi, nemmeno i vecchi re e regine. Il minimo che possiamo fare è godercela! Altrimenti sarebbe offensivo. Si, sarebbe un’offesa per quei miliardi di persone che sognano da sempre di poter vivere una vita come la nostra.
Ordunque, dopo la 1ª stag., che segnava un piccolo punto di svolta per quanto riguarda quella branca della serialità medio-medioalta che si potrebbe definire à la Liane Moriarty (“Big Little Lies”, “Nine Perfect Strangers”, “Apples Never Fall”), e quell’a tratti capolavoro della 2ª, questa 3ª convince in pieno per 7/8 (ma sarebbe meglio dire per 9/10) e poi delude tanto per spietata perfidia “romantica” (in senso poesco) quanto per faciloneria sul finale.
Check-In (senza lo spoiler del check-out):
Jason Isaacs, Parker Posey, Patrick Schwarzenegger (rivelazione/conferma dopo “the Staircase”), Sam Nivola (rivelazione/conferma dopo “White Noise” ed “Eileen”) e Sarah Catherine Hook: famiglia Ratliff.
Walton Goggins [e Scott Glenn (e Lek Patravadi) e Sam Rockwell] e Aimee Lou Wood: Rick e Chelsea.
Michelle Monaghan, Carrie Coon e Leslie Bibb: la sorellanza.
Jon Gries (fil-rouge n.1) e Charlotte Le Bon: Greg “Gary” Hunt e Chloe.
Natasha Rothwell (fil-rouge n.2) e Nicholas Duvernay: Belinda e figlio.
Tayme Thapthimthong, Lalisa Manobal, Dom Hetrakul, Morgana O’Reilly, Shalini Peiris e Christian Friedel: team White Lotus.
Arnas Fedaravicius, Julian Kostov e Yuri Kolokolnikov: la fratellanza.
Bagaglio morale/etico a mano (dell'anima):
persone che si scoprono meschine (appartenenti tanto alla classe dominate quanto a quella dei nouveau-riche) e lo accettano, persone che non comprendono l'epifania del girone dantesco cui saranno indirizzate nell'inesistente Giorno del Giudizio e si considerano probe, persone che migliorano diventando consapevoli dei propri difetti, persone che sopravvivono ("I'm, you know, a pleaser") e persone che muoiono.
La fotografia è di Ben Kutchins (“Ozark”) mentre alle musiche Cristobal Tapia de Veer è sempre bravo, ma qui - polemiche extra-diegetiche con Mike White a parte - sembra un po’ riciclare sé stesso lavorando quasi col pilota automatico inserito. Si conferma invece riuscitissima l’idea di far riassumere/anticipare/commentare visulamente la storia dagli arazzi dei titoli di testa come di consueto firmati da Katrina Crawford & Mark Bashore della Playns of Yonder: in particolare Greg/Gary trasfigurato in (quello che mi piace credere possa essere) un raro coccodrillo siamese appostato (?) nei pressi di un’ardea/egretta che rappresenta Belinda intenta pure lei a cacciare o a... specchiarsi e scoprirsi diversa (e non per forza in senso buono).
Il concetto di Dio, in due linee di dialogo:
- Non pensi che sia solo una cosa che ti immagini? Tu vuoi sentire qualcosa e quindi…
- No, è reale.
Ad esistere sono senz’altro le quasi mille pagine della (non proprio) classica lettura da spiaggia costituita da “My Name Is Barbra”, il quasi fresco di stampa memoir della cantautrice, attrice, regista e signora Streisand, mentre a non esistere (purtroppo) è “A Wall of Ocean” (penso si possa trattare di una self-publishing in metafisica crasi postmoderno-massimalista fra “Under the Sea-Wind”, “the Sea Around Us” e “the Edge of the Sea” di Rachel Carson e “un Barrage Contre le Pacifique” di Marguerite Duras).
Stagioni:
- "the White Lotus: Hawaii" (6 ep., 2021) - * * * ¾ (****)
- "the White Lotus: Sicily" (7 ep., 2022) - * * * ¾ (****)
- "the White Lotus: Thailand" (8 ep., 2025) - * * * ¾
In attesa di “the White Lotus: Pietra Ligure”, “the White Lotus: Mar-a-Lago” e “the White Lotus: Moon/Mars”: i numeri “danno ragione” a Mike White, ma per me, a prescindere, potrebbe ambientarla anche in riva al Lago dei Cigni di Milano 3 a Basiglio.
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