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Ethos

1 stagioni - 8 episodi vedi scheda serie

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Ethos

di omero sala
7 stelle

 

locandina

Ethos (2020): locandina

 

È la prima e finora unica stagione di un dramma seriale turco - di otto episodi - che racconta la storia intrecciata di alcune donne e del mondo in cui si muovono (Istambul). Un’opera apparentemente sobria che però riesce a restituirci sia la complessità delle emozioni delle protagoniste, sia la precaria condizione sociale e culturale in cui esse si muovono.

 

Personaggi femminili:

  • Meryem (Öykü Karayel), domestica a ore 
  • Ruhye (Funda Eryi?it),cognata di Meryem, soffre di disturbi mentali
  • Peri (Dafne Kayalar), psicoterapeuta di Meryem
  • Gülbin (Tülin Özen), analista Junghiana, supervisor di Peri
  • Melisa, popolare attrice di soap opera
  • Hayrunnisa, la figlia omosessuale dell’hodja, autorità religiosa

 

Personaggi maschili:

  • Yasin (Fatih Artman) fratello di Meryem e marito di Ruhye
  • Sinan (Alican Yücesoy), play boy
  • Ali Sadi (Settar Tanr?ö?en), l’hodja, autorità religiosa del paese

 

Al centro del racconto c’è Meryem, una semplice ragazza che vive in periferia e fa la domestica in città, nel lussuoso appartamento di Sinan, un playboy. 

Meryem vive in casa col fratello Yasin, che fa il buttafuori in un locale notturno, e con la cognata Ruhye che ha due figli e soffre di disturbi mentali che si manifestano in una catatonica apatia e in diversi atti di autolesionismo (si scoprirà che la causa principale di questi squilibri mentali sono attribuibili al fatto che la donna è stata vittima, da bambina, di uno stupro). 

Anche Meryem ha un disturbo psicosomatico che le procura frequenti svenimenti: per questo viene indirizzata da una psicoterapeuta junghiana, Peri, una donna elegante, emancipata, laica, austera, apparentemente sicura di sé, che dimostra un certo distacco (non solo professionale), quasi un’insofferenza verso l’ingenuità candida di Meryem. Ma si capisce chiaramente che il suo autocompiacimento è una maschera che rivela fragilità irrisolte e non confessate nemmeno a se stessa.

Peri è seguita a sua volta da un’amica analista, Gülbin, che ha una relazione con Sinan, il play boy; anche Güblin appare libera, indipendente, benché provenga da una famiglia semplice con genitori alla buona, una sorella un po’ integralista e un fratello gravemente disabile.

Poi c’è Melisa, attrice in una popolarissima soap opera, che è compagna di palestra di Peri e amante di Sinan.

Meryem, anche su pressione del fratello nevrotico legato alle tradizioni religiose, si consulta spesso con lo hodja, un padre spirituale, una specie di imam, che ha una figlia devotissima, Hayrunnisa, che nasconde al padre la sua voglia di indipendenza e la sua omosessualità. Si consulta con lo hodja, si sottomette al fratello, asseconda la psicoterapeuta … ma difende i suoi spazi e le sue idee, conserva le sue convinzioni, fa le sue scelte.

Ad accomunare tutti i personaggi femminili e maschili sono la solitudine, l’incertezza, l’insoddisfazione, il disorientamento, la difficoltà a comunicare e capire, la sofferenza.

 

La serie è straordinaria per i contenuti (la rappresentazione di un mondo in transizione  faticosa) e per l’intelligenza con cui gli autori riescono a raccontare questi cambiamenti attraverso pochi ritratti femminili tracciati con pudore, quasi con reticenza.

Le donne, qui - indipendentemente dalla posizione sociale, dalla professione, dal livello culturale, dal fervore religioso - sono il motore immoto dei cambiamenti; determinate anche quando appaiono remissive; pazienti davanti all’ottuso dispotismo dei maschi, ma sempre decisive.

Myriem ha qualcosa da insegnare a Peri, la sua terapeuta; Hayrunnisa, la figlia omosessuale dell’hodja, ha qualcosa da insegnare al padre; la folle Ruhye sa aiutare il marito maschilista, ma più fragile di quanto possa sembrare. 

Tutte sono, più o meno esplicitamente, le iniziatrici di un processo evolutivo, ostetriche di un cambiamento, anime di un percorso di consapevolezza.

 

La narrazione si dilata lenta. Le immagini, pur raccontando un universo marginale, sono spettacolari: sia nei primi piani, quando scrutano il movimento impercettibile del viso, il tramutare controllato di una espressione, il guizzo veloce di uno sguardo che pare fisso ma trapela una sempre maggior consapevolezza; sia nel campi medi, quando mostrano una casa malmessa, un albero di cachi, un quadretto rurale con strada di campagna, uno spazio desolato di giochi per bambini, uno scorcio di metropoli con cavalcavia trafficato, lo skyline di Istambul con cupole, minareti e grattacieli, le facciate dei casermoni popolari con panni stesi e ventole di condizionatori. 

 

In una serie di otto puntate che racconta storie circolari, molte inquadrature sono inevitabilmente ricorrenti; alcune, ferme, appaiono come frame con funzione di dissolvenza. Servono sicuramente a riambientare la narrazione e a rassicurare con la familiarità degli spazi, ma certe insistite iterazioni di panoramiche vuote - così come i molti primi piani su visi e occhi sgranati che, fra campi e controcampi, guardano in camera - non possono nascondere che l’intenzione del regista sia anche quella di suggerire l’impossibilità di evadere da quel mondo, la fatica e l’ansia di liberarsi da quelle condizioni.

 

La serie introduce spunti particolarmente stimolanti e innovazioni originali, ma contiene anche diverse imperfezioni, qualche ingenuità da telenovela, alcune furbizie, molti stereotipi (si veda, per esempio, la insistita critica dei programmi popolari turchi, con l’attrice di soap opera che prende insistentemente le distanze dal suo lavoro; e il ricorso, nell’intreccio, di cliché propriamente abusati nelle soap opere diffuse nel paese e costantemente citate dai televisori accesi che appaiono nei diversi ambienti). 

Ma anche queste contraddizioni sottolineano forse la sua validità; in questa ingenua ambivalenza infatti si rispecchiano e convivono le due Turchie, geografiche (città/campagna, borghesia/proletariato) e socioculturali, con il paese sempre in bilico, in crisi, in faticosa transizione per il continuo alternarsi di aperture e chiusure, velleità laiciste e frenate integraliste, tentazioni europeiste e conservatorismi islamici, hijab e capelli al vento, tonaconi o pantaloni attillati, Atatürk o Erdogan. 

Fra i tanti meriti, c’è da riconoscere la sincerità con cui il regista guarda il suo mondo: una sincerità coraggiosa ma - jounghianamente - scevra di giudizi, che invita a guardarsi dentro, scavando, ad accettarsi per accettare gli altri, a capirsi per capire.

Tutto il film è imperniato su questo. 

Ed è un bene verificare alla fine che a trovare spiragli nel buio e prefigurare migliori prospettive siano tanto i pazienti quanto i terapeuti.

 

scena

Ethos (2020): scena

 

 

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