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Tales from the Loop

1 stagioni - 8 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Tales from the Loop

di mck
8 stelle

A Blink of an Eye...

 

 

Forte di una pacata, ma a tratti percussiva e lancinante, progressione orizzontale che avviene grazie alla verticalità di episodi più o meno auto-conclusivi, la prima stagione (che si potrebbe considerare come una mini-serie fatta e finita, poi accada quel che accada) di “Tales of the Loop”, la serie scritta (interamente) da Nathaniel Halpern [svezzatosi al lavoro su “Legion” nella scuderia di Noah Hawley ("Fargo"), e la cosa si nota] traendola dai lavori, più tardi raccolti in alcuni art book, di Simon Stålenhag (illustratore, digital designer e concept artist che ha sviluppato la propria poetica incrociando gli acquerelli ornito-naturalistici di Lars Jonsson con le prolusioni dai futuri anteriori di Ralph McQuarrie e Sid Mead, finendo col far sbocciare un Nuovo Mondo dalla peculiare ambientazione costituita da uno sfondo di dolce nostalgia campestre sul quale s’innestano le concrete apparizioni di una pullulante frenesia tecno-analogico-robotica e delle derivate e costituenti Macchine Meravigliose pre/post-industriali, solo in parte accomunabili allo steam-punk, al new weird e al connettivismo) e ambientata nel retro-futuro (Ray Bradbury + “It Follows” + Ted Chiang + “EveryThing Beautiful Is Far Away”: quindi no, non è Hard SF, ma SF d'atmosfera, esistenziale, financo romantico-sentimentale (si consideri il contemporaneo revival, a proposito di retrofuturismo, della spielberghiana "Amazing Stories"), e con alcuni - la parte più interessante - inserti speculativi) di una versione alternativa degli anni ‘80, in un Ohio rurale (interpretato dagli stati canadesi Saskatchewan e Manitoba), tra un paese di provincia, costruito nei pressi, e in parte all’interno, del curvo perimetro del supermassivo acceleratore di particelle costruito attorno alla Eclipse, una sfera composta da spicchi di anti-materia-oscura (e con tre torri di raffreddamento…), il cui grande anello si srotola sotterraneo - e ogni tanto sfiata spuntando dal suolo (botole) - e corre sulla superficie (boe) del grande lago Erie (“Take Shelter”, oltre allo stesso "It Follows", etc...), e una lontana città (Toledo o Cleveland), lascia il proprio segno non indifferente all'interno di questa nuova onda di SF seriale adulta che sta caratterizzando il passaggio dagli anni '10 ai '20: "Black Mirror", "WestWorld", "Love, Death & Robots", "Devs"...

 


I due episodi semi-capolavoro sono il 4°, “Echo Sphere”, diretto da Andrew Stanton (co-sceneggiatore di tutti e 4 i “Toy Story”, di “Monster, Inc.”, di “A Bugs Life” - che ha co-diretto - e di “Finding Nemo”, “Wall•E” e “Finding Dory”, che ha diretto, e regista di alcuni ep. di eccellenti serie tv quali “Stranger Things”, “Better Call Saul” e la già citata “Legion”) e, soprattutto, l’8° e finale di stagione, “Home”, per la regìa di Jodie Foster (“Little Man Tate”, “Home for the HoliDays”, un paio di episodi di “Orange Is the New Black” e “Black Mirror: Arkangel”). Il pilot, “Loop”, diretto da Mark Romanek, introduce alla perfezione l’atmosfera, il sense of wonder e le speculazioni poetiche. Ce ne sono anche un paio che si possono pure definire riempitivi e/o filler [il 3°, “Stasis”, diretto da Dearbhla Walsh, costruito su un topos stra-abusato della SF (“Stop the World, I Want to Goof Off”, il 3° segmento del “TreeHouse of Horror XIV”, il 1° ep. della 15a stag. di “the Simpson” del 2003), senza però aggiornarlo il giusto, e il 6°, “Parallel”, diretto da Charlie McDowell (“the One I Love” e “the Discovery”, ancora “Legion”, e “On BeComing a God in Central Florida”), che comunque contiene la seconda tag-line per importanza della serie: “The end of the day: who knows?”, ché la prima è quella posta in capo e in coda a questa pagina], ma la sufficienza ad ogni modo è sempre raggiunta. Gli altri episodi sono molto buoni: il 2°, “Transpose”, diretto da So Yong Kim, che poi innesca il più importante filo rosso della storia, il 5°, “Control”, di Tim Mielants, anche questo basato su un tema iper-sfruttato, ma che qui viene sfruttato e messo in scena alla grande, e il 7°, “Enemies”, diretto da Tie West, che, pur se senza particolari guizzi inventivi, dona una nuova luce ad uno dei personaggi meno (ap)profondi(ti) della serie.

 

 
Cast composto da attori (nessuno dei quali appare in tutti gli episodi) di solida maestria: Rebecca Hall e Jonathan Pryce in testa. Poi Jane Alexander, Paul Schneider, Ato Essandoh, Nicole Law, Dan Bakkedahl, Stefanie Estes… E i giovani Daniel Zolghadri, Tyler Barnhardt, Abby Ryder Fortson e, soprattutto, Duncan Joiner (“Waco”, “Camping”, “Amazing Stories”): ottima interpretazione, la sua: ricordatevi questo nome.
Fotografia di Ole Bratt Birkeland, Luc Montpellier, Jeff Cronenweth, Craig Wrobleski. Musiche di Philip Glass e Paul Leonard-Morgan. Producono Matt Reeves & Co. per Amazon.

Nel finale, un cameo - giusto, appropriato e significativo - di Shane Carruth (i magnifici “Primer” e “UpStream Color”), forse prodromo per una eventuale 2ª stag., forse no, ma va bene così: il cerchio è chiuso, perfettamente (dolore, felicità, perdita, amore, crescita, scoperta). Ciò non toglie che un altro cerchio non possa andare ad intersecarsi al primo, un giorno. Just a Blink of an Eye.

 

* * * ¾ - * * * * (7.75)   

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