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Dalla luce di The Tree of Life di Malick al buio di The Dark Side of the Sun - Intervista esclusiva al regista Carlo Hintermann
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Xeroderma pigmentosa. Solo a scrivere il nome un lungo brivido percorre la schiena: si tratta di una rara malattia genetica che vieta a chi ne è affetto di esporsi ai raggi ultravioletti. Questo comporta che anche la luce del sole possa generare l’insorgere di tumori della pelle che rubano anni e prospettive di vita: chi nasce affetto da XP sa bene che la sua età difficilmente supererà i trent’anni e che tutta la sua intera esistenza sarà chiusa all’interno di quattro mura, al buio e lontano da ogni fonte di luce. Se già da adulti risulta impensabile una condizione del genere, figuriamoci cosa può passare per la mente di un bambino che si vede negare anche la possibilità di andare a fare una passeggiata durante una giornata primaverile o la gioia di poter semplicemente giocare con i coetanei. A meno che qualcuno, a cui l’argomento sta a cuore, non crei per loro una struttura in cui poter vivere di notte, scorrazzare liberi all’aria e avere una parvenza di normalità.

 

Questo è quello che hanno fatto a New York nel 1995 Caren e Dan Mahar, la cui figlia Katie è affetta da XP. Hanno fondato una società no profit e messo in piedi uno speciale campus, Camp Sundown (che potremmo ribattezzare Campo Tramonto), in cui la giornata dei bambini comincia dopo che il sole decide di andare a dormire e lasciare spazio al buio della notte: un mondo rovesciato che, però, ha finito con il regalare serenità a chi lo vive, permettendo a grandi e piccoli di abbracciare la vita stessa, un mondo che come in Mary Poppins trasporta in un universo di fantasia, immaginazione e, perché no?, cartoni animati.

 

Da questo microcosmo è rimasto affascinato Carlo Shalom Hintermann, giovane cineasta italosvizzero, che lì si è insediato insieme al produttore Daniele Villa, realizzando con la loro casa di produzione Citrullo International il documentario The Dark Side of the Sun, presentato il prossimo 3 novembre nella sezione L’Altro Cinema al Festival di Roma. A loro, si sono aggiunti il direttore dell’animazione Lorenzo Ciccotti, la magica fotografia di Giancarlo Leggeri, l’onirica musica di Mario Salvucci, Iginio Straffi (il padre del successo cinematografico mondiale delle WinX) e la sua Rainbow che hanno fornito la loro esperienza e supporto, il musicista inglese Michael Cashmore che con testo di David Tibet ha composto “My Eyes Close”, canzone della colonna sonora cantata da Antony degli Antony & the Jones. Se pensate che siano troppi i grandi nomi coinvolti, vi manca ancora da sapere che il progetto ha ricevuto il sostegno del Programma Media dell’Unione Europea e la partecipazione di Rai Cinema e delle televisioni giapponese, danese e finlandese (NHK, DR Tv e YLE).

 

Per chi non lo conoscesse, basta sapere che Carlo Hintermann, nonostante la sua giovane età, è stato il line producer di The Tree of Life di Terrence Malick, di cui ha anche prodotto e diretto l’unità italiana, girando di suo pugno anche alcune scene. Mosso da cotanto curriculum, ho contattato direttamente Carlo, che si è prestato a qualche domanda.

 

 

Innanzitutto mi viene spontaneo farti una domanda. Come mai, tu che hai lavorato con la straordinaria luce del film di Malick, hai deciso di cimentarti in una storia in cui la luce finisce per essere l’antagonista, il nemico da eliminare?

Oltre all’interesse per una patologia di cui si sente poco parlare e di cui gran parte della gente comune non conosce neanche l’esistenza, da un punto di vista produttivo mi ha spinto l’interesse per la sfida. Realizzare un film con la luce assente sembrava quasi impossibile, bisognava partire da soluzioni che eludevano le nostre normali prospettive. Non puoi ragionare da direttore della fotografia che opera in maniera lineare. Con Giancarlo Leggeri, direttore di fotografia del documentario, abbiamo ragionato molto fino ad arrivare alla conclusione che dovevamo rovesciare la nostra prospettiva e lasciarci guidare dalla grande fascinazione del buio, cercando di ricorrere alla luce il meno possibile e di usare “metodi alternativi”, creati appositamente.

Camp Sundown mi ha affascinato sin dal momento in cui lessi un articolo sul New York Post ma era anche forte la paura nell’affrontare l’argomento. Non volevo per nessuna ragione sottolineare l’aspetto patetico che avrebbe fatto contenti gli spettatori di quei reality televisivi sulle malattie più strane del mondo e questa convinzione si è acuita nel momento in cui ho incontrato i Mahar, quando mi sono reso conto dell’eccezionalità delle persone con cui ero entrato in contatto. E non parlo solo dei bambini: basta vedere i genitori dei piccoli interagire con i figli per capire di quanto queste persone siano straordinarie.

 

 

Per me che sono italiano e conosco poco di Camp Sundown, puoi raccontarci di cosa si tratta?

A Camp Sundown ogni anno trovano ospitalità un numero oscillante di bambini, di solito tra i quaranta e i cinquanta, dipende ovviamente dai fondi che si hanno a disposizione. La straordinarietà del posto è data dal fatto che anche genitori, fratelli o sorelle vengono accolti a braccia aperte e tutti si adeguano alle esigenze del “malato”. L’atmosfera che si crea è difficile da raccontare a parole: l’eccitazione che si crea in questi bambini è ciclonica, avvolge tutto e tutti.

 

 

La difficoltà maggiore è stata sicuramente trovare un’alternativa alle classiche luci da set. Come hai risolto la questione?

È chiaro che ogni luce usata veniva analizzata con uno strumento che si chiama esposimetro, che serve per l’appunto a misurare la presenza di raggi UV. Tenendo conto che i led di base non ne emettono, avevamo l’esigenza di luci particolari e in questo è venuta in nostro soccorso la Società Italiana Technolight di Gianluca Bronzini che, a pieno titolo gratuito, ha messo a punto dei sistemi luminosi non dannosi per questi bambini così ipersensibili. Per lo scopo del documentario, poi, ci servivano anche dei giochi che emettessero luce e decisivo è stato l’apporto di Robert Selen e della sua società Lanterne volanti, che ha creato ninfee galleggianti, candele decorative e lanterne volanti “innocue”, tutti strumenti che sono rimasti a Camp Sundown a disposizione di chi vorrà giocarci.

 

 

Il tuo potrebbe essere definito un documentario anomalo. Innanzitutto per il coraggio di non ricorrere alle interviste, spesso vero cruccio di chi affronta temi sociali, e poi per la scelta di inserire al suo interno intere sequenze di animazione alla Miyazaki. Potremmo definirlo un docuanimato. È stata una decisione maturata sin dall’inizio delle riprese o è intervenuta in un secondo momento?

Le interviste sono state anche il nostro cruccio, non in sede produttiva ma nel momento di vendere il nostro prodotto ai distributori e alle televisioni. La nostra è stata una scelta consapevole sin dal primo momento: a noi interessava la quotidianità dei bambini e non il loro mettersi in mostra e proprio per dare sfogo al loro immaginario abbiamo voluto che i loro pensieri trovassero un’eco nell’animazione. Con Lorenzo Ceccotti, con cui avevo collaborato per il mio corto H2O, abbiamo seguito e lavorato con i bambini per ben due anni, abbiamo raccolto testimonianze durante i workshop tenuti e ne abbiamo ottenuto una mole incredibile di successioni della loro fantasia, del loro immaginario: a volte son venuti fuori elementi cosmogonici quasi da scenario epico che noi adulti facciamo quasi fatica a immaginare. Abbiamo animato questi racconti e abbiamo scelto di farli doppiare direttamente a loro, continuando fino alla fine a pensare che non erano i bambini che lavoravano con noi ma noi a lavorare con loro, non abbiamo mai fatto sentire loro a disagio per via della nostra “invasione”. Loro ci offrivano qualcosa e anche noi dovevamo adattare le nostre forze alle loro esigenze.

 

Ne deduco però che scegliere l’animazione come linea narrativa comporti anche difficoltà di tipo economico che per una piccola produzione possono anche essere insormontabili.

È vero, man mano che lavoravamo i costi aumentavano a dismisura e ci costringevano a cercare dei partner che aderissero al progetto fino a quando la passione comune ci ha fatto incontrare Iginio Straffi che ha contribuito economicamente a The Dark Side of the Sun ma non è mai intervenuto nei contenuti, lasciandoci libero campo sul lavoro, dote quasi rara direi. Così come gratuitamente ha prestato la sua voce Antony degli Antony & Johnson mostrando che quando non si ha niente da dimostrare si è molto più aperti alle collaborazioni o partecipazioni straordinarie a prodotti altrui.

 

 

Che ruolo ha avuto avere dietro la produzione di Rai Cinema? Ultimamente si sottolinea spesso che la Rai non osa o non investe abbastanza, per esempio.

Noi – Carlo parla sempre al plurale mentre risponde alle mie domande, segno di quale sia il grado di coesione con il suo team di lavoro, NdS – siamo stati forse fortunati. Rai Cinema è intervenuta sin da subito nel progetto e ci ha quasi fatto da passepartout, aprendoci le porte delle varie televisioni. In totale abbiamo raccolto la considerevole cifra di 500 mila euro, soldi impensabili per un documentario. Parte di questi fondi sono venuti poi dai fondi europei e niente invece, mi dispiace dirlo, dal MiBaC, il nostro Ministero: questo è un aspetto quasi castrante, visto che non ti permette di conquistare e avere credibilità internazionale. Come fai a ricercare fondi all’estero ad esempio quando in Patria non credono nel tuo progetto e non ti sostengono? Per non parlare poi della trafila che occorre fare per accedere ai fondi strutturali dove esiste una sorta di discredito nei confronti del cinema come artigianato. Ogni volta che ti presenti da qualcuno devi giustificare tutte le scelte che fai, dire perché hai scelto quel collaboratore e non quell’altro oppure spiegare tutte le sante volte il tuo progetto, costringendoti poi a reinventarlo di continuo. All’estero invece questi passaggi puoi benissimo saltarli: non importa chi è al tuo fianco, quello che conta è il film, inteso come il risultato del lavoro di tutti quanti. Tutti hanno come obiettivo quello di realizzare il proprio lavoro nel miglior modo possibile per offrire un prodotto ottimo sotto tutti i punti di vista. Ci guadagni così sia in professionalità sia in tempi e contesti di lavoro. Direi che è una bella differenza, no? Occorrerebbe maggiore consapevolezza in casa nostra ma prometto che non mi stancherò di lottare per raggiungere questo traguardo.

 

Ritornando ai bambini di Camp Sundown, cosa ti è rimasto a riprese ultimate?

Come ti dicevo prima, come scelta abbiamo sin da subito voluto essere presenti dentro il campo e vivere a contatto con i bambini ogni momento possibile. Ci ha colpito ad esempio l’aria di serenità che si respirava all’interno. Questi bambini sono consapevoli che le loro prospettive di vita non vanno oltre i trent’anni nei casi più fortunati eppure vivono tutti una vita piena: pensano che a tutti è toccato in sorte qualcosa e i loro problemi non sono più gravi di altri. È una grande lezione di vita vederli sorridere o mettersi in gioco durante i workshop.

 

 

Come sono stati organizzati questi workshop?

In tutto abbiamo realizzato con loro tre differenti workshop. Il primo anno, per rompere il ghiaccio e avvicinarci al loro mondo, ci siamo dedicati all’universo del documentario. Daniele Villa, il produttore, e Piero Lassandro, il montatore, hanno spiegato gli elementi di base del linguaggio documentaristico e hanno dato anche le telecamere in mano ai bambini: parte del risultato di ciò che hanno realizzato ho voluto utilizzarlo anch’io inserendo in The Dark Side of the Sun alcuni frammenti utili a cogliere aspetti inediti che lasciano venir fuori le loro esplosioni di spontaneità. Il secondo anno, invece, ci siamo dedicati all’aspetto musicale e abbiamo messo nelle loro mani strumenti autocostruiti mentre il terzo anno è stato all’insegna del laboratorio teatrale e dell’arte del collage, in cui Daniele Villa ha costruito un interessante percorso usando materiali del vissuto dei bambini, messi a disposizione da loro stessi.

I workshop ci hanno permesso di entrare dentro le loro intimità, tanto che tutto ciò che rappresentava una “messa in scena” è stato abortito sin dall’inizio. Spesso, poi, non giravamo neanche durante gli incontri: a noi serviva che i piccoli protagonisti si abituassero alla presenza delle telecamere. Da qui nasce anche la scelta di non inserire interviste: nessuno parla di fronte a una camera del proprio dramma, abbiamo raccolto brani di conversazione, flussi di pensieri ma niente morbosità o casi umani.

Mi piace sottolineare anche quanto siano stati straordinari i genitori di questi bambini. Spesso si tratta di madri sole che lottano per ottenere alcuni diritti, come ad esempio la madre di Kate che ha lottato contro il sistema universitario affinché fossero oscurate le finestre delle aule. Il più delle volte, poi, queste donne hanno cominciato a rendere familiare ai bimbi la malattia sin dall’infanzia, raccontando loro solo favole che abbiano per protagonista la notte, e dal confronto delle loro esperienze nasce anche la consapevolezza di non essere sole o di come agire e comportarsi.

Nonostante ho avuto come obiettivo il maggior grado di oggettività, non nego che il coinvolgimento emotivo è stato alto, molto alto.

 

Sto guardando in questo momento le tue precedenti produzioni come regista e mi saltano all’occhio due documentari che parlando di grande cinema, “Otar Ioseliani” del 1999 e “Rosy-fingered Dawn” del 2002, dedicato a Malick e presentato al Festival di Venezia. Premesso che non potrai esimerti dal parlarmi di Malick, partiamo dal primo: come mai il cinema di Ioseliani?

Se ti dicessi che si tratta di pure coincidenze della vita, mi crederesti? Inizio col dirti che tutto comincia nel momento in cui ho deciso di andare  a studiare in America perché in Italia, ahimè, non trovavo nessuno che potesse insegnarmi qualcosa. Non fraintendermi, però: credo che in Italia ci si culli troppo sulle posizioni di potere e di conseguenza nessuno ha l’umiltà e la grandezza di porsi al livello degli studenti all’interno delle scuole. Negli Stati Uniti, invece, ho avuto come insegnante lo sceneggiatore di Ioseliani che, una volta detto che avevo intenzione di scrivere un libro sul cinema di Ioseliani (la Citrullo International ha mosso i primi passi proprio come piccola casa editrice in cui i fondatori – Hintermann e Villa – curavano libri su registi come Kitano, Lynch e Scorsese), mi ha presentato il regista, persona di una eccezionalità unica. Si è completamente fidato di me, raccontandomi il suo cinema, il suo concetto di arte, i suoi progetti. Avevo 22 anni allora e Ioseliani mi ha trasmesso in grande insegnamento: ogni gesto è artistico. Di lui mi piace il fatto che non ha mai tradito il proprio istinto artistico. Ancora oggi siamo in ottimi rapporti di amicizia e sono più che felice per la sua candidatura agli Oscar 2012.

Situazione analoga è quella che si è verificata con Terrence Malick. Ho avuto la sana incoscienza di rintracciare il suo agente per proporgli l’idea di un documentario sul suo cinema. Ovviamente la prima risposta è stato un no secco ma non ci siamo persi d’animo e siamo andati direttamente da lui a presentargli il nostro progetto: noi non volevamo intervistarlo per farne un ritratto, ci interessava parlare del suo cinema con chi aveva avuto la possibilità di lavorare al suo fianco, dai tecnici agli attori, da Arthur Penn a Sissy Spacek. E abbiamo ricevuto un si inaspettato che da quel momento si è trasformato in un’altra grandissima amicizia.

 

 

Sai che fa strano sentirti raccontare di un maestro, un mostro sacro del cinema come Terrence Malick in questi termini?

In realtà su Malick girano ormai tante di quelle leggende metropolitane che ogni volta che racconto il nostro incontro tutti rimangono sorpresi. È una persona estremamente timida per volontà di preservarsi dallo star system americano, molto più invasivo del nostro. Per il resto, è una persona di un’umanità e umiltà incredibili…

 

 

E scommetto che è rimasto contento del lavoro che avete fatto ai tempi tanto da essere tu poi richiamato a lavorare in quello che per me è un capolavoro d’avanguardia, che sarà compreso solo tra vent’anni: The Tree of Life, film vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes di quest’anno.

Su The Tree of Life esiste un accordo contrattuale per cui non posso rivelare dettagli. Ho fatto da line producer ma ho girato anche diverse scene e ho organizzato il lavoro con il direttore della fotografia, girando alcune scene “naturalistiche” in Italia. Se ti dico la parola “grotta”, ti dice nulla? Un’altra, ad esempio, è quella che segue il volo degli stormi intorno a un grattacielo ma non posso dire di più, giuro!

 

Ci potrai però dire se Malick ti ha lasciato piena libertà, se aveva già deciso ogni inquadratura nel minimo dettaglio, se è maniacale o tirannico…

Terrence mi ha lasciato piena libertà. Lui capisce a priori cosa può ottenere dalle persone con cui lavora e di conseguenza è convinto del fatto che può raggiungere ciò che vuole solo quando lascia piena autonomia sul da farsi. C’è stato solo un confronto sul tono e sul colore ma per il resto non siamo mai entrati nello specifico. Diverse scene italiane sono state lasciate da parte ma so che verranno inserite nella versione di quattro ore e mezzo a cui sta lavorando. Poi, sarà anche argomento di un libro che uscirà il prossimo anno negli Usa e che devo ultimare di scrivere: sarà incentrato sul cinema di Malick e l’ultimo capitolo è interamente dedicato al film.

 

 

Quindi, sappiamo adesso che di Malick vedremo il film con Affleck e la Weisz, quello che sta attualmente girando con Bale e una nuova versione di The Tree of Life. Beh, mi sembra tanto per un regista che è famoso anche per i suoi lunghi tempi di lavorazione…

E ti dico di più. Grazie alla nuova energia che ha ritrovato anche per mezzo della nuova manager che lo accudisce e gli ha restituito la voglia di fare, non si fermerà di certo qui: qualcos’altro bolle in pentola ed è pronto per essere messo in scena.

In più, mi sta dando una mano incredibile supportandomi per il mio primo progetto lungometraggio di fiction, una coproduzione Italia, Germania e Stati Uniti che produrrà Rita Rusic, con un cast altrettanto internazionale in via di definizione. Sarà un mistery/thriller, se vogliamo proprio parlare di generi, con al suo interno anche grandi effetti speciali. È la storia di un medico donna che a un certo punto decide di smettere di esercitare e mettersi a studiare storia della medicina, andando incontro ad elementi che la riportano a un mistero che si svolge nel Settecento. Sarà un continuo avanti e indietro nel tempo…

 

 

E che ne sarà di The Dark of the Sun dopo Roma?

Il film negli Stati Uniti uscirà in sala mentre sto cercando di ottenere una distribuzione mirata in Italia. Al film poi si affianca un intero progetto, esiste un sito in cui si raccolgono fondi per Camp Sundown e chi vuole può dare una mano (www.thedarksideofthesun.org).

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