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L'ultimo terrestre - Intervista esclusiva a GiPi
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Inseguo GiPi da parecchio tempo, da prima ancora che irrompesse la marea delle acque veneziane. Per un motivo o un altro, non siamo mai riusciti a scambiare quattro chiacchiere sul suo primo lungometraggio e ora è finalmente arrivato il momento. Non perché lui abbia molto tempo libero a disposizione: è vero che il Festival di Venezia è passato ma venerdì scorso il suo primo lungometraggio, L’ultimo terrestre, è giunto nelle sale ed è cominciata la delicata e avulsa fase della promozione. Sono, però, riuscito a beccarlo tra un impegno e un’intervista e ho avuto la possibilità di scambiar due chiacchiere telefoniche direttamente con lui.



 

Difficile, semmai, è riuscire a stare lontani dal mondo delle sue graphic novel. Mi ero ripromesso che mi sarei concentrato solo sul film e, soprattutto, che non lo avrei definito “fumettista”, termine che mi sembra riduttivo di fronte al lavoro realizzato. È un po’ come se definissi Alfred Hitchcock o Ridley Scott scenografi, partendo da quella che era la loro professione sulla carta. Così come mi son ripromesso di non parlare della lavorazione del film, con annessi aneddoti o episodi: GiPi tiene un suo blog personale, un diario di bordo in cui ha annotato tutto quello che accadeva, comprese eventuali difficoltà o stanchezze.



 

Sono allora partito dalle opinioni che chi ha visto il film ha già scritto su FilmTv.it, dando voce a chi di professione non fa il critico cinematografico ma che dimostra competenza e gusto talvolta anche superiori. Ho chiesto a loro di intervenire. Tra le risposte, trovate le vostre curiosità in certi casi “prevenute” da GiPi stesso.

 

Grazie a Marlucche, Nickoftime, Roger Tornhill e Database per la collaborazione. Poiché l'intervista non è stata registrata, quello che segue è un resoconto translato di un'ora di conversazione. Le forme e i modi non sono esattamente quelli che leggerete. È come se davanti ad ogni risposta vi fosse un «GiPi mi ha detto che» che, per esigenze di forma, lascia spazio a un botta e risposta "ricostruito".



 

Ciao Gianni. Prima di ogni cosa, come stai? Come si sopravvive a un festival cinematografico come quello veneziano?

Sto bene. Sono semplicemente stanco. Anche perché Venezia non finisce mai. Proprio ieri sera a Roma ho ritirato il premio Pasinetti per la migliore opera prima e ciò comporta nuovamente lavoro e interviste. Finisco di parlare con te e già mi aspetta qualcun altro. È una bella sensazione, anche se traviante: ho fatto un piccolo film, come piaceva a me, senza seguire nessun tipo di genere e l’accoglienza che sta ricevendo mi rende fiero del risultato ottenuto. Ricordo ancora l’indifferenza di quando mi hanno detto che si andava a presentarlo in Concorso al Lido.

Ho cominciato a lavorare all’Ultimo terrestre un anno e otto mesi fa e mai prevedevo un percorso del genere. Quando in estate si è profilata l’ipotesi, l’ho presa sotto gamba. Non ci capivo niente di festival, rassegne, promozione. Però, c’era qualcosa che mi sottolineava come fosse “importante”: ho visto negli occhi dei miei collaboratori accendersi una strana luce. Poi, quando Domenico Procacci, il produttore del film, è venuto a casa mia a comunicarmi ufficialmente che saremmo andati a Venezia, ho reagito in un primo momento da incosciente: semplicemente, chiesi a lui se era contento. Mi rispose di sì e questo a me bastava. Lui andò via e io sono andato a fare una doccia. In quel momento, ho realizzato cosa stava succedendo: sono crollato, mi son messo a piangere come un bambino e son andato a festeggiare con un paio di amici in un bar sotto casa a modo mio, con birra e patatine.

 

 

 

Poi c’è stata la prima proiezione per il pubblico ed è arrivato il plebiscito. Il film piace e sorprende per il suo essere poco italiano, con un inizio alla David Lynch e una serie di scelte spiazzanti come quella di non ricorrere a nessun effetto speciale roboante nei momenti in cui è in scena l’alieno.

Per me, il mio è un prodotto quasi intimo. C’è dentro tutta la mia poetica e mi sento disarmato di fronte a tanto clamore. Qualcuno in giro comincia a chiamarmi “maestro” ma non mi sento tale. Mi auguro un giorno di poterlo diventare, mi farebbe piacere ma penso che l’umiltà non vada mai dimenticata. Mi colpiscono le ottime critiche dei professionisti ma apprezzo ancora di più quelle degli spettatori. Ho la tendenza a leggere tutto ciò che si scrive sul mio conto e di conseguenza ho letto anche le opinioni scritte dagli utenti di Film.Tv.it e, tramite te, ringrazio loro uno per uno per aver trovato anche del tempo per dedicarsi all’Ultimo terrestre. Non volevo scardinare alcun genere tanto che è difficile classificare ciò che ho realizzato: è una commedia? È un film drammatico? Grottesco? Io stesso non lo so, ho pure cambiato il finale il giorno prima delle riprese.

L’Ultimo terrestre si avvicina molto a una delle mie graphic novel, La mia vita disegnata male: pur essendo autobiografica, non ha generi di riferimento. Ho corso un grosso rischio, soprattutto facendo virare i toni con una curva ripida verso il drammatico, ma sono fiero di aver potuto lavorare in libertà, senza vincoli o senza pensare al dopo. Vedi, ad esempio, la scelta di delineare l’alieno soltanto con un pupazzone di gomma grigia, senza effetti speciali, è voluta: non volevo niente di nuovo, ho usato la classica immagine dell’extraterrestre da Area 51, il primo che trovi che ricerchi su Google immagini della letteratura ufologica classica.

 

 

 

A proposito dell’alieno, in molti ovviamente ci vedono del sottotesto che fa riferimento alla diversità, così come nella scelta di usare un personaggio femminile trans. È solo dietrologia o era voluta la scelta della “curiosità” al posto della “paura”?

Diciamo che è tutto casuale. Io mi sono concentrato sulla storia di Luca, il protagonista, e non ho pensato alle possibili spiegazioni: ho voluto raccontare la storia di un uomo che è ormai come un involucro di plastica. Mi dicono tutti che nel film è possibile tratteggiare paragoni con gli immigrati o con altre forme di diversità: non ho mai pensato a tale concetto perché per me la diversità non esiste. Anche il personaggio di Roberta [la trans] è venuto così, senza linee allegoriche: se ci pensate, Roberta si sente donna e come tale si comporta, anche se il modo di parlare, di muoversi e il tono di voce non lo sono per nulla.

 

 

 

Qualche tempo, quando lessi che stavi per girare il tuo primo lungometraggio dopo esserti dilettato con parecchi corti, sono rimasto sorpreso dallo scoprire che non filmavi qualcosa di tuo ma l’opera di un altro disegnatore. Perché tale scelta?

Anche il mio produttore è rimasto sorpreso ma il motivo della mia scelta è duplice. Da un lato, i miei libri non mi convincevano perché sono un incosciente che trasferisce sulla carta tutti gli elementi della sua esistenza e che dopo ha paura di quello che ha fatto, soprattutto se ne viene fuori qualcosa di forte. Spesso io stesso rimango stupito dal risultato ottenuto: quando sono sul mio tavolo da disegno non me ne rendo conto, ogni argomento diventa sacro ed io svanisco nel momento in cui la penna tocca il foglio. A lavoro pubblicato, invece, mi spiazzo da solo e capisco che mi sono dato davvero in pasto ai lettori: incoscienza allo stato puro!

Dall’altro lato, mi pareva che la storia di Giacomo [Monti] fosse forte. L’ho chiamato e ovviamente ha accettato la trasposizione, senza mai interferire su nessuna delle mie scelte. Pur rivedendo gran parte della storia con il mio punto di vista, ho mantenuto costante l’ambientazione umida e secca dell’originale. Pensavo inizialmente di girarlo a Rimini, usando le location da lui scelte, ma mi son reso conto che non avrei avuto le stesse potenzialità che mi offrivano i posti che invece conosco bene, come quelli intorno a Pisa. Il resto, poi, è venuto da sé: mi sono rimesso a lavorare sullo script, disegnando i bozzetti anche di notte. È difficile se fai il disegnatore tenere lontano le tavole che fanno ormai parte di te, anche se ho cercato di non farmi influenzare dal tratto di Giacomo.

 

 

E questo è parecchio evidente nell’uso che fai della prospettiva, tratteggiando lunghe vie di fuga che definiscono la profondità del quadro d’azione. Addirittura sembra che le location stesse siano state scelte in funzione di ciò.

Verissimo, rispecchiano quasi un senso di libertà a tuttotondo. Ogni singola inquadratura è curata nel più piccolo dettaglio: come in un disegno, nulla è lasciato al caso. Penso ad esempio all’effetto ottenuto nella scena finale in cui Luca ritorna a casa e guarda il cielo. Quando l’ho rivista, mi sono reso conto di come fosse forte e vivo il legame col disegno: come se i personaggi fossero usciti dalla tavola e si fossero animati.

 

 

 

Per i ruoli del protagonista Luca hai scelto Gabriele Spinelli, un attore esordiente che nella vita fa tutt’altro mentre per il padre sei ricorso a un mostro sacro del nostro cinema, Roberto Herlitzka. Spiegaci le tue scelte e come hai convinto Roberto a recitare con un pupazzone.

Con Gabriele ci conosciamo da una vita, ci lega una forte amicizia consolidata con gli anni. Insieme abbiamo lavorato a diversi cortometraggi in passato, in cui ha dimostrato tutta la sua bravura. Avevo scelto un ruolo secondario da fargli interpretare ma una notte a casa mia, mentre facevamo delle prove, ho percepito che Luca Bertacci era lui e di conseguenza il personaggio gli è stato costruito addosso e Gabriele ha indossato l’abito alla perfezione, vincendo la sua e la mia scommessa.

Roberto. Un monumento del nostro cinema e non solo. Quando l’ho contattato, mi disse che conosceva la storia e ha accettato con un entusiasmo incredibile. Il ruolo del padre di Luca non era dei più facili da affrontare, avrebbe dovuto recitare per molto tempo con il “pupazzone” e Roberto non ha battuto ciglio. Nella scena in cui insegna all’aliena a piantare i pomodori, ha reso il massimo ad esempio e credo che si percepisca anche il clima di complicità che si respirava sul set.

 

 

In un momento in cui i nostri cineasti hanno difficoltà nel realizzare i loro lavori, tu a cosa sei andato incontro? Chi ha partecipato alla produzione dell’opera? Hai avuto problemi ad esempio con il reperire i fondi necessari?

Sono un bipede fortunato. Non sono stato io a scegliere il cinema, è avvenuto il contrario. Domenico Procacci è venuto a casa mia a propormi una regia, ha accontentato ogni mia richiesta e francamente so poco di produzione, fondi e quant’altro. Oserei dire che non so tuttora cosa significhino.

 

 

Adesso il film è nelle sale. E sono arrivati anche i primi dati del box office. Deluso da numero di sale e incassi?

La verità? No. Come detto prima, il mio è un piccolo film e il numero di sale a disposizione è direttamente proporzionale al tipo di opera, per cui non mi attendevo certo chissà che. Non avevo aspettative, anche se dopo Venezia sento addosso un certo peso. L’accoglienza tributata è andata al di là di ogni più rosea previsione. Che dirti? Lunedì mattina quando ho letto il tuo post – ebbene sì, ho saputo da voi com’era andata – ero in un momento di stanca e inizialmente l’avevo presa “male”: corda e sapone [questa la "lista della spesa" scelta per rilanciare il post dalla sua pagina Facebook] ma poi mi è scivolato addosso. Il risultato che più conta è sapere di essere apprezzati. Forse il film uscirà anche all’estero, la stampa d’oltralpe è stata generosa: il complimento più bello me lo hai fatto tu in apertura dicendo che non è un film italiano, almeno ho portato qualcosa di non già visto e ciò mi gratifica.

Chi vuole, poi, può incontrarmi anche stasera. Sarò a Milano alla Fnac alle 18: passate a salutarmi!

 

L'ultimo terrestre (2011): Trailer Ufficiale

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