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Venezia 2011, Controcampo: Maternity Blues/2 - Intervista al regista Fabrizio Cattani e backstage esclusivo
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Come promesso, ecco qui la seconda intervista inerente Maternity Blues, il film sulle madri infanticide della sezione Controcampo Italiano. Questa volta a parlare è direttamente il regista Fabrizio Cattani che in esclusiva ci regala il backstage del film, con i suoi interventi e quelli del cast. Appuntamento ora al Lido il 7 settembre.

 

 

Chi con la mente fa un passo indietro e ritorna ai tempi del liceo, può ricordare il senso di smarrimento e frustrazione con il quale ci si avvicinava all’analisi del mito di Medea. Nonostante variassero le versioni e la psicologia del personaggio, c’era un elemento che rimaneva costante: l’uccisione dei due figli, Mermo e Fere. Che fosse per vendetta nei confronti di Giasone o per sacrificio nei confronti della dea Diana, le domande che tutti ci ponevamo erano essenzialmente due: come può una madre infierire sul frutto delle proprie viscere e, soprattutto, come riesce a superare il dolore che tale gesto comporta. Dubbi, spiegazioni arzigogolate, teorie freudiane o scritti che tirano il ballo la psicologia emotocognitiva hanno provato nel corso dei decenni a dare risposte su Medea o su tutte quelle donne che, come lei, hanno varcato una soglia di non ritorno, colpendo a morte tutto ciò per cui sono state predisposte biologicamente: la maternità, la possibilità di generare vita… un dono quasi religioso che, visto in un’ottica cristiana, racchiude in sé una miriade di significati e implicazioni. C’era qualcosa però che continuava a mancare: se la scienza indagava l’oscuro della mente, la lucidità del gesto rimaneva ancora senza voce, come se le protagoniste di tali atti non avessero capacità di intendere e volere.

 

Qualche anno fa, invece, la scrittrice Grazia Verasani ha portato in scena un testo che ha fatto il grande salto e suscitato scalpore, From Medea. Le protagoniste erano quattro donne (interpretate da Antonella Elia, Vera Gemma, Barbara Begala e Marina Pennafina) che, ritrovatesi a convivere forzatamente all’interno di un ospedale psichiatrico (o centro di accoglienza, comunità di recupero, … dategli il nome che volete ma poco cambia nella sostanza), provavano a descrivere il percorso che ognuna di loro affrontava quotidianamente contro i sensi di colpa e il ritorno, qualora possibile, alla vita di tutti i giorni. Un testo crudo, se vogliamo, ma mai torbido o accusatorio. Nessuno condanna le protagoniste in scena, la condanna è insita nelle loro fragili psicologie, nelle loro paure e nella consapevolezza di sapere che non esisterà alcun futuro “normale”, come se la loro vita fosse stata segnata da un nuovo anno zero dal quale ripartire.

 

Oggi quel testo, per ferma volontà del regista Fabrizio Cattani e di tutti coloro che hanno creduto sin dall’inizio nelle potenzialità di una storia particolare ma al contempo universale, è diventato un film che, dopo aver sfiorato il Festival di Cannes, sarà presentato al prossimo Festival di Venezia, nella sezione Controcampo. Il titolo scelto per l’opera, Maternity Blues, ha un suono quasi melodioso, ironico se vogliamo. Si tratta dell’espressione che in tutto il mondo serve a indicare la depressione post partum, quel tunnel in cui incappa la psiche di una madre, incapace di adattarsi a una nuova normalità, fatta di routine o stress, di nuove responsabilità che la portano a farsi carico della propria vita e di quella del neonato. I soliti manuali parlano di una situazione quasi contingente che, dettata dai cambiamenti ormonali, determina uno stato di alienazione che, nella maggior parte dei casi, si risolve nell’arco di un paio di settimane. Esiste però una percentuale, sempre più in crescita, di casi in cui la depressione si protrae per anni e anni, covando nell’anima senza che il mondo circostante si renda conto dei piccoli segnali che arrivano.

 

Come nella pièce teatrale, le protagoniste sono rimaste quattro donne: Clara, Eloisa, Rina e Vincenza. Ognuna con una sua storia alle spalle, ognuna con un presente certo dentro al centro di recupero, ognuna con un futuro incerto in cui la convivenza con il dolore custodito e il reintegro nella vita di tutti i giorni rappresentano un’incognita. Partendo dalle suggestioni dettate dalla visione di una scena da poco più di un minuto, ho voluto approfondire l’argomento del film stesso, la genesi e le difficoltà derivanti parlandone direttamente con il regista Fabrizio Cattani e con una delle attrici protagoniste, Marina Pennafina, colei che fa da punto di contatto tra la rappresentazione teatrale dell’opera e la sua versione cinematografica. Li ho raggiunti telefonicamente e quello che segue è il resoconto di una conversazione informale, sviluppatasi in maniera anomala e proseguita in maniera ancora più anomala, grazie alla loro disponibilità.

 

 

 

Fabrizio, come prima domanda mi viene lecito chiederti chi te l’ha fatto fare. In un Paese che permette di scherzare su tutto e tutti tranne che sulle mamme e sui santi, tu vai a toccare uno dei punti saldi dell’immaginario collettivo, la figura centrale del focolare domestico, capovolgendone ideali e valori. Hai incontrato difficoltà nel momento in cui hai proposto la sceneggiatura ai produttori?

Mi sono imbattuto nel soggetto di Maternity Blues quattro anni fa. Avevo appena finito di girare il mio primo film, Il rabdomante, e carico di adrenalina mi sono rimesso subito al lavoro. Contattati i soliti grandi nomi, mi sono accorto però che qualcosa non quadrava: la tematica veniva ritenuta scabrosa e poco adatta a un pubblico di massa. Io, però, credevo in quella storia fatta fondamentalmente di amicizia, inimicizia se vogliamo, incomprensione e rispetto. Temi universali che venivano visti attraverso una nuova ottica, una nuova ambientazione che non avrebbe espresso né giudizi di plauso né di condanna. Non ricercavo l’effetto sorpresa né tantomeno l’ondata di polemiche che avrebbe potuto scatenare e così ho perseverato con il mio progetto, fino a quando non ho incrociato l’interesse di Fulvia Manzotti e della Faso Film, che hanno dato l’avvio alla realizzazione. A loro si è aggiunto l’ulteriore apporto economico della IpotesICinema e di una fantomatica società che abbiamo chiamato The Coproducers. Sai chi sono questi coproduttori? Nessuna nuova società all’orizzonte: si tratta di tutti coloro che hanno partecipato alla lavorazione del film, dai tecnici agli attori, dai microfonisti ai tecnici delle luci. Tassandoci, abbiamo lavorato e i primi guadagni verranno dai diritti che il film produrrà, una piccola percentuale per ognuno… e i nostri sforzi proprio questa mattina hanno dato i loro primi risultati. Il film uscirà nelle sale in primavera, la Fandango di Domenico Procacci si occuperà della distribuzione e questo è un segnale importante non solo per noi ma per tutti i giovani cineasti che credono in ciò che stanno realizzando: avremmo potuto arrenderci alla prima difficoltà o di fronte alla negazione del contributo da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Pensa, non abbiamo neanche la famosa dicitura di “film d’interesse culturale” [questo la dice lunga su come venga affidato tale “onore”: mi viene da sorridere quasi… forse è un bene che non vi abbiano preso sotto la loro ala, meglio affidare contributi e aiuti ai cinepanettoni… NdS]…

 

 

Immagino che il passo successivo sia stato quello di reclutare il cast e convincere le protagoniste a recitare un ruolo che avrebbe scalfito anche le loro esistenze…

Questa invece è stata la cosa più facile da fare. Come ti ho detto prima, avevo appena finito di girare il mio primo film e la protagonista era Andrea Osvart. Su quel set tra noi è nato un bel rapporto di amicizia, stima e fiducia reciproca che si è espanso con il passare del tempo. Non ho faticato molto per farle dire si, con entusiasmo ha accettato un ruolo difficile, complesso: su di lei ruota tutta la storia del film. Clara, il personaggio che interpreta, è colei che fa da novizia, è stata appena mandata all’ospedale psichiatrico, non ha ancora fatto i conti con la colpa di cui si è macchiata mentre, nel bene o nel male, le altre tre protagoniste hanno avviato la loro analisi di ciò che è avvenuto e si apprestano al reintegro nella società, come nel caso di Vincenza, interpretata da Marina Pennafina (qui intervistata), di solito avvezza a ruoli più leggeri, da caratterista, e qui alle prese con una drammaticità assoluta. Marina è il punto di contatto tra l’opera teatrale e il film ed è quella che indossa i panni del personaggio più maturo, colei che è arrivata a processarsi anche grazie all’aiuto di una profonda religiosità. Farà una scelta sofferta alla fine del film, è l’unica che ne esce veramente con le ossa rotte, di fronte a lei non avrà speranza o forse si, dipende da quale ottica si guarda l’epilogo. Chiara Martegiani, invece, interpreta il personaggio più fragile, colei che anche per via dell’età è più debole, succube di una madre e di una famiglia che avrebbe voluto per lei altra sorte, tanto che considera l’infanticidio come una morte dolce, una possibilità di fuga per la figlia a una vita già segnata e decisa, fatta di regole e imposizioni socioculturali. Diverso, ancora, il personaggio di Monica Birladeanu [attualmente sul set di Diaz di Daniele Vicari, ndS], attrice molto famosa nella sua patria e che da noi qualcuno ricorderà per essere la protagonista di Francesca, un film che suscitò qualche polemica per via di una battuta sulla Mussolini [che ai tempi chiese addirittura il blocco della pellicola, ndS]. Lei interpreta Eloisa, un personaggio ribelle, forte. Si direbbe una leader, che con lucidità tiene le redini di tutto ciò che accade intorno a lei. Poi, mi piace sottolineare anche l’apporto di Elodie Treccani, una piacevole sorpresa sul set, di Daniele Pecci, che non ha esitato a farsi trasformare fisicamente indossando anche un’imbottitura che lo rendesse “grasso” pur di non incappare nell’effetto fiction televisiva, di Lia Tanzi nel ruolo della parrucchiera che gestisce un negozio in cui Vincenza è mandata per iniziare il suo reintegro sociale o di Pascal Zullino, il direttore del centro in cui le “mie” donne sono ospiti e sospese in un limbo dal quale provano a riemergere.

 

 

Ecco, mi sovviene un dato curioso. Hai girato il tuo film a Massa Carrara e lì ha sede un ospedale psichiatrico per donne che si sono macchiate di delitti connessi alla depressione post partum. C’è qualche nesso?

In realtà nessuno. Potevo girare il mio film a Roma ma sono originario di Massa Carrara e mi piaceva rendere omaggio in qualche modo la mia terra, capace di restituirmi luoghi che offrono una straordinaria fotografia, come nel caso della Torre Fiat. E, poi, per riallacciarmi al discorso di prima, abbiamo avuto grande sostegno da parte sia del Comune di Massa sia dalla Provincia di Massa Carrara.

 

 

Vedendo qualche scena e qualche scatto della pellicola, mi è sorta una preoccupazione, se così possiamo definirla. In un frammento si intravede Andrea Osvart mentre con il figlio in braccio si addentra in un lago. Mi pare scontato che quella sia la scena del momento in cui uccide il figlio. Non hai paura di suscitare sentimenti anche di odio nello spettatore, mostrando anche gli “atti incriminati”?

No. E ti spiego subito il perché della mia risposta diretta: il film in realtà è un lungo flashback. Inizia praticamente dalla fine, con Clara, la Osvart appunto, appoggiata al finestrino di un treno. Sta andando incontro al suo futuro, in un finale lasciato appositamente aperto, e comincia a ricordare come è iniziata la sua storia e come è arrivata fin lì, dopo gli anni trascorsi all’ospedale giudiziario. Era inevitabile che le scene venissero girate ma non saranno mai morbose, non vedrete primi piani di cadaveri o bambini che soffocano, lascerò tutto all’immaginazione di chi guarda. Così come era inevitabile tratteggiare quello che sta accadendo in casa di Vincenza nel momento in cui decide di liberarsi dallo stress e dalla pressione psicologica che ha intorno: gli altri due figli che piangono, urlano e sbraitano per casa, il pentolino con il latte sui fornelli, una telefonata dai toni accesi con il marito fedifrago per l’ennesima volta… mi interessava mettere in scena il blackout che si scatena nella sua mente e non il torbido. Proprio perché l’unico sentimento che si vuole trasmettere è la pietas, vogliamo capire e andare oltre il giudizio morale. Sarebbe stato semplice scegliere la via della commiserazione ma a quel punto avremmo espresso una condanna che non ci spetta. E, in questo, grande aiuto ci è stato dato dai medici dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere.

 

Mi accenni a un marito fedifrago e mi porti a chiederti che ruolo hanno gli uomini vicini alle protagoniste. Secondo il rapporto Eurispes, grande ruolo gioca la vicinanza o la lontananza dalla figura maschile.

Beh, in Maternity Blues i padri sono quasi assenti o non si vedono. Luigi (Daniele Pecci), il marito di Clara, è quasi sempre lontano da casa, è un rappresentante e di conseguenza non riesce a stare accanto alla moglie come vorrebbe. Ed è l’unico padre che in qualche modo vive sulla sua pelle le conseguenze dell’infanticidio, incapace di perdonare quello che è accaduto. Sarà aiutato da Giulia (Elodie Treccani), una madre in fuga con i figli da un marito violento, che grazie a un rapporto di amicizia puro gli apre diversi cassetti dell’anima, mostrandogli come in realtà sia diversa l’ottica con la quale deve approcciarsi alla moglie. Il marito di Vincenza, invece, è un fedifrago recidivo, nessuna traccia del giovane che ha messo incinta la giovane Rina, che potremmo definire come l’ingenuità fatta persona, mentre il musicista ex partner di Eloisa è la causa scatenante dell’omicidio della loro creatura. Ecco, Eloisa è l’unica che in qualche modo si avvicina alla sindrome di Medea, come se attraverso l’omicidio avesse voluto fare un torto o uno sgarbo al musicista.

 

 

E sempre secondo lo stesso rapporto elemento fondamentale potrebbe essere anche il contesto socioculturale in cui le madri vivono.

Io ho evitato di fornire spiegazioni sociologiche, non do elementi che facciano capire a quella classe sociale appartengano le mie protagoniste. Solo nel caso di Rina, la più giovane, si accenna a un contesto borghese in cui un figlio al di fuori del matrimonio è considerato un’onta, una macchia da lavare, tanto che la madre le aveva prospettato l’ipotesi dell’aborto. Il carattere della storia doveva essere universale, in modo da far capire che può accadere a chiunque, senza limitazioni di alcuna sorta. Altrimenti si ricadrebbe nei classici cliché per cui tutto si ricollega a condizionamenti esterni mentre noi vogliamo porre l’accento sull’aspetto interiore, sul travaglio psicologico che ne consegue. È un film che porterà sicuramente a una reazione nello spettatore, l’ho visto anche lavorandoci: le attrici hanno dovuto prepararsi bene per la parte, hanno avuto bisogno di supporti perché hanno dovuto anche loro scavare nel loro profondo, facendo i conti anche con vecchie esperienze personali e dolori mai superati. Non so se potranno mai liberarsi dei loro personaggi ma in questo può essere più esplicita e dettagliata Marina.

 

 

Infine, nel salutarti e augurarti il meglio per Venezia, ci confessi i tuoi maestri di riferimento?

Non ho dubbi e subito ti dico: Olmi, Fellini, Leone e Kieslowski. E ancora meno dubbi ho per le motivazioni: Ermanno Olmi per la poesia che riesce a riportare in scena, Federico Fellini per la sua dimensione onirica, Sergio Leone per l’attenzione ai dettagli e Krzysztof  Kieslowski per il simbolismo adottato. 

 

 

 

BACKSTAGE E INTERVISTE

 

 

 

 

©® Pi. Ce.

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