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Gli autori raccontano le proprie opere: Alain Resnais su “Stavisky”
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Stavisky” rappresenta senza dubbio una svolta nell’opera di Resnais: come ha scritto Paolo Bertetto, al contrario delle due opere che immediatamente lo procedono, è infatti “un film che  rifiuta la definizione di genere, la collocazione in uno spazio strutturalmente predeterminato. Non è quindi un film di ricostruzione storica, né un dossier documentario su una vicenda clamorosa, né la denuncia politica di un meccanismo sociale ed economico. Tutte queste prospettive, che avrebbero potuto ricondurre il film in dimensioni precise, in quadri di riferimento e di lettura già codificati, vengono rigorosamente scartate. Resnais, con un medesimo movimento formativo, rifiuta di praticare un’ipotesi filmica immediatamente riconducibile a schemi già sperimentati e rifiuta anche di ripetere tematiche e modalità di scrittura che avevano caratterizzato i suoi film precedenti. Non che la dimensione del tempo o il problema della costruzione del senso esistenziale o l’analisi delle articolazioni conflittuali della soggettività siano estranee al film; ma il trattamento che vi trovano è radicalmente diverso dalle esperienze precedenti e tende alla produzione di un significato nuovo. Quello che resta, di certo, è il carattere assolutamente problematico della scrittura, la struttura aperta dell’opera che richiede costantemente l’intervento integrativo dello spettatore e nega e ritrae ogni possibilità di interpretazione semplificativa. (Il Castoro Cinema n° 29 – La Nuova Italia edizioni pp. 122-123)

 

Ma è importante conoscere anche il pensiero dell’autore. Ecco dunque cosa  ha scritto lo stesso Alain Resnais a proposito di quest’opera: “Ho sentito il film in maniera strettamente musicale. Come in una sonata, dove si ha il tema A, poi il tema B, lo sviluppo, la riesposizione, ecc. Io non sono un esperto di musica. L’importante è però che il tema A sia molto differente dal tema B e che ciascuno sia messo in rilievo dall’altro. È un gioco di contrasti che mi eccita. (…)

Questa volta si parla di un personaggio veramente esistito, ma io ho trattato la leggenda, non l’avventura reale di Stavisky, e c’è una bella differenza strutturale. Certo, ci ancoriamo ad avvenimenti precisi ed alla stessa cronologia, e sono stato obbligato ad attenermi ad una forma di cinema un po’ più tradizionale. Ma per me, all’occorrenza, l’essenziale risiede nel fatto che l’azione si situa negli anni trenta. Ed è l’atmosfera di quest’epoca che tento di restituire. Come? Prendendo a modello le tecniche cinematografiche proprio di quell’epoca. Ritmo, colori, montaggio. Tutto un arcaismo il cui aspetto formale ci è stato suggerito dai film del tempo, e più ancora da un clima che siamo andati a fiutare negli archivi dell’“affaire”. Quaranta chili di documenti ci hanno rivelato l’ambiente che cercavamo. Si tratta, in breve, di un film sulla felicità. Più esattamente sulla sua perdita, e questo forse aiuta a comprendere meglio la cosa. (…) Giraudoux, è la felicità. Ci dà la nostalgia di un paradiso che non si trova più, forse, sulla terra, ma che è riuscito a descrivere mirabilmente. Inoltre faceva perfettamente epoca e ne ho tenuto conto. Avrei potuto prendere Chevalier o Mistenguett, ho scelto invece gente come Giraudoux e Trockji. C’è anche un piccola accenno ai film di Lubitsch e di Jean Epstein. (…) E poi il problema centrale della truffa che si esprime non tanto nel fatto in se stesso, quanto negli slanci che la suscitano, in ciò che ci sta dietro., Complessità di intrighi, certo. Ma soprattutto matassa imbrogliata di motivazioni che hanno generato e poi distrutto l’impero di Alexandre. (…)

È fuori dubbio che ciò che mi ha sedotto del personaggio di Alexandre, è la relazione con il teatro e lo spettacolo, in generale. Il ricordo che io conservo di quest’epoca è del resto fortemente impregnato di teatralità. Stavisky mi appariva come un attore fantastico del feuilleton.

Aveva quel dono che consente di concretizzare i propri fantasmi con gesti superbi. Bisognava che recitasse ogni giorno una specie di commedia. Era lontanissimo dal finanziere seduto nel proprio ufficio che accumula soldi; l’importante per lui era spenderli. Era un essere che viveva continuamente in rappresentazione. Aveva il desiderio di darsi in spettacolo non soltanto su una scena (non a caso acquistò l’Empire e si occupò anche  di produzione cinematografica, verso il 1927/28), ma nella stessa vita. E questa è sicuramente una delle attività più enigmatiche dell’uomo. Non c’è altro che mi interessi. E questo interesse è presente anche in Jacques Rivette. Ci deve essere qualcosa che ci attira come le mosche. Non ne trovo una spiegazione razionale, ma è così. (…)

E poi ci sono i fatti della storia che non si possono variare. Tragedia allora? La parola è forse un po’ troppo forte. Diciamo che è la storia di un condannato a morte. Noi sappiamo fin dall’inizio che tutta la storia andrà a finire male, e lo spettatore lo sa anche lui, e ci abituiamo insieme a raggiungerla e ad accettarla quella fine. Nella stessa musica di Sondheim sotto un’apparenza di gaiezza, di frivolezza, si sente sempre una minaccia. La stessa volontà, presente in Stavisky, di inseguire la felicità nasconde un desiderio – molto patetico- di lottare contro la vecchiaia e la morte. (Alain Resnais – libera traduzione dal francese)

 

Stavisky. Il grande truffatore (1974)

di Alain Resnais con Jean-Paul Belmondo, Anny Duperey, Charles Boyer, Michael Lonsdale

 

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