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Io sono l'amore e la sua sorprendente colonna sonora
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Una delle pellicole italiane più interessanti (dal mio punto di vista ovviamente) della passata stagione, è stata proprio Io sono l’amore di Luca Guadagnino che è davvero importante e straordinaria non solo per la sua costruzione visiva e contenutistica, ma anche e soprattutto per quella musicale (che è poi l’argomento sul quale vorrei soffermarmi a riflettere in questa circostanza).

Il regista (con l’apporto di Tilda Swinton che non è presenza secondaria nella “realizzazione” effettiva del progetto, oltre che straordinaria interprete principale) ha avuto l’intuizione geniale di chiedere per la colonna sonora,  la collaborazione  di un compositore abbastanza inusuale e praticamente inedito per il cinema, come lo statunitense John Adams, apprezzatissimo (e celebratissimo) sperimentatore del pentagramma di fama internazionale, che ha accettato l’insolito (per lui) impegno cinematografico con dei risultati a dir poco strabilianti: le volutamente “raffreddate” immagini, prendono infatti vigore, diventano “urlate” nei momenti più tragicamente coinvolgenti, proprio grazie all’esplosione drammatica dei suoni e delle note, che rendono così esplicito ciò che è racchiuso nei pensieri e nell’anima dei personaggi e che la parte visiva costringe a una stilizzazione più trattenuta, quasi “sospesa” per accentuare con ancor maggior forza la violenza costrittiva e ipocrita del contesto, tanto da poter asserire che nel caso specifico anche la musica si fa “personaggio, che diventa a sua volta motore  primario  dell’opera stessa e interprete preponderante dell’emozione.

C’è una tale attinenza di intenti fra l’elemento sonoro a se stante e le intenzioni registiche dell’insieme, un amalgama così perfetto e complementare, da far immaginare, una elaborazione musicale fatta  all’unisono, o forse  specificatamente elaborata sulle immagini di riferimento, mentre invece sappiamo (e sono lo stesso regista e la Swinton a raccontarlo) che è accaduto esattamente l’inverso, perché la fusione perfetta è dovuta alla capacita del regista che har saputo “magicamente “ (e magnificamente) (ri)costruire e orchestrare le sequenze, i movimenti delle scene, proprio sui ritmi - compreso esplosioni e repentini illanguidimenti -“cercati” precedentemente inventati sul pentagramma, di aver lavorato insomma proprio in funzione della musica emozionale del compositore, e non viceversa.

In effetti Adams, approcciandosi al progetto, non ha dato vita a uno score autonomo appositamente composto per l’occasione, ma ha  soprattutto coordinato - e in qualche caso rielaborato -, sue precedenti composizioni, tutte già editate e quindi portatrici di una poetica e una peculiarità in teoria “estranea” all’opera stessa, il che rende ancor più sorprendete il risultato finale (dovuto anche  -immagino - a Jen Moss, supervisore musicale del progetto).

Al di là dell’importanza che la musica assume durante la visione del film, credo che proprio per questo suo valore aggiunto di “coerenza musicale”  a prescindere, che è poi strettamente legato al talento compositivo di Adams che ha saputo comunque coagulare in un senso compiuto suoi lavori di differente provenienza e origine, credo che il soundtrack del film potrebbe avere un impatto emotivamente sorprendete,  anche ascoltato a se stante, fuori dalla sala di proiezione e lontano dalle immagini  e spero vivamente che qualcuno si decida a renderlo disponibile anche in Italia il cd corrispondente, che alle mie ricerche è risultato al momento introvabile (anche se la scarsa attenzione riservata a questo titolo da una parte cospicua della nostra critica e la distribuzione come sempre difettosa che lo ha reso marginale persino per la fruizione da parte di un pubblico più vasto, decretandone l’inevitabile insuccesso commerciale, mi fanno immaginare poco probabile che qualcuno si decida a “rompere” l’indugio e ad “osare” un investimento probabilmente ritenuto temerario).

John Adams,  come  John Cage suo contemporaneo, utilizza il pentagramma per sperimentare suoni e suggestioni magari in maniera all’apparenza meno avanguardistica (e forse è proprio per questo che almeno qui in Italia non è altrettanto conosciuto e apprezzato a quanto mi risulta dalle mie modeste conoscenze): lo fa in maniera diversa non temendo nemmeno di essere tacciato di eccessiva “esuberanza sonora”.

Acclamato autore di Nixon in China che è del 1987, ha ricevuto anche l’ambito riconoscimento di un premio Pulitzer per la musica con il suo On the Trasmigration. Possiede uno stile autonomo e personalissimo che vorrei definire  “modernamente classicheggiante” di indubbia presa: la sua musica è romantica e sensitiva al tempo stesso, ha un mix di suoni spesso dirompente   che attraverso l’orecchio  penetra il cervello, per ricreare nell’ascoltatore una dimensione  “percettivamente visiva”di quelle note spesso ridondanti da sembrare persino un tantino invadenti (e forse proprio per questo qualcuno ogni tanto avvicina il suo stile a quello di un Philip Glass). Chi ha visto il film, sa di cosa parlo, e basterebbero due scene per definirne l’importanza e la grandezza: quella per le strade di Sanremo con la macchina da presa e la musica dappresso. a pedinare e seguire a distanza ravvicinata i movimenti della Swinton in una sequenza che per come è articolata, anche se non ha nulla di “misteriosamente” corrispondente a quel particolare tipo di cinema,  potrebbe benissimo essere definita di impianto “hitchcockiano”, e quella nella cappella del “confronto” con il marito dopo il funerale, con il volo delle colombe e l’esplosione di quei suoni “pompati” che diventano, dopo quel “Tu non esisti più”, il grido inespresso di una scelta coraggiosa, oltre che quello di  una sofferta ribellione, pur nel dolore straziato di una perdita irreparabile.

Per chi non ha visto il film (ma certamente – immagino –conoscerà il compositore in quanto tale) ricordo che anche in Shutter Island di Scorsese, c’è un brevissimo inserto della sua musica, “dentro” la colonna sonora.

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