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A nudo: Spopola – Il tempo e la memoria (Era mio padre)
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Ecco: questa volta tocca a me a “raccontarmi”, a mettermi a nudo, e l’emozione è forte (e c’è anche un po’ di timore, non lo nego). La partenza la scorsa settimana è stata folgorante: Stefano ha tracciato il percorso con appassionato vigore, e io farò del mio meglio per stare al passo…

Mi lancio allora… senza pudore e soprattutto “senza rete”

 

Penso spesso a mio padre. Il suo non esserci stato, ha segnato profondamente la mia vita…

Che la sua assenza abbia costituito gravi scompensi non tutti risanati, lo dimostra il fatto che ancora adesso che mi avvicino ai settanta, sono sempre qui a girarci intorno…

Era mio padre” io lo posso dire infatti solo alle immagini sbiadite di vecchie istantanee ingiallite che mi rimandano però solo giovanili tratti somatici di  un volto “sconosciuto”, la sua figura snella, non l’anima, né il cuore. E anche le testimonianze e le memorie, sono sempre più labili e sfumate, comunque insufficienti a farmi avvertire la consistenza non tanto di una presenza “fisica”, ma di una conoscenza reale che non ho mai avuto e che forse per non stare troppo male, non ho nemmeno tentato di recuperare o di approfondire: so che di mestiere faceva l’imbianchino, che era un bravissimo giocatore di biliardo, allegro, cordiale,  giocherellone… Generoso e altruista, tutto qui. So soprattutto che la mia nascita  (e il fatto che ero “un maschio”) lo aveva profondamente emozionato e riempito di orgoglio… Trovo traccia  di tutto questo nei racconti (i ricordi verso chi è “mancato”, sono sempre e solo al positivo), e qualcosa di più “personale e certo”, nella corrispondenza che mia madre aveva gelosamente conservato come una reliquia, ma che io solo due anni fa sono riuscito a trovare la forza ed il coraggio per “affrontare” e leggerle davvero, e così scoprire - ed “accettare” come un fatto naturale e positivo - “la passione” e “l’amore” che aveva generato il mio concepimento (questo la dice lunga sul mio stato anche mentale riguardo al sesso e alla sua figura).

Mi chiedo spesso adesso anche quali sviluppi avrebbe potuto avere la mia vita se lui ci fosse stato (ma ancora oggi l’ipotesi di una sua presenza attiva mi genera più imbarazzo che timore,  forse perché mi rimane in fondo un tarlo difficile da zittire, quello di una possibile “non accettazione” che mi fa sempre stare male perché non ha risposta, e il dubbio resta…: nemmeno lui ha potuto conoscermi davvero, e il cruccio allora è ancora quello che, considerando le chiusure mentali della sua generazione, probabilmente non avrei mai potuto avere né la sua approvazione né il suo appoggio, per il mio essere uomo, ma non “maschio”, per lo meno non nella maniera in cui lo avrebbe inteso lui).

Certo che “senza”, è stato tutto molto più complicato, a partire dal morboso legame che posso definire quasi di odio/amore verso mia madre che ho idolatrato a lungo come una “immacolata concezione”. La sua monolitica rigidità corrosa da un integralismo cattolico venato un po’ di assolutismo, ha poi seminato in me percezioni di colpa molto accentuate e difficili da estinguere, un “senso” del peccato così cementato, da costringermi spesso a infliggermi punizioni esemplari per le mie “omissioni” (o ciò che io consideravo tali). E’ stata però a lungo tutta la mia vita, l’unico riferimento certo e il solo appoggio, tanto che anche una momentanea mancanza della sua presenza (magari soltanto per andare a far la spesa) mi gettava nello sconfortante “vuoto” dell’abbandono che era solo immaginario, ma non per questo meno terrorizzante... un legame  un po’ esclusivo e castrante, che ho dovuto per forza (e con dolore) “tranciare” di netto a un certo punto per “salvarmi” l’esistenza e sperare in un futuro. Con lei non era poi possibile nemmeno accennare certe cose, parlare dei  turbamenti e dei miei dubbi: il sesso, il mio sentirmi “strano”… visto che il “pudore” e la decenza andavano sempre rispettati… e allora meglio rinchiudersi e negare, anche se questo significava essere poi da solo ad affrontare le cose, a fare le esperienze, a “rischiare” in proprio senza alcuna copertura.

Mi è mancata una “protezione” importante, un indirizzo e un esempio, e quell’assenza ha spesso  generato la paura che mia madre con le sue “certezze radicate” non poteva certo dissipare… (paura dell’abbandono, come ho già detto, della dannazione, dell’inferno, di non essere all’altezza… dovuta soprattutto – almeno credo adesso - a  quelle sconcertanti pulsioni sessuali già così avvertite, e così distanti dai pochi insegnamenti ed indirizzi che avevo ricevuto e dentro ai quali non riuscivo proprio ad identificarmi).

 

Il ricacciarmi così - ripensando a mio padre - dentro al crepuscolo minaccioso di quell’infanzia lontana (mi capita spesso di ritrovarmici impaniato, portato da un pensiero o da una sensazione), mi fa allora immergere nuovamente nell’orribile, avvolgente oscurità (così la rivivo nel ricordo) dell’immensa cucina insufficientemente illuminata dalla piccola lampada a 25 watt calata al centro della tavola, che lasciava sterminati spazi d’ombra alle pareti e dietro i mobili da cui  tornano ancora adesso ad affacciarsi prepotenti i fantasmi atterrenti del mio immaginario perduto ma non dimenticato:  nascosto in quel buio lattiginoso privo di rassicuranti barriere “difensive”, c’è ancora oggi qualcosa che mi è difficile afferrare ed affrontare, qualcosa di così terribile ed oscuro, che mi sgomenta e disorienta.

Non prendetemi per pazzo o peggio per un visionario, visto che sono ormai un attempato uomo forgiato dalla vita che dovrebbe da tempo aver imparato a fronteggiare ben altro rispetto a questi atavici timori che sono poi ancora  le paure e le incertezze del sentirsi “rifiutato” e solo, quel temere nascosti nella penombra avvolgente della stanza, gli orchi e i draghi delle favole, pronti a ghermirmi e sbranarmi per le mie pulsioni che vivevo già come una minacciosa condanna, così presenti e attive come le avvertivo dentro ai miei pensieri, che  facevano slittare verso un immaginario sempre e solo al maschile ogni mio nascente fermento sessuale!

Quelle presenze diaboliche e castiganti, erano molteplici, costanti e sempre in movimento: le anime dei dannati vaganti e senza sepoltura degli affascinanti, ma al tempo stesso spaventosi e inebrianti racconti delle veglie notturne intorno al fuoco, o nella fresca penombra rischiarata dal fioco chiarore dei lampioni delle interminabili serate estive… Il fabbro ferraio trovato impiccato nella cantina della casa dove abitavo così piena di suggestioni inquietanti che spesso tormentano ancora i miei sogni…. Le ostie consacrate e profanate che si gonfiano in gola fino a soffocare, uccidendo così chi ha compiuto il misfatto, non ha rispettato il digiuno e ha reso confessioni incomplete al sacerdote diventando sacrilego, o peggio ancora, quei demoni perversi e implacabili che sai occultati in agguato, pronti a punire, infilzandoli con i loro forconi infuocati per trascinarli giù nell’abisso e privarli della vita e della speranza, resi “dannati” per l’eternità dalle loro azioni, quei bambini cattivi che non sono stati ubbidienti, hanno infranto le regole facendo piangere i genitori e si nutrono di troppi “innominabili pensieri” (mi sembra quasi di udirle ancora adesso le loro urla disperate, anche se forse erano soltanto gli stridii inarticolati e le rumorose rincorse dei topi tettaioli affamati e furenti, che si inseguivano incessanti lassù, fra le tegole sconnesse e i travicelli contorti e intarlati del soffitto che la mia colpevole immaginazione trasformava in orride visioni infernali)…

Tutte immagini di inaudita sofferenza, evocate con subdola cattiveria e sottinteso sadismo dalla signorina Corinna, la sorella ziba e frustrata del priore, nelle storie persecutorie, bigotte e oscurantiste che affiancavano spesso la dottrina ufficiale delle lezioni di catechismo preparatorie ai sacramenti della Cresima e della Comunione, sciorinate con perverso realismo e dovizia di particolari inquietanti, a spauriti fanciulli di nemmeno dieci anni o poco più come avevo io a quei tempi… Quando tornavo a casa dopo la lezione, ero sconvolto, angosciato e sgomento. Solo mio padre avrebbe potuto “rassicurarmi” o rendermi più forte, convincendomi magari che erano tutte stronzate da non considerare, ma lui non c’era, e mi sentivo talmente distrutto e disperato, che i singhiozzi mi schiantavano la schiena, mi facevano sussultare così convulsamente, che nessuno era capace di contenerli o di farli cessare, o peggio ancora di comprendere la natura reale di tanta disperazione. Per questo, alla ricerca di un inutile conforto (o più semplicemente di un  nascondiglio, mai sufficientemente profondo e ampio da contenermi interamente) saltavo allora sulle ginocchia di mia madre,  comunque incapace con la sua sola presenza di darmi le risposte, le certezze e le garanzie di cui avevo bisogno, dove potevo trovare almeno una piccola tregua all’angoscia nel calore delle sue braccia accoglienti. Ero un ragazzo… un “maschio” non “dovevo” né potevo fare la femminuccia, né confessare le ragioni profonde del mio star male.. non era consentito dal ruolo che l’assenza di mio padre mi costringeva a interpretare già in così tenera età… E allora finivo per odiarlo per non essere lì ad esonerarmi con la sua presenza, e cresceva una rabbia furente, incontenibile, che esprimevo esplodendo in un grido cupo, profondo, ma comunque insufficiente a rasserenarmi: “ho paura…paura… PAURA… PAURA !!!”  senza mai spiegare però di cosa, e soprattutto il perché di tale sofferenza.

Ma se qualche volta mia madre non c’era o era “assente” (o anche momentaneamente incapace di ascoltarmi), era allora che la mia disperazione diventava davvero smisurata. E così mi rinchiudevo in silenzio, rifiutandomi persino di pensare, e mi sembrava davvero che il mondo intero mi fosse già crollato addosso: erano soprattutto delle frequenti crisi  alle quali ancora non sapevo dare un nome che per alcuni giorni (praticamente con ciclicità mensile) mi facevano perdere il contatto con lei e determinavano così quella prostrazione indescrivibile. La vedevo per ore e ore riversa e dolorante, ripiegata su se stessa, quasi rintanata, sul letto della camera semibuia, scossa da spasimi così forti e lancinanti che sembravano schiantarla (o per lo meno era così che percepivo io quell’ isolamento) senza che nessuno facesse qualcosa per aiutarla ad alleviare le sue sofferenze… e non sapevo farmene una ragione, né afferrare le cause di una situazione così aberrante e ripetitiva che doveva pur avere un rimedio e una soluzione. E allora dalla cucina, allarmato e guardingo, quasi tremante, ma senza avere il coraggio di fronteggiare l’emergenza, pensando che fosse in arrivo la fine, mi interrogavo inutilmente sul  perché non veniva chiamato nemmeno il dottore per curare quel male che immaginavo immenso e irreparabile… probabilmente qualcosa di cui ci si doveva vergognare e che per questo era necessario occultare (e qui si torna ai radicati tabù legati alla sfera sessuale). Ma le mie domande non trovavano mai risposte adeguate o comprensibili che potessero davvero rassicurarmi o almeno tranquillizzarmi e ridarmi la fiducia che non si trattava di una cosa che doveva farmi temere la sua morte: era tutt’altro che sufficiente per me sentirmi rispondere “che non era niente di grave, che si trattava di un semplice mal di pancia – cose di ‘donne’, insomma - e che nel giro di poco tempo tutto sarebbe passato”, ossessionato com’ero da quel secchio sinistro celato dietro la porta della camera, che intravedevo ogni volta, sbirciando di nascosto… e non capivo che cosa contenesse davvero di così orribile, con quell’acqua leggermente arrossata che profumava di varechina nella quale galleggiavano “mostruosi” lembi di stoffa sanguinolenti che lentamente scoloravano al contatto col liquido… e per questo  per tutta la durata di quel patimento, annichilito, solitario e in attesa del peggio, perduto e solo, rimanevo in disparte rinunciando persino a giocare, chiuso nel mio silenzio, cercando così, asserragliandomi nel limbo dell’astrazione, di allentare la sensibilità e diminuire la percezione della sofferenza e della vergogna.

Ero pero già più grandicello allora… capace di intendere e di capire, se vogliamo dirla tutta., solo così stupido e cretino da non voler sapere (ed accettare) cos’erano i dolori mestruali, perché il riportare la cosa a quella dimensione, significava ammettere che anche mia madre era una donna e non una “madonna” (e questo mi avrebbe fatto ancor  più male).

Se ritorno ancora più indietro col pensiero, fino agli anni della mia primissima infanzia, comprendo però che è proprio “laggiù” che le mie paure, i miei tormenti, hanno preso forma, quando tutto era ancora più nebuloso e incerto. Adesso che sono finalmente in grado di guardare le cose nella giusta prospettiva, mi rendo perfettamente conto infatti che erano soprattutto derivazioni inconsce di quel sentirmi “anomalo” dentro (le pulsioni sessuali) e fuori (la mia costituzione mingherlina, quasi rachitica) e  persino nella composizione della mia famiglia, a motivarle, e che proprio l’assenza di mio padre, un uomo che era venuto meno ai suoi doveri (così mi sembrava che stessero le cose) e a cui attribuivo inconsciamente la responsabilità di non avermi adeguatamente “formato” dandomi il giusto “imprinting”, è stata  la più antica e sofferta ragione che mi ha fatto sentire da che ho conoscenza e ricordo delle cose,  diverso e incompleto  rispetto ai miei coetanei (una sensazione persino antecedente alla scoperta consapevole del difforme orientamento della sfera sessuale, che a quell’età non era ancora “certo” e soprattutto completamente metabolizzato).

L’unico universo con il quale mi potevo rapportare, al di la di una famiglia più o meno tutta al femminile e per questo insufficiente per i miei bisogni, era quello del piccolissimo paese alle porte di Firenze in cui sono nato e cresciuto  - poco più di 700 anime in tutto - così lontano e avulso dal resto del mondo in quegli anni carenti di trasporti e di strumenti di comunicazione, da rappresentare davvero una realtà totalmente ripiegata su sé stessa, vera e propria summa anche esemplificativa della dolente realtà di un sottoproletariato maschilista spesso violento, prevaricante  ed emarginato, poco integrato con il restante  contesto sociale, perché l’isolamento era totale, ed era soprattutto la donna a subirne le conseguenze, il mio unico specchio di riferimento, al quale non potevo che adeguarmi col pensiero, per assuefarmi a mia volta alla passività del ruolo: questo faceva la differenza anche culturale, creava un fortissimo contrasto che si rifletteva molto più profondamente di quanto si possa immaginare nel modo di vivere e di confrontarsi con le cose, e che mi faceva domandare quale avrebbe potuto essere il mio posto nella società viste le mie “difformità” che non erano solo di tendenza sessuale, perché in quel mondo miniaturizzato e un po’ ostile, io mi trovavo, solitario e disarmato, ad essere il solo della mia fascia d’età a non avere al fianco un uomo a vigilare sullo sviluppo e la formazione della mia personalità, a non poter contare su nessuno che si assumesse il compito di contenere, se necessario con durezza e determinazione, le imperfezioni e gli eccessi per  non farli debordare. 

Non avevo davvero avuto il tempo, né tantomeno la possibilità, di conoscere mio padre, disperso in Russia, sul Don, nella disastrosa ritirata di quell’inverno gelido e desolato che aveva concluso la scellerata campagna di un esercito di disperati malamente addestrati e ancor peggio equipaggiati, mandati allo sbaraglio poveri di armi, vestiti e ideali (l’ultima sua lettera pervenuta, arrivata a destinazione con un anno di ritardo quale conclusiva testimonianza della sua esistenza in vita,  portava la data del 25 di ottobre del 1942, ed io avevo soltanto tre mesi e qualche giorno quando era stata scritta e inoltrata…Dopo, solo buio e silenzio o sbiaditi ricordi e testimonianze di commilitoni superstiti, sopravvissuti in condizioni pietose, ma rientrati ancora vivi e pensanti per documentare quella tragica ecatombe umana.)

Più che l’assenza fisica (ho già detto che non avevo al riguardo tangibili elementi di raffronto), mi mancava il modello con cui rapportarmi, la figura del maschio, tipica della cultura proletaria e contadina del tempo, intesa come quella del patriarca, autoritario e condiscendente, al quale sono demandate in pratica certezze e decisioni, che  ha il compito a volte sgradevole ma necessario, di punire deficienze e inadempienze, e quello di  giudicare e stabilire cos’è bene e cos’è  male, ciò che è giusto fare e quello che invece deve essere evitato. Un piccolo Dio in pectore al quale affidarsi e credere, insomma, a cui dover rispetto e ubbidienza, ma che all’occorrenza può anche farti sentire importante ed esclusivo unicamente concedendoti la possibilità e l’orgoglioso onore, di essere portato in giro la domenica pomeriggio sulla canna della sua bicicletta, per esplorare insieme nuovi mondi e nuove emozioni.

Mia madre e tutti gli altri, hanno supplito come potevano, finendo però solo per viziarmi ed assecondarmi in tutto, pur di compensarmi dell’assenza ed io pur soffrendo, ho anche biecamente approfittato di questa condizione di ‘privilegio’, se il termine mi è consentito, perchè niente era in grado di ricoprire quel vuoto e quella posizione, visto che  non c’era nessuno, quand’ero piccolo che si assumesse l’onere del rimprovero e del castigo, così importante nello sviluppo della propria consapevolezza (e nella definizione dei  limiti che ciascuno di noi deve conoscere e accettare). Così, sotto le mentite spoglie di angioletto liliale e gentile si nascondeva un piccoso, ostinato e rancoroso ragazzo petulante ed egoista che si stava abituando a prendere e volere molto più di quanto la scarsità dei mezzi e le condizioni di vita del periodo potevano permettergli. E sapeva così bene camuffarsi che riusciva sempre a farla franca, ad uscire immacolato e innocente da qualunque situazione o problema nonostante le cattiverie e i dispetti, le piccole meschinità di ogni giorno o i pensieri malsani che gli attraversavano la mente: le responsabilità non erano mai sue (era bravissimo ad inventarsi alibi e giustificazioni per mettersi al riparo da ogni conseguenza), ma proprio per questo si sentiva indegno e malvagio di fronte alla propria coscienza, bisognoso di pagare un pegno che in qualche modo lo riabilitasse e gli restituisse quella dignità che riteneva di aver violato con i suoi comportamenti.  Solo che nessuno lo puniva mai a sufficienza… e allora se le creava lui quelle penitenze inventandosi storie nelle quali assumeva sempre il ruolo del cattivo che in qualche modo veniva prima o poi scoperto e condannato e che accettava la redenzione attraverso la sofferenza dei castighi inflittigli che realizzava praticamente (e questo era alla fine il pegno che immaginava di dover pagare per quell’essere “differente” da tutti gli atri e soprattutto più spregevole e perverso) costringendosi in ginocchio su gusci di noce  raccolti e  conservati allo scopo, che spesso si frantumavano sotto la pressione provocando piccole e dolorose abrasioni sanguinanti, o imponendosi di camminare  a piedi nudi sui sassi scoscesi ed appuntiti accatastati dai renaioli lungo gli argini dell’Ema.

 

Ma il problema più grave, la frattura più profonda che avvertivo, consisteva nel fatto che pur soffrendo come una bestia per quell’assenza, non avrei voluto per tutto l’oro del mondo che mio padre tornasse, perché tornando, mi avrebbe inevitabilmente sfrattato dal lettone che dividevo con la mamma… sarebbe riuscito ad usurpare il mio posto nel suo cuore… “contaminando” con la sua presenza,  anche il suo corpo. Avvertivo prepotente e deciso questo pensiero egoista e infame ogni volta che in qualche modo si tornava a parlare di probabili rientri dalla Russia di superstiti prigionieri e si riaffacciava la speranza: la condizione del disperso è terribile, un morto senza il riconoscimento ufficiale che ti obblighi a rinunciare a credere, che ti costringa alla rassegnazione. Così fra illusioni e frustrazioni, alimentate da quel sottobosco immorale e disonesto di fattucchiere, medium e via discorrendo, costantemente visitato dalla mamma per ‘sapere e conoscere’ e che spesso mi portava con sé in questi tragici e disperati pellegrinaggi (per non lasciarmi solo a casa a piangere), apprendevo come in una litania (e le parole erano sempre le stesse, come se si fossero tutti letti nel pensiero o passati la voce – e non poteva essere altrimenti se volevano continuare a spillare quattrini e creare attese) “che quell’uomo era vivo, impossibilitato al momento al ritorno, ma incolume, sia pure con postumi di traumi e ferite, che era stato aiutato da una donna – una russa – che lo aveva curato e salvato e con la quale al momento, per gratitudine e necessità, conviveva (e qualcuno parlava anche dell’avvenuta nascita di un altro figlio) in attesa di condizioni migliori che consentissero il suo ritorno in Italia.”

Ne ho viste e sentite di tutti i colori, origliando in silenzio o sbirciando dal buco della serratura delle anticamere nelle quali venivo spesso relegato: pendolini oscillanti; tarocchi enormi e carte di ogni tipo sparpagliate su grosse tavole in differenti forme e sequenze; fondi di caffè letti in tazze sbrecciate e maleodoranti; scritture indotte e automatiche che stampigliavano sulla carta geroglifici contorti di improbabile interpretazione; signore scarmigliate e in deliquio che camuffavano voce e lineamenti, in presunto diretto contatto con l’al di là, che si inventavano risposte dai morti che son morti ‘or è cent’anni, or è mill’anni’[1]  e che non evocavano invece nient’altro che la loro millantata malafede. Tutte situazioni così assurde e al limite che riuscivano a spaventarmi e a mettermi in uno stato di prostrazione indescrivibile, comunque inferiore e meno spaventoso dello smarrimento totale e della paura oggettiva che provavo ogni volta che varcavo la porta di quella casa di Via Borgo Allegri (una delle visite più frequenti e privilegiate che la mamma faceva) dove abitava una megera attempata di nome Benedetta, che ci scrutava con uno sguardo penetrante e sottile compiendo strani riti con crocifissi e oggetti vari, dava benedizioni o forniva, dietro congruo compenso, amuleti da appendere al collo o da appuntare alla camiciola, odoranti di canfora e incenso. Una casa ricolma di cianfrusaglie polverose con una moltitudine infinita di bambole Lenci strabiche (o così mi sembrava che fossero) scolorite e macchiate sparse su letti e  poltrone, alle quali si mischiavano schiere di gatti ronfanti e spelacchiati, acciambellati e sonnacchiosi, che sbirciavano sornioni, con occhi minacciosi e infidi simili a quelli della padrona. Mia madre riponeva una fiducia assoluta in quella donna che non mancava mai di rassicurarla su un prossimo, sia pure remoto, ritorno del marito, una volta che lui avesse saldato i debiti di riconoscenza con la nuova famiglia che lo aveva aiutato a sopravvivere laggiù, nelle sperdute lande della Russia innevata e glaciale. E anche io  finivo per credere che quelle fandonie pagate a caro prezzo fossero verità reali e inconfutabili.

Mi sentivo anche tradito e abbandonato per questo, accantonato come uno scarto mal riuscito (lo aveva fatto perché ero nato “difettato”, e così, restando laggiù, non doveva affrontare l’onta di quest’infamia?), ma nel contempo, con quel feroce egocentrismo infantile che spesso ci rende insensibili e pragmatici, facevo scongiuri per evitare che si avverassero quelle previsioni che rendevano fiduciosa la mamma: esorcizzavo il ritorno dell’estraneo indesiderato – sognato sovente come un avversario senza volto -  che, rientrando e riprendendo il suo posto in famiglia, mi avrebbe privato dei privilegi e delle priorità acquisite e giudicato forse come “uno ripugnante aborto della natura”. Ma i sensi di colpa che non potevo confidare né ammettere, erano così pesanti da ritenere di meritarmi, per questi insani pensieri, l’inferno o anche peggio (ed avevo sempre paura se rimanevo da solo, che il diavolo arrivasse per impossessarsi della mia anima).

So invece per certo – adesso più che mai - che avrei avuto un disperato bisogno di quell’uomo, della sua presenza, del suo amore, dei suoi consigli e fin’anche delle sue punizioni, di qualcuno che si affiancasse a quei personaggi, tutti femminili, che avevano segnato le tappe della mia vita, per fornirmi nuove aperture via via che, crescendo, dovevo inevitabilmente scontrarmi con una realtà composita e inaffidabile, addentrandomi in un universo più vasto e variegato, certamente meno protettivo e sicuro di quel piccolo mondo a sé stante in cui ero cresciuto

Non vorrei essere frainteso, non addebito alla sua assenza il mio essere omosessuale, che è la connaturata essenza della mia natura indipendentemente da ogni altra cosa e circostanza: parlo di “educazione” e di formazione poiché soprattutto in quei tempi, un ragazzo aveva bisogno di un uomo alle sue spalle, specialmente se aveva insicurezze così profonde come quelle che avvertivo in me, perché soltanto una figura forte come quella paterna, avrebbe potuto insegnargli ad acquisire per lo meno grinta e determinazione…

Ma dire “era mio padre” e riferirlo ad una effettiva “conoscenza” di condivisione, io non potrò mai farlo… nemmeno addentrandomi nei ricordi di un passato che è la sola certezza che mi resta, visto che il futuro ormai non mi appartiene più e il presente è un labile momento di passaggio che si sfalda nell’istante, perché la mia concezione dell’esistenza, la mia “convinzione” di ciò che siamo e che diventeremo, è tutta e solo terrena, priva di un al di là che non sia un sonno eterno, senza risveglio, silenzioso, impenetrabile ed “infinito”. Questo mi rende allora consapevole che ciò che non si è fatto o non si è riusciti a fare da “questa parte” non potrà mai  definirsi in un altro spazio o in una differente dimensione che il mio pensiero non riesce proprio a concepire. E mio padre resterà allora per sempre più che una percezione, solo un’idea astratta, un qualcosa che non potrò mai avere né  comprendere davvero.

 

E così il mio excursus  è terminato…. Consapevole che le reminiscenze di questo piccolo viaggio nella memoria partite dalla pellicola di Mendes, sono transitate poi attraverso  molti altri “percorsi” cinematografici… Italiani, brava gente di De Santis (1964), I girasoli di  Vittorio De Sica, Il ritorno di Andrei Zvyagintsev (2003), Hereafter  di Clint Eastwood (2010), per approdare addirittura a The Tree of Life, l’amata e al tempo stesso “detestata” pellicola di Terence Malick (e magari leggendo questa mia confessione a cuore aperto, si potrà comprendere meglio ciò che, al di là della splendida sostanza della forma, ha suscitato in me la visione di quel film, la rabbiosa ribellione sofferente che mi ha costretto a rintanarmi “nell’angolo” in attesa di aver completamente assimilato il disagio e ritrovato una serenità oggettiva di giudizio che oggi non riesco ad avere,  perchè io al contrario di Penn come ho già detto,  quantunque mi sforzi, non posso immaginare nessuna possibilità anche remota non solo di ricongiunzione, ma anche di “riconciliazione” con quella  presenza, con quella figura, con il suo essermi stato comunque genitore che adesso mi è più “cara” che in passato, ma che non potrò mai davvero farla diventare parte pulsante della mia esistenza).

 

Valerio Vannini

 

“Si è detto e scritto molte volte che la vera patria di ogni essere umano è la sua infanzia. L’infanzia è il luogo dell’origine, l’età in cui le cose accadono per la prima volta e si accende una forma speciale di conoscenza, di comunicazione con la vita che, dopo, diventati persone adulte, perdiamo” (Victor Erice)

 

CARTA D’IDENTITÁ

Nickname: Spopola

Nome: Valerio Vannini

Data di nascita: 22 Luglio 1942

Luogo di nascita e di residenza: Firenze

Professione: ormai pensionato alla deriva

Segni particolari: una nevrosi crescente che spesso dissocia i miei pensieri

INTERVISTA (a cura di Pietro Cerniglia)

 

D. Caro Valerio, nel leggere il tuo intimo ricordo, mi sono ritrovato di fronte a un grosso dilemma: pubblicarlo o meno. In un primo momento, ho pensato che fosse più corretto rispedire al mittente lo scritto e non accettarlo ma non perché non rispondesse ai requisiti richiesti, anzi… semmai mi sembrava una violazione di una ferita ancora aperta e darla in pasto a chiunque poteva essere deleterio. Poi, ho riflettuto e mi sono reso conto che, invece, l’esternazione di un mondo così dolorosamente celato per anni potesse essere catartico, fosse solo per la vicinanza che ognuno di noi può farti avvertire. Spogliarsi e denudarsi implica ampia fiducia in chi hai davanti, in chi ti circonda. Partendo da questa spicciola osservazione, vorrei sapere perché regalare a FilmTv questo frammento di storia, anche universale?

 

R. Come ho scritto in chiusura del post, forse ormai non è più qualcosa paragonabile a una ferita vera e propria, ma il dolore comunque  resta elevato e con esso anche il dispiacere di aver opposto troppe “resistenze”. Parlarne apertamente, farlo uscire dai nascosti recessi della mente è stato per me un utile percorso terapeutico, la conclusione di un accurato lavoro di “analisi” e ricostruzione che è cominciato più o meno nel 2002, quando ho dovuto affrontare una grave malattia che mi ha portato a un passo dalla morte e mi ha fatto comprendere che dovevo fare presto a far chiarezza dentro me, se volevo in qualche modo tentare di riconciliarmi con il mio passato prima che fosse davvero troppo tardi: credimi, sono solo frammenti di ricordi personali, e per questo hanno un valore relativo, ma rappresentano una “testimonianza” diretta, meditata  e sincera, finalizzata all’individuazione delle radici profonde di un malessere per cercare così  in qualche modo di “esorcizzarlo” un poco. Ho trovato già allora nella forma della scrittura, la maniera migliore  per farlo questo lavoro introspettivo, ed è stata davvero una fondamentale esperienza  di “condivisione” prima che con gli altri, proprio con me stesso quella di “denudarmi” senza pudore utilizzando  la “narrazione”, perchè  mi ha messo nella condizione di riconsiderarmi e di riesaminarti in maniera molto più oggettiva. Raccontare le esperienze di un vissuto un po’ devastato come il mio, credo però fermamente anch’io  che possa  essere di aiuto per chi non ha avuto invece altrettanta forza non solo di “scrutarsi” dentro, ma anche per “difendersi” e reagire e ricostruirsi così almeno un briciolo di autostima. Io sono convinto poi che sia necessario parlarne il più possibile di certe problematiche, esponendosi in prima persona se si vuole davvero che le cose cambino e che la società diventi più civile e moderna e soprattutto meno pregiudizievole: è deleterio e riprovevole infatti che ancora oggi vengano espresse posizioni così nette di condanna verso una naturale inclinazione sessuale -  che poi alla fine è solo una connotazione marginale e privata della vita di ognuno - come fa  per esempio la chiesa  qui in Italia ed anche la politica purtroppo, che dovrebbe essere invece molto più neutrale e “aperta”, per lo meno consapevole dei danni irreversibili che determinano simili affermazioni soprattutto nelle fragilità delle persone per i sensi di colpa che instilla, senza considerare i comportamenti “ritorsivi” che genera come conseguenza diretta in una società gia per principio repressiva e omofoba.  Sono tantissimi quelli che non ce l’hanno fatta a superare il trauma e a resistere alle pressioni e alla discriminazione (lo sappiamo bene questo) e ancora oggi che siamo già nel terzo millennio, non è che le cose vadano molto meglio, purtroppo. Consiglio a tutti, soprattutto ai “genitori” di guardare “A Prayer for Bobby” .per comprendere di che cosa parlo. Rendendo pubblica  in questo spazio anche  la mia esperienza, ho cercato di dare un ulteriore piccolo contributo: sia pure con un’ottica già abbastanza chiara, ma ancora un tantino nebulosa, avevo già messo più o meno tutto “nero su bianco” sei anni fa, a seguito di quel prolungato lavoro introspettivo fatto con il supporto di una psicologa a cui ho accennato prima  (non a caso una donna: con un uomo non sarei mai riuscito a farlo) e da quell'esperienza era nato appunto un libro che di conseguenza è diventato una testimonianza pubblica certamente più complessa ed elaborata del profondo dramma di una preclusione. Perché ho avvertito questa esigenza? Perché non voglio più “nascondermi”: l’ho forse fatto anch’io per troppo tempo, e ti assicuro che è terribile dover vivere camuffato (anche solo in parte)  per essere accettato. E poi perchè probabilmente nonostante il mio pessimismo, non ho ancora rinunciato del tutto ad avere fiducia nella gente (anche se nemmeno questo è stato completamente indolore e non tutti i riscontri sono stati in positivo). Credo in ogni caso che nonostante le “mazzate” ricevute sia stato giusto ed importante farlo. Perché allora non allargare la cerchia “accordando” la fiducia della condivisione anche alla più ampia utenza di questo sito, visto che è proprio qui dentro che trascorro una fetta piuttosto consistente della mia giornata, tanto che è diventato quasi la mia seconda casa? Penso che sia importante conoscersi davvero per capirsi meglio, e se “scegliamo” (riteniamo giusto) questo mettersi a nudo (che è una grande idea), poi dobbiamo farlo davvero (io non sono per le mezze misure,  e accetto sempre il rischio fino in fondo, accada quel che accada), anche perché, come ripeto credo fermamente nell’uomo e  nella sua capacità di comprendere e di “accettare”.

 

D: - La figura del padre come guida e modello di formazione è il più grande vuoto che possa esistere nella crescita soprattutto di un ragazzo. Con il passare degli anni, non è mai maturata in te l’idea di famiglia “allargata”? Leggi italiane e preconcetti radicati dicono che il modello “I ragazzi stanno bene” (tanto per intenderci) siano impossibili da realizzare in Italia: cosa rispondi a costoro? Quanto oggi il poter essere padre (e qui lo dico: per me padre non è chi ti ha generato dal suo seme ma chi ti ha dato quell’imprinting necessario per vivere) potrebbe esserti d’aiuto nell’allontanare i fantasmi?

 

R. Mi sono creato una famiglia “al maschile” agli inizi dei '70, ma formata da due sole persone, io e il mio compagno. E non è stata una scelta, ma una “necessità”: quando sentiamo il bisogno di una cosa, non ci si lascia certo spaventare dalle avversità e dalle opposizioni, si fa e basta, anche a costo di subire qualche insulto e molte vessazioni perché quelli non erano anni davvero “maturi” per esporsi come abbiamo fatto noi e qualche piccolo iniziale problema lo abbiamo avuto per esempio nel dover piano piano vincere la diffidenza del condominio e del vicinato. Però, no, davvero, l'idea di una famiglia “allargata”  non mi ha mai sfiorato, prima di tutto (ma non è la ragione prioritaria) perchè a volerlo in ogni caso avremmo dovuto essere in due, e il mio compagno sotto questo profilo è stato sempre molto più indietro e “titubante” di me (visto che era persino restio ad “ammettere” pubblicamente la verità della tipologia effettiva della nostra relazione).

Nel libro che gli ho dedicato per ricordarlo dopo la sua morte, proprio a causa di queste sue ripetute “reticenze”, ho sentito la necessità di chiedergli persino scusa per essere alla fine  uscito allo scoperto anche su questo:  “ti prego di comprendere – ho scritto in tale circostanza - che se ho esposto cose che tu in vita non avresti mai voluto sciorinare e dire (mi riferisco alla esatta natura del profondo rapporto che ci ha unito), se ho implicitamente confermato quello che non era certo un segreto per nessuno, nonostante la tua ostinata volontà a “negare” per quella timorosa, caparbia esitazione che non mi è mai riuscito di smontare fino in fondo, è perchè adesso, in questa circostanza, non era più possibile “eludere” il problema della trasparenza, o essere semplicemente evasivi e “incerti” senza sfiorare il grottesco. Si è trattato quindi semplicemente (credimi e accettala come tale) di una forma di “rispetto” per te e per gli altri, oltre che una “necessità” oggettiva di chiarezza, ma anche di un atto estremo di “riconoscenza” e di amore (vedi? una volta tanto anche io sono riuscito finalmente a dirla questa parola) perchè altrimenti niente avrebbe avuto un senso, nemmeno la mia pena. Tu non avresti gradito, questo lo so, ma non temere più, non essere scorbutico né apprensivo: non è successo niente, te lo assicuro, nessun scompiglio. C’è stata solo comprensione, non pregiudizi o ironici commenti: chi ci è intorno, chi ci vuole davvero bene (e non solo loro, spero), può intendere e capire, è capace persino di apprezzare e non si scandalizza né si ritrae per questo, perché non abbiamo commesso nessun peccato o infrazione alla morale, e tu lo sai. Solo gli ottusi e gli stolti lo possono pensare. Noi ci siamo semplicemente e soltanto “voluti un po’ di bene”. E cosa c’è di più importante, straordinario e positivo nella vita?”. 

Se si considera che lui era così “chiuso”  verso l’esterno nonostante quasi quarant’anni di convivenza sotto lo stesso tetto, non sarebbe stato in ogni caso proponibile un’ipotesi più estrema legata a un’adozione o a una “affiliazione”. Ma credo in tutta onestà che non sia  stato poi nemmeno questo il punto, perché anche io sono convinto che i tempi non sono pronti (è la nostra società che non lo è), forse proprio per come “ho subito” la mancanza di una famiglia regolare e per quanto ho   vissuto male  un’assenza, e conosciuto per questo la “cattiveria” estrema dei bambini, e come sanno essere feroci quando vogliono farti rimarcare la differenza e sanno bene dove colpirti e come farlo: lo facevano spesso per mettermi in difficoltà affrontandomi con un senso di spavalda superiorità che mi buttava k.o. quando con impertinente arroganza se volevano avere la meglio su una discussione, mi buttavano in faccia brutalmente: “stai zitto tu che non hai nemmeno il babbo”  proprio per voler rimarcare che non ero come loro… e se  lo dicevano a me che il padre mi mancava solo perché era andato in guerra, figurarsi con quanta acredine potrebbero sbandierare una “diversità” strutturale  più profonda come quella che si verrebbe a generare in questi casi. So perfettamente che “dentro” la famiglia tutto potrebbe funzionerebbe magnificamente: sono i traumi provocati dall’esterno, terribili e castranti durante la formazione della propria identità,  a farmi essere titubante e spaventato (e non me ne vogliano coloro che con coraggio hanno già fatto invece questa scelta “sfidando il mondo e le convenzioni “ nonostante tutto: probabilmente è perché  appartengo a una “sorpassata” generazione anche di pensiero). Credo che sia di particolare rilevanza anche il fatto che poi alla fine il ruolo del padre mi ha sempre spaventato, e l’ho  rifiutato addirittura “a prescindere”, ritenendomi poco idoneo, e incapace di esercitarlo con la necessaria  competenza,  e soprattutto con il rispetto e la dedizione, prive di un egoistico senso “del possesso” che considero elementi fondamentali e imprescindibili. Però se analizzo oggettivamente quella che è stata ed è la mia vita, credo che nemmeno questo corrisponda al vero, perché in pratica alla fine il padre un po’ l’ho fatto per lo meno verso il mio compagno (e non solo perché era più giovane  di otto anni, ma proprio per le sue insicurezze e il suo essere rimasto ancora un  po’ “bambino” in molte cose). Un padre per procura forse lo sono ancora adesso per il rapporto speciale e profondo che si è  instaurato con un ragazzo che ha meno della metà dei miei anni – non c’entra nulla il sesso, voglio precisare, per non correre il rischio di essere frainteso –  che sto semplicemente aiutando a “ritrovare” la sua strada, un lavoro costante e certosino che mi sembra stia dando buoni frutti non solo per la sua crescita e il suo rapporto con la vita, ma anche per quel che mi riguarda, perchè  devo anche alla sua presenza se nel rileggere quei fatti del passato, sono riuscito adesso  a trovare ulteriori chiavi di lettura per tutto quello che di negativo ho metabolizzato nella mia infanzia. Rispondendo così alla tua domanda, posso dire che questo probabilmente è proprio quello che ci voleva e che mi ha aiutato: diventare una specie di padre putativo non ha magari ancora del tutto dissolto quei “fantasmi”, ma li  ha certamente molto attenuati, rendendoli più labili e sfumati.

 

D: - Nel riguardarti indietro, cosa avresti voluto non fare? Cosa è rimasto di non detto, ad esempio, con tua madre?

 

R. Sono moltissimi gli errori che ho commesso e tante le cose delle quali potrei ancora vergognarmi, ma non amo recriminare, né star lì a piangere sul latte ormai  versato: è facile giudicare le cose col senno di poi, ma so per certo che se tornassi indietro, a quei giorni (e dovrei essere per forza come ero allora, sennò sarebbe un “gioco” troppo facile: assurdo ipotizzare infatti  di avere una giovinezza con la maturità della vecchiaia) rifarei esattamente tutto come allora, anche gli sbagli perchè quando si sceglie lo si fa sempre con cognizione di causa e in base alle conoscenze ed i bisogni di quel momento, orientandoci verso ciò che più ci sembra giusto ed opportuno, quindi inevitabilmente  tornerei a ripercorrere la stessa strada con assoluta certezza. Più difficile (e doloroso) rispondere invece alla seconda parte della tua domanda, visto che con mia madre sono rimasti troppi sospesi (praticamente quel “non detto” a cui accenno spesso). Per questo, provo ancora forti  sensi di colpa e soprattutto rimorso, per la mia codardia, perchè in fondo  avevo la “certezza” che lei sapeva come stavano le cose (sarebbe troppo lungo entrare nei dettagli, ma sono più eloquenti gli sguardi che non le parole a volte) anche se non le “accettava” (ed era evidente) ma ero comunque suo figlio e non poteva esimersi dal volermi ugualmente bene e dal “difendermi ad ogni costo” (ed anche il suo silenzio probabilmente serviva a questo scopo). Dovevo essere allora io a prendere l’iniziativa, ma non ho mai avuto sufficiente coraggio per farlo. L 'ho messa persino nella condizione terribile  costringerla di fatto a “tacere”, quando negli ultimi istanti della sua vita forse lei qualcosa aveva voglia di affrontare con me (non è una “certezza”, ma un’ipotesi abbastanza certa): soffriva molto, è vero , ma era lucida, e rifiutava la morfina, proprio perché si rendeva conto di essere alla fine e desiderava essere cosciente fino in  fondo : “fatemi vivere con lucidità queste ultime ore, perchè ho ancora tante cose da dire prima che sia troppo tardi. Non fatemi quella puntura” (sono esattamente queste le sue parole che tentavano di bloccare l’incoscienza e io me le sento ancora piantate nel cervello come un punteruolo) “Ti prego Valerio non farmi addormentare… non mi risveglierò più se mi fate la morfina e non avrò più tempo per parlare”. Ma io avevo paura  proprio di questo, di dover affrontare con lei le ultime angosciose ore dell’agonia, soprattutto  delle parole che potevano essere dette, delle domande che mi potevano essere rivolte. Paura ed egoismo dunque (allora ero anche questo), la necessità di pensare solo a quello che era meglio per me in quel momento , o che comunque mi avrebbe recato meno “disturbo”. Così pretesi, anzi “costrinsi” l’infermiera a fargliela ad ogni costo quell’iniezione che l’assopì immediatamente (e da quel sonno non si risvegliò davvero più). Ecco: questa forse è  l'unica cosa per la quale non riesco ad assolvermi nemmeno adesso anche se ho un'infinita compassione per quel ragazzo impaurito e  incapace di ammettere persino con sua madre ciò che era non certo per sua scelta,  e della quale mai avrebbe dovuto vergognarsi.

 

D: - Avete mai visto un film insieme? Che ricordo ne conservi?

 

R. Aveva una passione assoluta per il cinema, soprattutto per i film interpretati da Errol Flynn. E'  proprio da lei che ho ereditato questa passione (le ho dedicato molto tempo fa anche un’affettuosa, riconoscente play al riguardo). Non ho nessuna ricordanza della “prima volta” insieme (potrei immaginare che mi ci portava persino quando ero in fasce). Rammento invece due titoli che mi affascinarono e un po’ mi traumatizzarono, visti “impropriamente” (forse il Moige adesso avrebbe avuto qualcosa da ridire)  molto prima dei sei anni: “Lo strano amore di Marta Ivens” di Milestone, e Non dirmi addio” di Walter Lang che mi fece versare le mie prime singhiozzanti  lacrime “cinematografiche”. Per molto tempo - diciamo fino ai primi anni adolescenziali - quasi tutto il cinema che ho visto (tantissimo: almeno un titolo a settimana) l'ho visto insieme a lei. Poi ovviamente crescendo, ho preso la mia strada autonoma anche se con molta fatica perché temeva sempre, mandandomi da solo, che qualcuno potesse “molestarmi” nel buio della sala ed ho dovuto combattere molte battaglie al riguardo. Ricordo invece con certezza l’ultimo film che abbiamo visto insieme ed è di quello che vorrei parlare, anche se non ci sono particolari aneddoti da evidenziare. L'avevo accompagnata per una visita di controllo all'ospedale (le sue condizioni di salute erano ormai quasi del tutto compromesse), ma l'appuntamento all'ultimo momento fu spostato per l'assenza del cardiologo, e ci trovammo così con un pomeriggio interamente libero da passare insieme in attesa del rientro. Fu lei a suggerirmi di portarla al cinema, “ma scegli tu che cosa vuoi vedere” mi disse: “voglio “capire”cos’è che ti piace adesso almeno al cinema, e  come sei cambiato anche in questo, visto che si presenta l’occasione, perché ormai mi sembra di non conoscerti davvero più da quanto sei distante”. Come al solito “incassai in silenzio” e non risposi, ma la portai  comunque al Supercinema  a vedere “L'avventura” di Antonioni, un esempio calzante (e forse anche una sfida): seguì tutto con estrema attenzione, nonostante la difficoltà evidente a comprendere un’opera già di per sé abbastanza complessa, ma soprattutto così diversa e distante da quelle che lei era abituata a frequentare. Si dimostrò comunque felice per averle permesso di condividere con me quell’esperienza: “non ci ho capito molto “ mi confessò candidamente, “ma se è e piaciuto a te, va bene lo stesso, sono contenta di averlo visto, perchè rimarrà forse l'ultima occasione che abbiamo avuto di guardare un film insieme... ed era tanto tempo ormai che non lo facevamo più come una volta”.

 

D. - Senza voler essere patetici o creare il caso umano, vorrei che mi raccontassi del tuo compagno, venuto a mancare qualche anno fa. Quanto questo venir meno di un’altra figura maschile ha permesso alla tua mente di tornare all’infanzia?

 

R. Qualcosa l'ho già esposta rispondendo a una precedente domanda, ma ci proverò ancora a farlo. Sono ormai passati tre anni (lo saranno il 25 di agosto, per l’esattezza), e il dolore per la perdita non è certamente così lancinante e insopportabile come i primi tempi. Ci si abitua anche all'assenza, anche se non la sia accetta: cresce anzi una rabbia interna che non si estingue mai… Ci si sente definitivamente soli e non c’è più nulla che riesca a riaccendere anche un piccolo barlume di speranza. Diciamo che sopravvivo, ma non vivo mai veramente, sospeso come sono e spesso altalenante. Una delle ragioni del protrarsi del mio stare male, è rintracciabile proprio nel fatto che ho dovuto subire un’ulteriore perdita importante, quella di un’altra “fondamentale” figura maschile, dell'unica che avevo (e la sola che mi ero scelto), quella che avrei voluto che mi accompagnasse fino alla fine dei miei giorni (mi sento in fondo anche un po’ truffato per questo). Perché sto così male? Credo che sia perché è stato lui più di ogni altra cosa la mia idea di “famiglia” (oltre che essere il mio compagno, ha certamente racchiuso in sé la valenza di molte altre figure che non avevo conosciuto o che mi erano venute a mancare troppo presto oltre quella di un figlio che non avrei mai potuto pretendere di avere). Nel lungo e un po’ delirante dialogo che ho intrapreso con la sua non presenza dopo la sua morte, gli ho riconosciuto così con queste frasi, questa sua insostituibile molteplicità di ruolo: “Sei stato tu più di ogni altra cosa, la mia idea di famiglia, me ne hai restituito il senso perduto, e che forse non avevo mai voluto considerare come tale prima che arrivassi ad incrociarti sul mio cammino. Mi hai fatto amare e sentire “mia” (nostra, sarebbe il termine più appropriato), persino la casa e il suo calore, che non avevo forse mai posseduto prima nella piena accezione del senso, almeno con analoga intensità e completezza.  Sai che prima che tu arrivassi l’avevo sempre valutata alla stregua di un albergo, un luogo da utilizzare – più che per dormire – per bivaccare un poco fra una scorribanda e l'altra, senza mete precise da onorare, come ero solito fare in quel periodo ormai lontano. Adesso purtroppo, però tu non ci sei più per aiutarmi ad essere razionale e di nuovo allora  tutto quel “malessere esistenziale” (corretto definirlo così?) sta progressivamente riemergendo, riprende il sopravvento, e di pari passo, lentamente sta sfumando verso il nulla anche la  certezza di una solida base su cui poggiare i piedi. Le pareti delle stanze assomigliano allora sempre di più a una prigione che si restringe e mi incatena (ma dalla quale non riesco ad evadere), bisognoso come sono di restare attaccato a qualcosa che indichi il persistere sempre più flebile della tua presenza, alla quale mi appiglio come a una ciambella di salvataggio che lentamente sfiata sgonfiandosi sempre di più. Continuo così a convivere solo con l'instabilità debordante degli scompensi che la tua dipartita rende sempre più persistenti e inarrestabili dentro di me, perché purtroppo (e più che passa il tempo e più mi ne rendo conto della cosa fino a farla diventare una assoluta certezza) questi non se ne andranno, come non si sono dissolti i colpevoli rimorsi verso mia madre, o il disagio profondo per la mancanza di mio padre che tu in grossa parte averi però colmato, né diventeranno meno feroci (sai bene come sono fatto e che non c'è speranza in questo) poiché (e cito Peyrefitte), non è il pensiero della morte che è penetrato in me, ma è il pensiero di aver perduto la mia vita insieme a te, che mi fa stare così male e che a lungo andare, potrà soltanto peggiorare ulteriormente la condizione. E allora, visto che in ogni caso ormai non c'è rimedio ne tantomeno speranza, cosa importa? Tanto ormai... lasciamo che le cose vadano come devono andare, e così sia.

 

D.: - Sempre se posso permettermi di rovistare nei tuoi cassetti, non hai mai addossato alla mancanza della figura del maschio adulto in casa la tua omosessualità? In base a statistiche o esperienze personali, ho notato che le due cose sembrano essere collegate, come se scattasse un meccanismo di identificazione con la figura materna e, pensandoci, anche la tua ricerca del dolore o del sangue mi fa pensare a una simulazione del sangue mestruale…

 

R. No, su questo ho la certezza assoluta: la mancanza di mio padre e il gineceo femminile dentro al quale sono cresciuto, ha sicuramente causato  una modalità di “assoluta passività” e dipendenza anche nel rapporto sessuale che mi ha castrato a lungo (l'immaginare cioè che  fosse quello l'unico modo in cui si poteva esprimere l’omosessualità, con il conseguente “rifiuto” inconscio di ipotizzare invece un rapporto di totale reciprocità anche nei ruoli, che è invece l'aspetto più bello ed appagante)... ma ti assicuro che le mie attrazioni sono sempre state al maschile, e si perdono nella notte dei tempi queste “avvertite pulsioni”. La prima della quale ho memoria cosciente, risale a quando avrò avuto si e no quattro anni (ma anche meno). Ero ospite dei miei zii a Scandicci per la fiera annuale, e c’era un circo nella piazza, dove si esibivano fra gli altri due fratelli trapezisti molto muscolosi e prestanti, il più giovane dei quali mi “attrasse” così tanto (non saprei  definire meglio la cosa), che ancora adesso ricordo i subbugli che mi provocava il suo esporsi sul trapezio e soprattutto verso quale parte del suo copro “puntava” il mio sguardo. Non ero ovviamente cosciente che era già una pulsione di tipo sessuale quella che provavo verso di lui, e i mie pensieri restavano infantili: immaginavo solo di volerlo come un fratello che mi accarezzasse, mi coccolasse, mi cullasse fra le sue forti braccia (e sono certo che non era il padre che desideravo trovare in lui, ma qualcosa di più carnale). La notte infatti so che lo sognai intensamente anche se non ricordo alcun tratto particolare di quel sogno, ma nonostante che fossi così piccolo, rammento invece esattamente  che mi svegliai di soprassalto  per una sensazione di dolore all’inguine, un po’ impaurito perchè fra le gambe il mio “cosino” si era  irrigidito diventando duro come fosse pietra, ed era proprio  lui che provocava quel dolore che mi aveva risvegliato.

La mia ricerca del dolore è invece indissolubilmente legata alla necessità di punirmi per la mia omosessualità e per aver fatto troppo poco per contrastarla (il problema semmai è che questa modalità l'ho mantenuta in pratica a lungo, fino a quando finalmente sono riuscito a chiudere il circolo vizioso, con una ricerca della punizione così forte, che mi ha portato spesso a deragliare: mi punivo utilizzando il sesso con masochistica determinazione, e poi mi detestavo così tanto per ciò che avevo fatto,  da innescare  un inesauribile processo a catena.

Per il giusto quesito che invece mi poni rispetto al sangue mestruale, non ho purtroppo ancora adeguate risposte da darti: so che c’è qualcosa di nascosto che  non sono riuscito a far emergere da questo, ma che è importante, perché il “sangue” è la cosa che più mi spaventa e mi atterrisce, un qualcosa di “insano” e di contaminante (ma al di là di questo non sono  proprio capace di andare).

 

D.: - Ragionando per assurdo, per strapparti anche un sorriso, se potessi quale film faresti vedere oggi ai tuoi genitori per mostrare loro l’uomo che sei diventato?

 

Non so bene cosa rispondere: credo però che opterei per “A Single Man” anche per evidenti ragioni di riferimento. Se avessi la possibilità di fare questo miracolo, però preferirei farli assistere a un mio spettacolo teatrale di quando avevo ambizioni di regia: “Il Matrimonio”  di Gombrowicz,  rielaborato a mio totale  uso e consumo, con il quale avevo già esposto davvero molto di me, compreso i problemi dell’infanzia, ma  non solo: anche come mi ero nel frattempo “trasformato” e soprattutto quello che volevo essere in futuro.

 

D.: - Come ti rapporti oggi con il tema dell’attesa o della speranza? Ricordo un post sui sentimenti di qualche mese fa che fece tanto discutere e che oggi io rivedo con un’ottica differente, comprendendone a pieno il contenuto.

 

Non mi sono spostato nemmeno di un millimetro da lì: è così che mi sento. Credo pertanto inutile ribadire quei concetti perché recuperabili proprio dentro a questo sito: sono ancora a quel punto purtroppo, e non mi muovo.

 

D: - Dalle mie parti (in Sicilia) si dice che “non c’è matrimonio in cui non si pianga e non c’è funerale in cui non si rida”. Raccontami due aneddoti che ricorderai in eterno per il loro essere fuori luogo.

 

Sono due manifestazioni che aborro, anche per come in parte vengono “mercificate”. Forse per come le vivo entrambe, ho sempre cercato di rimanere fuori dai meccanismi che le regolano “osservandole” a distanza e con assoluto disincanto. Tutto, per come vengono praticate, a me sembra “fuori luogo” e non saprei che dire di particolarmente significativo: per il matrimonio, forse potrei ricordare la scena un po’ folle del padre della sposa, il ricco e spocchioso proprietario di una catena di ricambi di pneumatici, che al “rituale” taglio della cravatta del marito novello da “vendere” agli invitati  per racimolare soldi da destinare al viaggio di nozze, andò in  escandescenze dicendo volgarmente che lui non aveva bisogno di simili elemosine. Un atteggiamento così violento e fuori luogo da lasciare tutti un po’ esterrefatti ed allibiti (la sposa fu colta da una crisi isterica di pianto, ovviamente, ma io devo dire che mi divertii come un matto). Dei funerali mi fa sempre sorridere (ma anche inorridire) lo strascico di “chiacchiere” dietro il feretro e al cimitero: occasione per ritrovarsi e constatare come siamo “diventati” più che per ricordare – ed onorare  -  il  morto,  oltre naturalmente ai piccoli incidenti di percorso, quando per esempio a volte chi porta a spalle la bara giù per le scale per metterla nel carro funebre, non è cosi in forza e inciampa un poco rischiando così di farla cadere a terra, e tutti si precipitano per aiutarlo a sorreggere il peso, prima  che accada il disastro Più che  ricordi di ilarità però,  ogni funerale mi crea il “disagio” di dover sopportare i discorsi del prete, che fa il certamente il suo lavoro ma dei quali farei volentieri a meno.

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