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Nuovo Cinema Ritrovato
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Risalgo da Francavilla al Mare a Bologna per sostenere un esame. Salgo malvolentieri, perché non sopporto minimamente di trascorrere anche un solo giorno tra maggio e settembre lontano da Francavilla, la mia città, il mio mare. Ma tant’è. Arrivo lunedì sera. L’indomani sostengo l’esame di storia del cinema. Noto che il mio compagno di banco tiene al collo un nastro blu con un pass. Curioso come sono, faccio di tutto per leggere cosa ci sia scritto. Il cinema ritrovato. D’improvviso le mie sinapsi si mettono in atto e mi ricordo che in questi giorni la Cineteca di Bologna ha organizzato il festival. Da questo momento in poi la mia permanenza si fa meravigliosa.

 

 

Non sono mai stato ad un vero festival. Nonostante l’abbia vissuto solo per due giorni, il mio primo festival è stato stupendo. Mi sento un bambino ad un parco giochi. È stato stupendo per tante ragioni, ma voglio elencare almeno tre motivi per cui ho amato follemente questi due giorni.

 

Il cinema in piazza. In Piazza Maggiore hanno allestito un cinema all’aperto. Lo schermo è grande; le sedie saranno duemila, tremila o giù di lì. La gente accorre. Probabilmente è spinta più dall’idea di occupare una serata o di guardare un film gratis, ma non stento a trovare persone realmente interessate, non necessariamente cinefile. Martedì sera parto da casa verso le nove: il film è alle dieci, penso, me la prendo con comodo. Arrivo in piazza alle nove e mezza e di posti vuoti nemmeno l’ombra. Non solo, anche le scalinate di San Petronio e del portico di fronte sono gremite. Resto in piedi, appena dopo l’ultima fila, assieme ad altre centinaia di persone. Così, ad occhio, direi che siamo seimila, settemila. Il film in programma è la copia ovviamente restaurata e in versione originale Gli uomini preferiscono le bionde, con un antipasto di due cortometraggi muti. La prima magia del cinema in piazza è questa: la platea, in religioso silenzio, si perde nelle acque immortalate nel cinema colorato di Les bords de la Tamise d’Oxford a Windsor, un capolavoro tecnico che probabilmente nemmeno il suo autore avrebbe mai immaginato vedere in piazza di fronte a migliaia di spettatori impressionati, e ridacchia con la comica Le due innamorate di Cretinetti, mentre il fisarmonicista Marc Perrone s’inventa un’armoniosa partitura in sottofondo. Poi parte l’immortale commedia di Hawks, e per un momento mi sembra di essere in Nuovo cinema Paradiso, con la gente che ride (ancora, a distanza di sessant’anni: c’aveva ragione Italo Calvino quando diceva che i classici hanno sempre qualcosa da dire), che fa conoscenza, che si butta a terra pur di vedere il film.

 

 

Mercoledì sera torno in piazza. È in programma Les enfants du Paradis, uno di quei film che pur avendomi sempre incuriosito non ho mai avuto l’occasione di vedere. Quale migliore occasione. Arrivo presto, mi siedo (non avrei retto tre ore in piedi) e comincio ad origliare il mio vicino che sta parlando di un vecchio film italiano del 1941 che ha ritrovato non ho ben capito dove e restaurato; l’anno prossimo lo vuole vendere. È un film scritto da Bettini e interpretato, tra gli altri, da Valentina Cortese e Paolo Stoppa. (Tornato a casa scopro che il film è L’orizzonte dipinto, che ha più di un’analogia con Les enfants du Paradis). Presenta il film il capo della Pathé, un simpatico francese, che parla inglese così lento ché lo capisco alla grande. Parte il film: è bello, ha il passo del romanzo denso e ricco come piace a me; ma il tempo comincia ad essere ingrato. La seconda magia del cinema in piazza non tarda ad arrivare: il film si sintonizza con la natura e viceversa. Un tuono si fa sentire nello stesso istante in cui sullo schermo scorre una scena in cui inizia a piovere su Arletty e Barrault: applauso. E ancora più commovente è stato vedere come gli spettatori, nonostante la pioggia che via via diventava sempre più incessante, siano rimasti a guardare il film, chi scappando sotto il portico e chi restando addirittura sotto la pioggia battente. Io per un po’ ho retto, ma poi ho ceduto e mi sono riparato sotto il portico. Eppure è stato splendido vedere come un film in lingua originale, in bianco e nero e lungo 190 minuti sia riuscito nell’impresa di trattenere il suo pubblico. Al primo tempo, però, hanno deciso di fermare la proiezione, e ce ne siamo andati mestamente a casa.

 

 

 

Incontri particolari. Non mi hanno mai fatto granché effetto i personaggi famosi. Bene o male a qualcuno ho stretto la mano (Veltroni e tanti politici del Pd, il figlio di De André, Travaglio, Faenza), di qualcuno ho l’autografo (Lo Cascio, Capuozzo, Daverio), con altri ho scambiato qualche parola (Veltroni – povero lui). Ma c’è una persona che mi ha destabilizzato. Mercoledì pomeriggio mi reco al cinema Arlecchino per vedere Le vie est à nous e poi Anni facili. Dato che di natura cerco sempre di evitare le rogne, seguo le indicazioni del biglietto e mi siedo al posto assegnato, anche se so benissimo che nessuno lo fa – a parte nei multiplex, dove ho assistito a risse per i posti numerati. Mi siedo, bello tranquillo. Volto la testa a destra e mi ritrovo seduto accanto a Paolo Mereghetti. Ho una sincope. Prima reazione: allora esiste. Seconda reazione: in che punto della sala fisso lo sguardo? Terza reazione: gli parlo? Alla fine non ci siamo detti niente, lui se n’è andato all’inizio del film di Zampa con il suo zainetto marrone. Ma almeno posso dire di aver visto un film con Paolo Mereghetti. Quasi mi commuovo.

 

 

Pochi minuti prima, invece, ero in Cineteca, a comprare un dvd. Mi giro e mi trovo Paolo Poli e Tatti Sanguineti a parlare amichevolmente con una signora (penso fosse la figlia di Alessandro Blasetti) e un altro tipo. Tatti mi sembra di conoscerlo da sempre, con quella voce che ho sempre sentito a Hollywood Party, con quell’aria un po’ scafata da irriverente bonaccione. Ma è la voce squillante del mitico Paolo Poli a colpirmi. Capto qualche dialogo. Sanguineti (o l’altro tipo?) dice a Poli che recentemente solo da Fazio si è fatto vedere. E Poli, con molta nonchalance: “è una cosa carina, ma perché dietro c’è Michele Serra, che è una persona molto carina”. Un grandissimo, ma non diteglielo.

 

 

 

Presenta Anni facili, invece, Goffredo Fofi, altra istituzione che pensavo esistesse solo su carta. È invecchiato, si appoggia ad un bastone. Ma basta lasciarlo parlare di cinema italiano degli anni cinquanta per capire che “mens sana in corpore” sano è una boiata pazzesca.

 

 

Le storie. Un festival è una commedia umana. Tante volte ho cercato di scrivere una storia ambientata durante un festival del cinema. Una storia corale, che racconti la giuria, i giornalisti, gli artisti e, soprattutto, gli spettatori. È sempre stato una mia fissazione. Non l’ho mai scritta perché non scrivo di cose che non conosco. Non che ora le conosca, ma qualcosa, in questi due giorni, ho osservato. Ho visto moltissimi stranieri con il pass al collo. Età variabile, ma principalmente ho visto cinquantenni e sessantenni, chi in coppia (nella mia acidità sentimentale, mi sciolgo di fronte ad una coppia matura o anziana che si stringe la mano teneramente) e chi da solo. Quelli solitari sono perlopiù i cinefili. I cinefili estremi sono quelli che hanno confuso la vita del cinema con la propria. Per questo hanno dimenticato di vivere la propria vita, e si ritrovano da soli a girare per i festival del mondo. Sono quelli che comprano i dvd e i libri più assurdi. Non è ovviamente così, ma mi piace crederlo, perché so perfettamente che personaggi così malinconici danno un tono notevole alla storia. A volte penso di aver plasmato l’immagine delle persone che ho visto per ricondurle alla storia che ho in mente. Come il tipo barbuto e robusto, che si intrattiene con i giovani forse perché nessuno se lo fila più o forse perché attacca delle pezze che non finiscono mai (non ha la fede al dito: una mia professoressa diceva sempre di guardare se le persone hanno la fede al dito, perché da questo si capiscono tante cose). C’è una donnina sui settanta, col vestito a fiori. Forse è vedova, sta sempre da sola. O è semplicemente straniera. Ci sono due ragazzi, uno riccio ed occhialuto e un altro scapigliato e con le infradito, che parlano ininterrottamente di montaggio dialettico, realismo sovietico, decoupage narrativo e di un’altra marea di cose, come se il loro orizzonte sublime si limitasse allo schermo. E poi ci sono gli italisti, gli stranieri che guarderebbero pure Biancaneve sotto i nani se sapessero che è un film italiano (tanto per loro è tutto neorealismo). E ce ne sono altri, tantissimi altri, che, per una ragione o per un’altra, non mi dimenticherò quando finalmente scriverò quella storia.

 

(unico rammarico: mi son perso Bernardo Bertolucci lunedì sera.  E Charlotte Rampling, Kevin Bromnlow, Giuseppe Torrnatore. Ho maledetto chiunque)

 

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