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Il vocabolario dei sentimenti - Dedizione (9)
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DEDIZIONE è una “condizione” e una parola che definisce molte cose. Credo però che si identifichi principalmente in un nobilissimo sentimento di “compartecipazione” anche emotiva che presenta però oggettive difficoltà di “messa in pratica”, se non si è sufficientemente motivati  o non si hanno  adeguante spinte interiori che possano supportarci nel percorso. Basta leggere come ce la descrivono i dizionari italiani  per comprenderne davvero il senso profondo (ma anche gli inevitabili “rischi” condizionativi che si porta appresso: “Azione del dedicarsi completamente e spontaneamente a una persona, una cosa, un ideale”  o anche “Disponibilità a mettere le proprie energie, le proprie qualità a disposizione di qualcuno”).

Sono dunque collegati al termine comportamenti eroici e di abnegazione verso una causa, un principio, un progetto, una necessità, sempre più rari purtroppo nel consumistico mondo della contemporaneità fondato soprattutto sull’egoismo personale e sulla caduta verticale del senso etico (anche se ovviamente esistono ancora piccole sacche di resistenza attiva che non suscitano però tanta ammirazione nella collettività come accadeva un tempo, ma provocano semmai più frequenti commenti di ironica derisione o di stupita incredulità per questa incomprensibile “altruistica” disponibilità verso il prossimo così smaccata e “cogliona” da suscitare  persino una incredula ilarità).

Mi sembra allora che impostare adesso il discorso su questo versante sia davvero un po’ troppo anacronistico, visto  che è principalmente il senso assoluto di “devozione” (e di “attenzione”) che porta a privilegiare i bisogni altrui rispetto alle nostre personali necessità che ci fa difetto, poco compatibile com’è con il qualunquismo estremizzato della modernità che lo rende un “sentimento” un tantino passato di moda (e che spesso diventa una vera e propria “fregatura” per chi non è capace di distaccarsene, o è così masochisticamente attratto dalle implicazioni che ne derivano, da non riuscirne a farne a meno, e continua ad esercitarsi intorno come se niente fosse mutato).

Non è assolutamente una posizione di disincantato scetticismo la mia, ma semmai una amara constatazione che stigmatizza in negativo una società come la nostra che pretende di esercitare solo “diritti” e si dimentica del tutto dei “doveri” (che rappresentano invece il necessario contrappeso della bilancia), poiché è  proprio in quest’ultimo concetto, quello del “dovere” (magari sentito e non imposto) che si annidano i  prodromi della  “dedizione” parente prossima della “devozione” le cui radici, una volta profonde e ramificate, sembrano ormai del tutto rimosse ed estirpate.

Nell’impossibilità di analizzare in tutte le sue componenti anche sociali questo concetto per molti versi “superato” (per lo meno quello che riguarda la sfera degli ideali ormai smarriti) e lasciando da parte il settore del “fornire aiuto”  per una malattia, una perdita o una inabilità che è poi il segmento dove più concretamente resiste ancora, credo che sia più giusto concentrarsi sul versante del “sentimento”, che è più labile e sfumato, ma anche molto più coinvolgente e perentorio  per quel suo esaltarsi nell’equazione fortemente lesionistica portata alle estreme conseguenze dal romanticismo,  che un innamoramento “assoluto” (anche a senso unico) più sofferenza crea, più è grande e inestinguibile, e se il dolore che produce diventa una straripante dipendenza affettiva da difendere fino alla consunzione fra negazioni, rifiuti e tradimenti, è maggiormente fruttuoso il risultato poiché  più ci si macera dentro e più ci si sente appagati. C’è al riguardo una nutrita letteratura (soprattutto “rosa”)  che ne “esalta” il valore e l’importanza “compiacente” di quel vero e proprio “supplizio” dell’anima e del corpo  che prima o poi (magari in cielo) una ricompensa l’avrà di certo,  e mi riferisco soprattutto a quella di fine ottocento e di gran parte del secolo scorso (i romanzi di Delly prima di tutto, e, per rimanere all’Italia, quelli di Liala, di Luciana Peverelli, di Mura o Dora Mancuso, tanto per fare degli esempi concreti), oltre che di tutto il cinema “classico” del ‘900 (e non solo) virato al femminile (perché le eroine “martiri” del sentimento non si sono assolutamente estinte come ben sappiamo): mantenere attiva l’idea “ad ogni costo” per evitare di soccombere, quell’esaltarsi nel dolore per una “passione” non consumata (anche se artificialmente indotta da un’ossessione privata e non condivisa, retaggio di un  bruciante, inappagato desiderio), è l’aspirazione massima di ogni sensibilità amorosa poco o niente corrisposta che sublima la frustrazione del rifiuto e dell’inaridimento dei sensi, nel mantenere attiva una totale dedizione di sottomissione emozionale alla propria “fissazione”, assolutamente necessaria per la sopravvivenza più dell’aria che si respira).

Riferendomi proprio a questa specifica modalità un po’ castrante che ha davvero forti componenti autodistruttive anche di “compiacimento edonistico” di matrice patologica molto vicino al masochismo che si estrinseca nel provare piacere (anche sessuale) dallo stare male, credo di poter sottolineare che le fonti di riferimento sopra indicate ce la rappresentano proprio come una condizione che riguarda soprattutto il femminile (con le dovute eccezioni naturalmente. perché esistono comunque validi esempi che evidenziano analoghe similitudini distruttive anche per l’altro sesso, come dimostrano testi celebri e importanti come I dolori del giovane Werther, Cime tempestose o Le ultime lettere di Jacopo Ortis).

Al cinema in particolare, nei decenni a cavallo della metà del secolo scorso – quello Hollywoodiano in special modo - era davvero il pane quotidiano di ogni lacrimogena produzione  che i divieti e le limitazioni imposte dal codice Hays facevano lievitare alla massima potenza, trasformando ogni azione in cieca abnegazione, visto che non era consentito “esporre” la visione di un qualsiasi ipotetico adulterio effettivamente  “consumato”, che avrebbe forse potuto dare maggior senso a quella dedizione (e riduceva così ogni cosa  al surrogato emozionale del “vorrei ma non posso e devo accontentarmi” di schiere di zitelle inacidite o di timidi virgulti insicuri e incapaci di ”buttarsi” nella mischia” che si consolavano riscaldandosi al calore di queste fragili fascine per non doversi confrontare con il proprio personale  fallimento). E per molte spettatrici in quegli anni (non solo loro poiché la cosa era veramente trasversale), arrivare a provare nella loro esistenza poco esaltante qualcosa di  analogo, tanto totalizzante da risultare comparabile con quello che mostravano di sentire le eroine dello schermo, diventava alla fine il desiderio massimo da conseguire, un qualcosa che induceva a considerare positivo anche un rapporto amoroso solo immaginato e viscerale, che consentiva di accomunare la passione alla sofferenza, la devozione al patimento e alla rinuncia, il peccato al pentimento e alla redenzione, la cattiveria alla espiazione (in pratica quella traccia  un po’ “perversa” che anche in tempi più recenti ci ha lasciato Lars Von Trier con il suo discusso e discutibile Le onde del destino).

Ritornando al cinema del ‘900 però, credo di poter tranquillamente affermare che è stata proprio Bette Davis la rappresentante massima di questa figura (a mio avviso inquietantemente ambigua e poco rassicurante) per quel che concerne proprio il mondo della celluloide: sicuramente quella più  sublime e appassionata che ha magnificamente rappresentato ed esposto tutte le sfaccettare della dipendenza affettiva “ad ogni costo” proprio perché racchiudeva in sé nella potenza dello sguardo, la bontà estrema della dedizione  votata al sacrifico estremo, capace di trasformarsi però, in altre performances., nella perfidia più bieca, nella prevaricazione e nell’inganno.

Sul versante della “DEDIZIONE” è stata dunque la vera, inarrivabile, patetica e commovente, vittima sacrificale del destino (e dello schermo): incompresa, rifiutata, osteggiata, ma sempre pronta a difendere il suo amore e a proteggerlo fino alla fine (anche quando l’uomo non se la filava proprio), da Vivo per il mio amore a Io ti aspetterò; da Perdutamente tua a Paradiso proibito.

Chi meglio di lei poteva dunque incarnare anche nel mio post il sentimento della “dedizione”? Dovendo poi esemplificare il concetto ricorrendo all’ausilio di una singola sequenza, è inevitabile per me ricorrere a quella conclusiva de La figlia del vento perché il magnifico ritratto di una donna fuori da ogni convenzione che ne fa la Davis – complice William Wyler - le comprende tutte quelle pulsioni sopra descritte: davvero una rediviva “Jezebel” che al pari della figura biblica di riferimento, commette il male al cospetto del Signore, con l’aggiunta però del provvidenziale ravvedimento conclusivo. Nell’impossibilità di “possedere”  l’uomo che ama da sempre, nel frattempo sposatosi con un’altra, ne combina davvero di tutti i colori, ma alla fine, redenta e pentita, deciderà di dedicarsi anima e corpo proprio all’oggetto della sua ossessione amorosa quando la scoprirà afflitta della mortale e contagiosa febbre gialla. Poiché l’uomo dovrà essere deportato  sull’isola dei lebbrosi, opterà “liberamente” per seguirlo nell’esilio (sostituendosi alla mogliettina consenziente, che non ci fa invero una bella figura) ed accudirlo così in tutti i suoi bisogni per accompagnarlo a una morte serena, magari addirittura  condivisa e sublimare così finalmente la “consumazione” mediata di un rapporto al quale era stato impedito di concretizzarsi in vita (pronta però naturalmente a farsi nuovamente da parte ove la morte non arrivasse per consentire al redivivo di ricongiungersi alla sua poco  intrepida metà).

L’abnegazione alla massima potenza dunque, che diventa qui anche espiazione delle colpe e dei peccati pregressi, ottima ciliegina sulla torta per chiudere davvero definitivamente il cerchio: la Davis/Julie Marsden è una donna che alla fine decide davvero di dedicarsi completamente e spontaneamente a una persona, esprime la totale disponibilità a mettere le proprie energie, le proprie qualità al servizio di qualcuno (e si ritorna così proprio ai concetti espressi nei vocabolari citati all’inizio) per supportarlo, curarlo e sostenerlo, fino a condividerne la sorte. Una DEDIZIONE assoluta che però in ultima analisi è soprattutto la masochistica suggestione di poter così assumere il ruolo del capro espiatorio, accettando le conseguenze del sacrificio come logica conclusione riparatoria per tutte le azioni sbagliate commesse per eccesso di passione inappagata.

 

La figlia del vento (1938)

di William Wyler con Bette Davis, Henry Fonda, George Brent, Margaret Lindsay

 

 

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