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Ha vinto Tutto. Tutto insieme.
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Alla fine ce l'ha fatta. Everything Everywhere All at Once, ha sbancato gli Oscar come non succedeva da tempo o forse mai è successo. Il film dei due Daniels, che non sono fratelli ma si chiamano entrambi Daniel, ha vinto sette statuette, che di per sé non sarebbe un record (di numero) ma lo diventa considerando che gli Oscar vinti sono praticamente tutti quelli importanti: Miglior Film, Miglior Regia, Migliore sceneggiatura originale, Miglior montaggio e, E, tre dei quattro premi disponibili destinati alla recitazione.

Adesso Everything Everywhere All at Once (d'ora in avanti EEAAO) ha, di nuovo, la possibilità di prendersi delle rivincite. Dico di nuovo perché il film è uscito nei cinema italiani il 3 ottobre ed è stato, anche se a fasi alterne, ossia con una copertura di schermi altalenante, praticamente sempre visibile. Una strategia distributiva che sicuramente sarà costata parecchio in termini di risorse umane e organizzative e che è stata tutta giocata nell'attesa della notte degli Oscar. Se negli Stati Uniti, il film di Daniel & Daniel (Kwan e Scheinert) è stato un successo economico che ha fruttato alla casa di produzione A24 più di cento milioni di dollari a fronte di un costo di produzione di 15, il mercato europeo è stato molto più parco di soddisfazioni e il successo, fino ad ora, non è arrivato.

Il film è stato vissuto dal pubblico europeo, ma anche dalla critica più tradizionale, come un oggetto misterioso e debordante, difficile da classificare. Un aspetto che è presente in quasi tutte le recensioni offerte dalla nostra community (che trovate qui) e che ha interessato anche me.

La mancanza di una categoria netta e univoca nella quale inserire EEAAO non è uno sfizio meramente teorico o critico ma è il riflesso di una certa polarizzazione degli spettatori che si è accentuata, soprattutto nel nostro paese, negli ultimi due anni. Su un lato di questo spettro c'è il fronte degli spettacoloni - universi espansi, supereroi di derivazione fumettistica, grandi produzioni - che hanno ormai traghettato gli spettatori in veri e propri mondi ai quali il pubblico appartiene, più che assistervi. I prodotti che fanno parte di questo segmento possono anche non piacere e dividere i fan, come nel caso di Ant-Man and The Wasp, ma non importa, quel pubblico segue, appartiene, è identitariamente conquistato. Anche quando il film non convince.

Sul versante opposto di questo spettro c'è il cinema cosiddetto d'autore che genera simili meccanismi identitari. Anche se i risultati hanno, ovviamente, volumi molto diversi, le molle che scattano, che smuovono le audience si somigliano. Quel che conta è il meccanismo di adesione che produce nello spettatore, almeno a livello potenziale.

In mezzo a questi due estremi c'è una marea di prodotti senza una identità precisa che fanno, nello scenario attuale, una grandissima fatica a trovare un pubblico, non avendone uno elettivo, nativo. Evidentemente si è rotto qualcosa nel sistema e un film che non parte con un suo pubblico, nel mercato attuale, parte svantaggiato. Hanno più capacità di penetrazione e seduzione film destinati a nicchie attive (sciatori, surfisti, appassionati d'arte o d'opera) che molti validissimi film buoni, o anche ottimi, senza un vero centro di gravità attorno al quale, nel quale, produrre informazione.

E EEAAO, in Europa, il centro non ce l'ha. Non è un film d'autore, non è un elemento di un puzzle più ampio, più o meno espanso, e non ha un pubblico di riferimento sul quale far gravitare informazione. Negli Stati Uniti invece sì, il centro c'era. Il fatto che i personaggi principali siano rappresentanti di una famiglia asiatica ha determinato l'esistenza di una base ampia in termini numerici che è servita da piattaforma sulla quale innestare un passaparola che poi è diventato valanga ed è andato a sedurre anche fette di spettatori estranei al target iniziale.

La capacità di far arrivare le informazioni giuste, alle persone giuste, al momento giusto sta diventando dirimente in tutti i settori e la battaglia per accappararsi i nostri spazi di attenzione avviene quasi esclusivamente su media che saltano i tipici percorsi informativi e/o che sono governati da algoritmi che lavorano su parole chiave e tag specifici e fanno passare informazioni rilevanti con grandissima precisione.

In questo scenario per un prodotto di intrattenimento senza una storia, un genere, una categoria, una "famiglia" di appartenenza è sempre più difficile trovare un pubblico che dia un senso economico ad una produzione. A meno che... A meno che il prodotto in questione non benefici di una botta di visibilità straordinaria. Come vincere sette Oscar sfondando la soglia di invisibilità e rompendo le rigide regole degli algoritmi. La cosa interessante, che ha a che vedere con il nostro atteggiamento di spettatori, è che anche noi, a forza di muoverci all'interno di questi ecosistemi, stiamo strutturando dei meccanismi di difesa dal Tutto e dal Troppo. Siamo diventati tutti sempre più sensibili al processo di categorizzazione e lo mettiamo in atto, non so quanto consapevolmente, come sistema di semplificazione del caos.

In linea di massima EEAAO potrà piacere a chi cerca due ore di divertimento fuori dai soliti schemi. Se il vostro pane quotidiano è il cinema d'autore rischiate di uscire insoddisfatti. Se per voi il cinema è luogo di riflessione sappiate che non avrete il tempo di riflettere perché in Everything Everywhere All at Once c'è esattamente quel che il titolo promette: un tutto che tutto insieme può facilmente diventare troppo. L'unica è sospendere il giudizio, non chiedersi mai "Cosa sto guardando?", non cercare di iscrivere questo film in una categoria perché semplicemente non ce l'ha. Non avercela può essere la sua forza e anche la sua debolezza. E dipende anche da noi.

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