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A Dirty Carnival
di AndreaVenuti
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A Dirty Carnival, Yoo Ha, 2006

Definito nel 2009 da Darcy Paquet (il massimo studioso di cinema coreano) come una delle voci più interessanti della cinematografia coreana, Yoo Ha nell’ormai lontano 2006 piazzava il suo capolavoro inserendosi di diritto tra i massimi autori del noir alla coreana nonostante sia un cineasta che ama sperimentare e cambiare genere.
 
A Dirty Carnival è il secondo capitolo della cosiddetta trilogia informale sulla “violenza di strada” iniziata da Ho nel 2004 con Once Upon a Time in High School e conclusa nel 2015 con Gangnam Blues. Il film è una vera e propria epopea criminale sull’ascesa (minima, quasi impercettibile) e sulla terribile caduta del gangster allampanato e sfortunato Byung-doo (interpretato dal divo dei drammi televisivi Zo In-sung).
Yoo Ha piazza circa 141 minuti, perfettamente divisi tra letali fendenti e slice of life inerenti alla vita privata del protagonista diviso tra la famiglia e mille problemi personali.
Fin dai primi secondi è possibile captare un certo rimando al cinema gangsteristico di Martin Scorsese inglobato però in un’ottica tipicamente coreana.
 
Yoo Ha è noto per l’attenzione prestata in fase di scrittura e quindi non sorprendono le svariate tematiche e deviazioni narrativi proposte nel film.
Innanzitutto il cineasta nativo di Gochang ci tiene subito a mostrarci la nuova Gangpeh (mafia) coreana laddove le battaglie tra gang -per quanto presenti- lasciano il posto ad intrallazzi politici ed imprenditoriali; nella parte centrale del film si parla di un importante progetto di sviluppo urbanistico ed il Presidente Hwang (il grande capo) vuole metterci le mani sopra e non lasciarselo scappare.
 
Questo è il pretesto per descrivere ed analizzare un serio problema che negli ultimi 10/15 anni ha interessato diversi paesi asiatici, ossia la riqualificazione urbana laddove quartieri periferici sono stati trasformati in zone di lusso ma il tutto a scapito dei precedenti abitanti sbattuti fuori a calci e nel film lo si intuisce bene.
I cittadini hanno intuito che la zona verrà riqualificata quindi non vogliono vendere ma ecco che intervengono gli uomini di Hwang, capitanati dal nostro Byung-doo, che mediante minacce, violenze ed intimidazioni ottengono i terreni a prezzi stracciati.
 
Continuando sul versante critico-sociale troviamo poi una polizia assente, politici corrotti che si atteggiano a gangster e soprattutto un attacco frontale al sistema capitalista che spinge il singolo cittadino a trasformarsi in uno squalo, pena “l’affondamento”.
Nel film tutti tradiscono per denaro e singoli interessi, lo stesso protagonista è consapevole di essersi trasformato in un mostro ma per denaro questo e altro: lui odia fare il gangster e vorrebbe realmente cambiare vita ma non ha i mezzi per sopravvivere e dunque si abbandona alla violenza e alla criminalità pagandone le conseguenze.
Geniale poi l’elemento meta-cinematografico che fonde finzione e “verità” proponendo diverse letture meta-testuali.
 
Un amico del protagonista è un regista in erba che sogna di realizzare il suo primo crime-movie e vorrebbe intervistarlo insieme alla sua gang in modo tale da restituire autenticità al film (cosa che farà fin troppo bene). Ad un certo punto ci riesce (non posso dirvi molto poiché è uno snodo narrativo importante) ed inizia la produzione e lo vediamo impegnato nel dirigere una scena di lotta, lui non è soddisfatto in quanto manca di realisticità, aspetto confermato dal protagonista peccato però che lo stile di lotta sia proprio quello del protagonista.
 
Segmento fine ed autoironico che si collega alla violenza prosaica ma altamente realistica e brutale del film.
Yoo Ha a tal proposito realizza una delle scene di lotta più importanti del moderno crime movie coreano, una scena assai complessa tale da essere presa come modello “coreano”; una scena che presenta una serie di divisioni interne poiché il protagonista combatte selvaggiamente ed un po’ goffamente esibendosi con mosse di kung fu (omaggio del regista a Bruce Lee) per poi di botto cambiare stile ed estrarre il coltello entrando in vortice di violenza insensata e brutale.
 
Andando nel dettaglio mi sto riferendo alla leggendaria scena del sottopassaggio cosparso di fango e polvere.
La scena è clamorosa poiché il numero di soggetti impegnati a combattere è altissimo e spesso il regista ricorre a campi d’insieme, dosando con il contagocce i piani ravvicinati (di solito i suoi colleghi fanno l’opposto), con l’inquadratura zeppa di personaggi intenti a darsi mazzate e coltellate. Tecnicamente parlando troviamo tanti fugaci long take con inquadrature frontali e panoramiche a schiaffi oppure carrellate laterali con camera bassa o ancora campi medi con la macchina da presa in posizione leggermente sopraelevata rispetto ai soggetti. L’impatto visivo è sublime.
 
Ritornando sull’aspetto narrativo è interessante l’attenzione dei vari soggetti circa la volontà di trovare uno sponsor, ormai fare il mafioso è un lavoro come un altro quindi le referenze contano eccome.
 
Niente, ci sarebbero altre sequenze che meriterebbero attenzione (penso alla morte della spalla destra del primo capo del protagonista, ucciso dagli stessi uomini del protagonista e messo in scena con un campo totale in esterno con camera fissa + fuori campo interno -viene ucciso in macchina- e tante altre ancora..) però mi fermo qui e vi invito caldamente a recuperare questo pezzo di storia del cinema coreano…
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