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Cosa si vede nel buio?
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Si chiamava Hans, se non ricordo male. Era un austriaco, un po’ panzone, molto simpatico. Era fidanzato a una ragazza che conoscevo, vent’anni fa o più. Aveva messo la mani, non so come, su un archivio di vecchie registrazioni di grandi cantanti di opera del passato: cose molto vecchie, del periodo tra le due guerre. Le digitalizzava, le ripuliva, equalizzandole e riportandole alla vita. Poi stampava dei CD in tiratura limitatissima - alcune centinaia di copie - facendo tutto da solo, persino la grafica delle copertine) e le vendeva agli appassionati di lirica. Questo era il suo lavoro. E una volta mi spiegò che quelle voci non avevano pari nel mondo di oggi. Perché ai tempi la lirica chiamava molto pubblico e il bacino di aspiranti cantanti che si avvicinavano a quel tipo di vocalità era molto più vasto. È ovviamente comprensibile che - pescando da una grande selezione - la competizione fosse molto più accesa ed emergessero molti più talenti.

 

Gino invece è un nome di fantasia: il suo vero nome non lo dico perché qui non serve e forse non vorrebbe sentirsi ritratto così, visto che nel suo circuito ha una fama internazionale. Lo conobbi a un suo spettacolo, tenuto in un piccolo, ma davvero piccolo teatro ex-parrocchiale. Era ospite a casa di un mio amico, perché i soldi ricavati da quella tournee non sarebbero mai bastati per pagare anche un albergo. E meno male che esiste una rete di amicizie. Allo spettacolo eravamo credo una quindicina di spettatori in tutto. Fu una delle cose più belle e poetiche e sorprendenti che avevo mai visto. Ma io non sono un grande esperto di danza contemporanea: teatro danza per la precisione. Ne conservo un ricordo fatato.

 

Ero andato a trovare Peter a Londra. Si era trasferito lì per stare vicino a suo figlio e viveva in una delle ultime comuni operaie e solidali: nata negli anni ’70 oggi chiusa. Mi portò al Red Rose Pub: uno storico pub laburista di periferia che sul retro aveva un vero e proprio teatro Oggi è chiuso: era un posto davvero incredibile. Suonava la London Improvisation Orchestra: c’era molta più gente sul palco che in platea. Spettacolo fragoroso ed entusiasmante. Il giorno dopo andammo in un posto stranissimo, sul Tamigi: non ho mai capito cosa fosse ma era una costruzione in mattoni rossi e dentro c’erano tanti tubi e strani serbatoi. In mezzo a quei tubi quella sera suonava Evan Parker, che è uno che con il sassofono fa una delle cose più strabilianti che abbia mai sentito fare a un musicista, ma che ora non ho il tempo di descrivervi. Eravamo pochissimi e scoprii con mia sorpresa che Evan Parker ero lo stesso sassofonista che suonava con la London Improvisation Orchestra e che quindi lo avevo già visto e ascoltato la sera precedente: non conoscendolo di faccia non avevo collegato. Alla fine del concerto, che potei godere da non più di due metri dalla campana del suo sax, si avvicinò e mi salutò, perché mi aveva riconosciuto dalla sera precedente.

 

Ieri sera sono andato al cinema. Se andate al cinema nelle sere infrasettimanali a vedere un film che non sia un blockbuster, lo sapete come è. E vi confesso una cosa: mi sono tolto la mascherina. Perché tenerla addosso sarebbe stato semplicemente ridicolo. Avrei potuto anche denudarmi e non se ne sarebbe accorto nessuno, visto che non c’era nessuno.

 

 

E mentre guardavo il film mi sono venuti in mente questi tre episodi della mia vita, che ora sono diventati quattro. Parlando con un amico, giorni fa, commentavamo come in fondo ogni periodo della storia sia stato speciale, o almeno lo sia sembrato a chi lo stava vivendo. Ma mai in nessun periodo come questo si ha avuto la sensazione che l’arte - qualsiasi arte - fosse arrivata a un punto minimo. Tuttavia credo nella natura ondulatoria della realtà e penso sempre che arrivino cose imprevedibili e che al buio seguirà sempre una luce. Però diamine, da qui, nel buio proprio non si vede nulla.

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