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È la coppia che fa il totale: Ornella Sgroi e il cinema di Ficarra e Picone - Intervista esclusiva
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Salvo Ficarra e Valentino Picone hanno saputo con gli anni gestire la loro comicità in maniera sapiente. Limitando le loro apparizioni televisive alla sola conduzione di Striscia la notizia, hanno potuto dedicarsi al cinema, loro grande passione, e trasformarlo nel mezzo che maggiormente riflette il loro estro creativo. Con all’attivo sette film, hanno fatto sì che si creasse un corpus unico nel suo genere, un’opera che offre un livello di lettura trasversale che la giornalista, critica cinematografica e scrittrice Ornella Sgroi ha saputo ben cogliere e argomentare in È la coppia che fa il totale. Dedicato al cinema di Ficarra e Picone, il volume rappresenta una piccola novità nell’universo della saggistica cinematografica: lungi dall’essere un trattato indiscutibile e barboso su come il duo declina la commedia all’italiana, è una spassosa disamina di un cinema che affonda le sue radici in modelli aulici per restituirli alla portata di qualunque spettatore. Non è un caso che torni spesso tra le pagine il nome di Sergio Leone, eletto quasi a nume tutelare della coppia. Come sottolinea Roberto Andò tra le pagine della prefazione, “Ficarra e Picone sono due esempi unici nel nostro cinema […], due autori che hanno saputo dedicare uno sguardo profondo e originale alla politica, al costume e alla società italiani”.

Suddividendo l’opera in sette capitoli, tanti quanti i film della coppia, Sgroi ripercorre il percorso filmico di Ficarra e Picone partendo da Nati stanchi per arrivare fino a Il primo Natale. Campione di incassi del Natale 2019 che tanta fortuna ha avuto anche all’estero, invadendo i mercati di Russia, Germania e Spagna,  Il primo Natale rappresenta per certi versi il coronamento delle teorie che la stessa Sgroi ha discusso, argomentato e sviscerato con i due attori e registi: curiosamente, come la scrittrice ci racconta, la lavorazione del film è cominciata qualche tempo dopo la prima stesura del suo libro: è un po’ come se pratica e teoria si fossero sposati e avessero cementato la perfetta unione tra l’occhio critico di Sgroi e il cinema di Ficarra e Picone.

Con la sua scrittura fluida e, grazie a Dio, comprensibile, Sgroi evita la lezione accademica ed entra in sintonia con Ficarra e Picone divenendo voce critica della loro goliardia, mostrando come lavorare a una commedia sia molto più difficile che lavorare a un dramma: non è un luogo comune quello per cui far ridere è più difficile che far piangere. Con l’inserto di pagine di sceneggiature, interventi dei collaboratori di Ficarra e Picone, ordini del giorno e dialoghi mai scontati, Sgroi procede spedita con l’analisi sia semantica sia strutturale delle opere, rendendo il lettore partecipe di un viaggio utile a capire come spesso si sottovaluti la fatica di un lavoro giudicato troppo in fretta. Ed occorre anche oggi ricordare che fare cinema o parlarne, oltre che una passione, è un lavoro, un duro lavoro.

Per chi volesse saperne di più su Ornella Sgroi, rimandiamo anche a un’intervista da noi realizzata anni fa e qui disponibile: Cinelavorando: Intervista a Ornella Sgroi.

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È inevitabile cominciare questa intervista senza chiederti un’opinione sull’attuale situazione. I cinema sono chiusi quasi da un anno e a risentirne è, ovviamente, l’intera filiera.

Siamo tutti pieni di punti interrogativi. Quello che mi preoccupa è il grado di resistenza delle sale cinematografiche. Temo che, quando si potrà ripartire, molte sale non riusciranno ad aprire per motivi economici. Gli esercenti stanno continuando a pagare gli affitti nonostante la chiusura e continuano a pagare le utenze. Arriveranno alla fine di questo percorso obbligato con poche risorse: o ci sarà un importante intervento di sostegno e aiuti o sarà durissima, con conseguenze su tutto il sistema.

Secondo te il pubblico tornerà nelle sale? Temo la disaffezione o la paura.

Voglio essere ottimista e pensare che il pubblico non vedrà l’ora di tornare in sala. Il CoVid-19, se ci si pensa, è arrivato in un grande momento di risultati di sala. Natale 2019 e i successivi gennaio e febbraio 2020 hanno fatto registrare dei numeri più che ottimi. C’erano buoni prodotti in giro e titoli italiani di richiamo: i cinema erano pieni e i numeri facevano ben sperare per il resto dell’anno. Capisco i timori legati alla riapertura lo scorso giugno: le notizie erano contrastanti e la gente aveva ancora troppa paura degli “assembramenti”. Mi auguro che nel frattempo si faccia strada la consapevolezza di quanto le sale siano sicure. Purtroppo, sono scenari imprevedibili quelli che ci attendono, gravati anche dalla sterzata netta verso le piattaforme online: una situazione difficile da riprendere se dovesse andare fuori dai binari. Se tutti cominciassero a ritenere più convenienti gli abbonamenti alle piattaforme, in quanti si recherebbero dopo in sala? Una famiglia composta ad esempio da 5 persone potrebbe ritenere più favorevole spendere 20 euro per un abbonamento annuale piuttosto che spendere il doppio per una sola andata al cinema. La scelta di molte distribuzioni di puntare per il momento sulle uscite in contemporanea non è secondo me molto lungimirante: va a colpire non solo l’esercente ma tutti coloro che gravitano, con ruoli differenti, nell’universo cinema. Personalmente, durante il lockdown ho avuto una sorta di lutto, un blocco psicologico che non mi ha fatto aprire nessuna piattaforma. Ho visto qualcosa di nuovo su Sky Primafila o RaiPlay e nient’altro. Non sono riuscita nemmeno a vedere una serie tv. La mia è quasi una resistenza a oltranza: mi sembrava un tradimento nei confronti della sala. L’ho vissuta malissimo… e mi sono rifugiata nei libri. Ho letto molto: una cosa che mi mancava a causa del tempo che richiede lo star dietro alle uscite cinematografiche.

Che per te rappresenta anche una sorta di ritorno alle origini. Prima di essere un critico cinematografico, hai cominciato a scrivere di libri per la terza pagina del quotidiano catanese La Sicilia. I libri, però, non li leggi soltanto ma li scrivi anche. Com’è che ti sei ritrovata dall’altro lato?

Ho sempre avuto il pallino della scrittura. Non ho mai perso la passione per la scrittura e, anche da giornalista, della bella scrittura. Ho una passione per le parole, mi appartengono proprio. Sono il mio strumento di contatto con il mondo ma anche con me stessa. La ricerca della parola giusta mi aiuta a connettermi meglio con me stessa: ti capita mai di sapere che esiste una parola per una determinata cosa, di cercartela in testa e di scartabellare un archivio di altre parole fino a quando non la trovi? Ne scarti anche decine che potrebbero andare bene ma non sono quella giusta. Quando finalmente la trovi, è come se tutto tornasse al proprio posto, come se un ordine supremo si compisse.

E nel tuo lavoro dedicato al cinema di Ficarra e Picone, È la coppia che fa il totale, tale passione per le parole è evidente. La mia copia dopo la lettura è piena di frasi sottolineate, post-it, freccette e quant’altro ancora, che mettono in evidenza frasi e concetti a cui rendere in qualche modo omaggio.

Sono felice di ciò: è come se il mio viaggio fosse condiviso. È una sensazione bellissima: il lettore dedica tempo al tuo lavoro e non puoi dimenticare che il tempo è preziosissimo. Vale sia per i film sia per i libri: sapere che uno spettatore o un lettore trovi nella tua opera qualcosa che gli appartiene è il regalo più bello che si possa fare a un autore.

 

Il grande pregio della tua scrittura è quello di essere comprensibile a tutti, dalla famosa casalinga di Voghera agli addetti ai lavori. Il libro, nello specifico, getta persino nuova luce sul lavoro cinematografico di Ficarra e Picone, spesso sottostimato perché non analizzato con gli strumenti giusti. Io stesso ho rivalutato certi loro lavori passati grazie alla tua prospettiva lucida e mai banale. Da dove nasce l’idea di dedicare a loro e non ad altri un intero volume? Tutto sommato qualcuno potrebbe obiettare che hanno fatto solo sette film.

Ficarra e Picone li conoscevo solo attraverso il loro lavoro a Zelig e al cinema. Li ho incontrati per la prima volta per l’uscita di Il 7 e l’8 e di nuovo, grazie a Giusina Battaglia (ufficio stampa dei Ficarra e Picone e volto sorridente di un’apprezzata trasmissione tv sulla cucina palermitana, ndr), per La matassa, girato a Catania, ma nel frattempo c’erano state altre cose che avevano attirato la mia attenzione, come le varie incursioni televisive o il monologo su don Pino Puglisi. Si trattava di elementi che mi spingevano a voler comprendere meglio il loro mondo. Li ho invitati in seguito a Catania a una rassegna che curavo sui mestieri del cinema fatta di incontri aperti al pubblico: avevano già girato Anche se è amore non si vede e per preparare l’intervista ho rivisto tutti i loro film, uno di seguito all’altro, nel giro di pochissimi giorni.

È stata in quell’occasione che mi si è accesa qualcosa, una sensazione che ho riprovato qualche tempo dopo invitandoli a un incontro simile a Enna, dove arrivavano con un film in più sulle spalle, Andiamo a quel paese.  Quest’ultimo mi aveva colpito particolarmente perché segna secondo me un passo in avanti, un upgrade, nel loro modo di fare cinema. Ho rivisto di nuovo tutti i loro film ed è scattata la scintilla definitiva: vedendo le loro opere al completo, a distanza di tempo ravvicinatissima, ho avuto una lettura trasversale di quello che era il loro racconto cinematografico e ho percepito come tutti i film, visti uno dopo l’altro, raccontassero una nuova storia, altra rispetto a quella delle singole storie. C’era un fil rouge che, seppur nella loro diversità, teneva insieme tutti i lavori: c’era una storia nelle storie ed era quella di questi due ragazzi che, venuti dal nulla, venuti dalla Sicilia, avevano un sogno, il cinema, e si stavano costruendo un percorso all’interno del loro sogno, rendendolo qualcosa di molto concreto e molto interessante.

È nata così l’idea del libro e ne ho parlato con loro (ho trovato il coraggio di farlo dopo mesi e mesi che mi frullava in testa!). All’inizio l’hanno presa, con la loro umiltà e la loro autenticità, con grandissima sorpresa perché si sono posti la tua stessa domanda: “Un libro sul nostro cinema? Siamo due comici, due giovani autori di cinema: perché vuoi fare un libro su di noi?”. Poi, dato che erano in partenza con il set per L’ora legale, mi hanno proposto di seguirli per qualche settimana durante le riprese e di vedere da vicino come lavorano. Se dopo averli visti all’opera, non avessi cambiato idea sull’ipotesi del libro potevamo riparlarne. Per me la condizione assoluta per il libro era che ci fossero loro: non volevo fare un libro in cui io, Ornella Sgroi, facevo un’analisi critica del loro cinema. Non era una cosa che sentivo nelle mie corde. Avrei scritto il libro solo se avessi avuto la certezza di avere loro con me. Sono una giornalista e come tale mi muove la curiosità: ero io la prima che voleva scoprire molte cose sul loro mondo.

 

La tua curiosità emerge dalle pagine del libro grazie a una conversazione sempre aperta con i due che definire comici è riduttivo, dal momento che non sono solo attori ma anche sceneggiatori, registi e produttori. Di capitolo in capitolo, sono sempre presenti, intervengono e non vanno mai via. Il dialogo è sempre sullo stesso piano: non c’è un maestro ma un continuo scambio, indice della fiducia che la coppia ha riposto in te e che tu hai risposto in loro. Non è un caso che poi sul set abbiano anche accolto un tuo timido suggerimento.

Era lontano sia da me sia da loro pretendere di insegnare qualcosa. Ci siamo scoperti strada facendo e abbiamo scoperto di essere mossi dalla stessa grande passione comune: il cinema. Divoriamo cinema di qualunque tipo, di qualsiasi genere e di qualsiasi autore. Era come se avessimo “entrambi” (ovviamente considero loro come un unicum) voluto vedere cosa sarebbe venuto fuori e cosa avremmo scoperto facendo questo viaggio insieme. Nessuno di poi poteva realmente immaginare ciò che alla fine è venuto fuori, il libro così com’è. È stata una sorpresa nella sorpresa. Il montatore Claudio Di Mauro, nel libro, racconta che ha conosciuto Ficarra e Picone quando erano solo due ragazzi pieni di curiosità: secondo me, è ancora così. E io mi rispecchio in questo loro modo di essere: anch’io mi sento di essere semplicemente una ragazza piena di curiosità, in particolare sul mondo del cinema. Per questo, nel libro, non potevo rinunciare all’aspetto giornalistico: ero piena di curiosità su di loro e volevo capire se quello che avevo visto esisteva davvero e se era in qualche modo dimostrabile. Da un punto di vista professionale e umano per me la controprova è riuscita pienamente: ho trovato conferma a tutto quel sentore che mi ero portata dietro e a quel sentire che mi si era acceso. Ma anche alla loro autenticità di artisti, di comici, di autori e di persone.

Con una battuta, potremmo dire che il libro è stato il tuo “momento albero”, definizione che solo chi conosce il cinema di Ficarra e Picone o ha letto il tuo lavoro può capire. Che siano loro dei divoratori di cinema lo si deduce anche dalle pagine dello stesso: citano spesso ad esempio Sergio Leone e il suo C’era una volta in America e ciò la dice lunga sul loro modus operandi.

Sono due persone di una precisione unica. Hanno una necessità di strutturazione nel fare le cose che è fuori dall’ordinario. Non c’è niente di lasciato al caso o buttato lì perché tanto si deve fare. Così come, e lo dico anche nel libro, non si abbandonano mai alla consolazione o al conforto dell’essere Ficarra e Picone. Per loro ogni progetto equivale all’alzare l’asticella, al mettersi in discussione e alla prova, al confermarsi ma anche al rinnovarsi. I primi a non volersi annoiare sono loro. Per quella curiosità di cui parlavo prima, hanno un bisogno costante di modificarsi per rimanere sempre più solidi nella loro strutturazione di base. Il citare Sergio Leone fa capire dove affonda la formazione del loro immaginario, profondamente cinematografico. Sono divoratori onnivori di cinema. Il loro immaginario si è sviluppato nel tempo, sulla base di tutto quel cinema bellissimo che loro hanno visto e su molti meravigliosi comici che erano molto altro rispetto al comico fine a se stesso, come Charlie Chaplin, Buster Keaton, Jack Lemmon e Walter Matthau, tutti attori che sanno cosa è il comico ma hanno un’idea di comicità che è molto diversa da quella banalizzante a cui si è arrivati oggi. Nella comicità di oggi spesso, non sempre,  manca il racconto: è unicamente fine a se stessa e racconta poco. Quando alla comicità togli la narrazione, questa diventa solo una gag che finisce lì. Dignitosissima, per carità, ma non adatta al cinema: il cinema ha bisogno di narrazione. Se quella capacità di narrazione non è insita nella tua comicità, al cinema non puoi arrivarci… non è la tua strada, non è il tuo linguaggio. Si piegherebbe il cinema a una comicità stretta e non al servizio della narrazione.

 

Il cinema di Ficarra e Picone, come ben si evidenzia anche nel tuo lavoro, si muove quasi per cerchi concentrici, dal personale di Nati stanchi si è arrivati al sociale di Il primo Natale, come se avessero pian piano allargato il loro campo di riflessione. Unica eccezione nel loro percorso è Anche se è amore non si vede, un film girato lontano dalla loro terra e quasi per intero in ambienti chiusi.

Come scrivo nel libro Anche se è amore non si vede, a mio avviso, è il titolo più fragile di questa prima parte del loro percorso. Io lo definisco come un “intermezzo” tra un primo e un secondo tempo. Questo non vuol dire che non mi faccia ridere ma è uno spartiacque. Quelli che per molti sono dei difetti, ad esempio le molte scene in interni, custodiscono segreti di lavorazione e difficoltà con cui i due hanno dovuto fare i conti. Perché è stato girato in interni? Nello scrivere il libro, ho scoperto che, girando per la prima volta lontano dalla Sicilia, i ragazzi non conoscevano il clima di Torino e si sono ritrovati a dover riscrivere intere scene perché pioveva talmente tanto da non poter girare le sequenze che avevano programmato in esterna. Ciò spiega in qualche modo l’anomalia del film, girato lontano dai contesti a cui erano abituati, con un clima che non conoscevano e con l’urgenza di cambiare in corsa quanto pensato diversamente. Capita anche con gli autori più grandi di chiedersi come mai abbiano girato film che non sembrano nemmeno realizzati da loro. Quel come mai nasconde inevitabilmente risposte e motivazioni più concrete. La curiosità, anche in questo caso, mi ha portato a voler indagare cosa vi fosse dietro a ciò che non è andato per il verso giusto.

Il tuo libro introduce capitolo per capitolo estratti delle sceneggiature, offrendo a un lettore non addetto ai lavori uno strumento non facilmente accessibile. In questo modo, hai la possibilità di far notare come dietro a scene che nel copione occupano poche righe ci sia dietro un lavoro immenso in fase di realizzazione. In molti spesso non hanno idea di quanta fatica ci sia dietro.

Mi piaceva molto l’idea di accompagnare il lettore alla scoperta del cinema e, quindi, nel dietro le quinte della creatività cinematografica, dal momento creativo a quello della realizzazione, perché si tratta di un mondo pressoché sconosciuto. Mi piaceva condividere la scoperta di questo universo con il lettore non avvezzo al mondo del cinema. Spiegare come si fa il cinema e farlo attraverso la leggerezza, comunque così piena di senso e di racconto, di Ficarra e Picone mi è sembrato il modo più piacevole e gradevole che conoscessi per portare lo spettatore fuori dal cinema e portarlo dentro il set e la produzione.

Anche perché, non so se a te capita, viviamo sulla nostra pelle il luogo comune per cui questo ambiente sia solo divertimento. Da giornalisti, quando partiamo per un festival o per altri impegni professionali, ci sentiamo augurare “Buon viaggio e buon divertimento”. Mai nessuno che ci dica “Buon lavoro”. Nessuno sa o immagina quanto faticoso possa essere il nostro lavoro o l’impegno che ci richiede. Partire per coprire la Mostra del Cinema di Venezia, ad esempio, significa dormire cinque ore o ancora meno, mangiare una volta al giorno e anche male, produrre costantemente adrenalina per andare avanti e accumulare una stanchezza stratosferica. Anche se per una cosa che ci piace da morire e che è bellissima, ci vengono richiesti fatica, impegno, studio, preparazione, coscienza, senso critico, messa in gioco e messa in discussione. È un lavoro a tutti gli effetti, così come lo è fare cinema. Per il mondo “ordinario”, invece, fare cinema è un gioco. Ci tenevo che passasse l’idea di quanto complessa sia la macchina cinematografica. E diventa ancora più difficile fare cinema quando devi fare ridere: far piangere è più facile di far ridere.

E per capirlo basta vedere l’ordine del giorno di L’ora legale che pubblichi in due pagine del tuo libro, un documento che rende evidente quante persone sono chiamate a lavorare a una scena e quante difficoltà anche logistiche vi siano dietro.

Ficarra e Picone sono stati generosissimi nell’autorizzarmi a pubblicare il materiale. Non era così scontato come sembra: in tanti, al loro posto, avrebbero detto no per paura di svelare troppo. Hanno capito il senso del mio viaggio e ci si sono buttati con grande generosità. Di questo gliene sono grata. Consapevole di quanto fossero forti Ficarra e Picone, ero consapevole di partire con un handicap nel parlare di loro: avevo il dubbio di non far trapelare la loro comicità, la risata o la leggerezza che potesse star dietro a ogni loro intervento o battuta. Questo aspetto in fase di scrittura mi ha messo in difficoltà: cercavo il modo per poter restituire la loro forza comica nel raccontarli. Diverse volte mi son detta di essermi imbarcata in un’impresa se non impossibile quanto mai azzardata. Fortunatamente, chi oggi legge il libro mi dice di ritrovarvi i due, avendo quasi l’impressione di sentirli parlare, o di ridere nel leggere il loro scambio di battute. Se così è, non può che farmi piacere: è la sfida maggiore con cui mi sono dovuta cimentare quando ho cominciato a scrivere.

Confermo, da una posizione privilegiata, la sensazione. È come se fossero presenti e costantemente davanti al lettore. Così come confermo che È la coppia che fa il totale è un libro per tutti e non per i soli addetti ai lavori. Ci si rilassa nel leggerlo e anche i non fan della coppia possono apprezzarlo. Possono leggerlo chi non ha mai visto un film della coppia così come tutti coloro che li hanno visto. Questi ultimi possono scoprire cose del tutto inedite o impensabili, cambiando anche punto di vista critico. È capitato anche a me, ad esempio, di scoprire un elemento che non avevo mai notato: la presenza in quasi tutti i loro lavori della figura di un prete.

Si tratta di un aspetto che mi ha fatto molto ridere. Avevo già tutta una mia teoria sui preti dei loro film ed è stata una bella conferma  sapere da loro che anche Il primo Natale, entrato in lavorazione quando già era pronta una prima stesura del libro (poi ovviamente allargato anche a quest’ultimo film), avrebbe avuto un sacerdote nella storia e che ne sarebbe stato il protagonista. Ritrovare Picone nei panni di un prete è stata la ciliegina sulla torta! Gli avrei dato un bacio in fronte: era la dimostrazione concreta di quanto sostenevo tra le pagine, il mio teorema aveva trovato la sua conferma!

 

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Pietro Cerniglia

2020 - Mondadori Media S.p.A. 

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