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La morte è solo… essere molto diversi da quello che si è ora… In morte di Kim Ki Duk
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Kim Ki-duk

Il prigioniero coreano (2016): Kim Ki-duk

Meditazione sulla morte svolta anni fa dal regista, una riflessione dolorosa e presaga:

“…per me la morte era una porta mistica su un altro mondo. Ho però capito che la morte può essere un crimine che infrange i sogni di una persona…non si può considerare una forma di speranza…la morte è bianco che diventa nero, semplice. Si scrivono libri, poesie sulla morte, la si elabora, ma la morte è come una scogliera, una porta che si chiude, una luce che si spegne.

La morte è solo…essere molto diversi da quello che si è ora…”

 Non erano il successo e il denaro a renderlo felice, era il poter girare film dicendo così quello che aveva da dire.

Avete mai veramente guardato le vite che mostro nei miei film? Avete mai visto sul serio il grido disperato che c'é nei miei lavori?" era un urlo che la bellezza sublime delle sue storie, dei suoi eroi, dei suoi colori non riusciva a non far sentire.

 E poi venne una sorta di autopunizione, nel 2008, tre anni di volontario eremitaggio raccontati in Arirang, un colloquio continuo, spesso brutale, con sé stesso.

“Ti piace? dimmelo. Vivere in una baracca così fredda da  doverci mettere una tenda? Bere per tutto il giorno in questo modo?

Che cosa sei? un cane? mangi nella ciotola di un cane…

Dimmelo, bastardo…

In molti aspettano i tuoi film, bamboccio!

Tre anni in una catapecchia fuori città, nella  sterpaglia, in mezzo alle pietre.

Un incidente sul set di Dream stava costando la vita all’attrice e  Kim accorse con la scala salvandola da sicura morte per impiccagione.

Ma poi senti che doveva fermarsi, non andava avanti.

E fu un lunga seduta di autocoscienza,  un “conosci te stesso”, un parlarsi come allo specchio:

“…le persone non riescono a stare insieme a lungo, perché ognuno ha i propri sogni, nessuno mette l’amicizia prima di queste cose…Ti senti ferito perché loro erano come una famiglia per te, Non si può continuare a mangiare sempre la stessa cosa, adoro i contorni, questa è la vita, l’hai detto in molti tuoi film, ma non stai vivendo come nei tuoi film. Non sei deciso e risoluto come i personaggi che hai creato…Nei tuoi film ci sono personaggi forti come animali selvaggi, ma perché tu sei così ingenuo?”

 Perchè, sembra rispondersi:

" Ero solo, non pensavo mai di ottenere il rispetto della gente e poi sono diventato un cosiddetto regista di fama mondiale…fare film era un lavoro felice, ma improvvisamente è stato come essere colpiti da un martello.

Sono stato traumatizzato durante le riprese di un film e poi alcune persone mi hanno fatto del male.

Le persone sono terrificanti. Ho donato loro il mio cuore, mi hanno pugnalato al cuore, e così ho perso la fiducia…"

Si torna così a Crocodile, il suo primo film, 1996.

Un eroe bello, forte e rabbioso, con addosso scaglie di melma e corazza pesante, impigliato come tanti Coccodrilli sotto ponti senza speranza di Seul, città dura, straniante, rifiuti umani a cui l’acqua, elemento centrale in tutto il cinema di Kim, offre l’unico rifugio possibile, una placenta in cui riavvolgersi in un definitivo cupio dissolvi.

Questo cineasta anomalo, con una storia alle spalle che sembra il manuale del perfetto déraciné, ragazzotto montanaro dispettoso e violento, operaio in fabbrica e sottufficiale nell’esercito per cinque anni, predicatore buddista e pittore  nei bistrots parigini, che proclama "il frutto del lavoro manuale l' unica cosa che abbia valore e la cultura un lusso", privo di formazione cinematografica e con problemi di ortografia, un bel giorno cominciò a scrivere la sua vita usando il cinema, con un progetto in cui ogni film è una sequenza della propria storia.

Ora che la morte vera l’ha afferrato per sempre vogliamo ricordarlo con quello che diceva del suo cinema, e dunque della sua vita:

 "Un processo per trasformare la propria difficoltà a capire in una possibilità di comprendere".

 

 

 

 

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