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La leggenda dei lucenti temerari, un libro dalle magiche atmosfere cinematografiche
di 79DetectiveNoir
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Mank (2020): locandina

 

In tempi bui di Covid-19, un uomo vuole donarvi speranza. Non imbronciatevi e non imbarcatevi, neppure imbrancatevi in gente di pessima risma. Datevi a una lettura mai letta, mai vista.

Ebbene, pochi giorni fa, disponibile all’acquisto in formato cartaceo ed eBook, è uscito il libro La leggenda dei lucenti temerari.

Il suo autore, peraltro autore di tale articolo, alla maniera forse di Kenneth Branagh, in occasione della presentazione del suo Frankenstein di Mary Shelley, pur disdegnando ogni egotismo e ogni forma autoreferenziale di esaltato narcisismo, vuole dichiararsi da sé in merito al succitato suo nuovo romanzo.

La leggenda dei lucenti temerari è un’incitante opera inneggiante al culto libertario, oltreché libraio, della bellezza esistenziale, snocciolata in una delirante, affascinante prosa stramba e a prima vista persino “farneticante”, in stream of consciuosness, incentrata sull’intrepida voglia di vivere lontani da schemi pragmatici, ottundenti lo stesso libero pensiero alla base d’ogni concetto di sana, variopinta, pindarica purezza e malsanamente contrario di democrazia e di sciolta, passionale vivacità ardente ed entusiasmante.

Edito dalla Kimerik Edizioni, La leggenda dei lucenti temerari è un libro sicuramente desueto nel panorama contemporaneo, la cui scrittura, certamente non per tutti i gusti, in quanto forse ostica e non adatta a chi cerca, forse legittimamente, una lettura facile, come si suol dire, da compiere sotto l’ombrellone, s’articola in una composita intelaiatura linguistica fuori dal comune e remota da ogni semplice, formale convenzione banale.

Estrapolandone qui la prefazione, che sotto vi mostreremo in forma integrale, è ovvio che, com’è intuibile fin da subito, La leggenda dei lucenti temerari si palesa come un libro fortemente agganciato ed ancorato ad un immaginario non soltanto prettamente letterario.

In quanto mistura narrativa di tantissimi elementi pop centrifugati a confluenza concentrica dello spirito fortemente cinematografico che lo sottende e che ne ispirò la sua spontanea, spero stimolante, vulcanica creazione.

Attingendo a reminiscenze scaturite da un’inesauribile, sì, inesausta e c’auguriamo esaustiva passione estatica per la Settima Arte più armonica, forse alta, La leggenda dei lucenti temerari brilla indubbiamente, a prescindere dal giudizio che a lettura semmai ultimata chiunque possa darne, di adamantina, illuminante vita propria.

Ecco la prefazione:

Strutturata come un vertiginoso flusso di coscienza, La leggenda dei lucenti temerari somiglia a un lungo sogno lucido, in cui si fondono citazioni cinematografiche e letterarie, ritratti di sensuali figure femminili, suggerite con poche pennellate vibranti e soffuse di un erotismo a tratti crudo e angosciato.

Il linguaggio si inerpica tra vocaboli ricercati e forme arcaiche per poi scivolare in picchiata verso un registro più colloquiale e brutale.

Al filo logico del discorso si privilegia la musicalità della frase, il giocare con le parole spezzandole, creandone di nuove o esasperandone il senso.

È un periodare irregolare e inafferrabile, che bombarda il lettore di immagini e lo trascina su una sorta di ottovolante emotivo.

Chi è il “lucente temerario”?

Non è semplice decifrarlo, a meno che non si accetti di essere travolti dalla voce narrante, che nel corso dell’opera sceglie diversi alter ego per farsi rappresentare, che si tratti del personaggio di un film o di un romanzo.

Una voce, quindi, multiforme ma al contempo sempre coerente con se stessa.

Emerge in modo prepotente un’invettiva nei confronti di un certo tipo di umanità, intrisa di valori borghesi e percepita come ipocrita e repressiva.

Il “lucente temerario” sembra essere consapevole della sua condizione di outsider, di freak, ma non ha nessuna intenzione di scendere a compromessi o di occultare la sua natura.

A un certo punto il narratore si definisce: «Solo, solissimo, eterno e non so dove».

La solitudine talvolta è una condizione inevitabile ed è palpabile anche negli intermezzi erotici, nei lunghi monologhi simili a lettere aperte che il narratore rivolge alle donne che ammira, desidera ma con le quali non sempre riesce a stabilire il “discorso amoroso” ideale.

«Che cos’è la vita se non un girarci attorno, negli orli folli e anche oscuri di amori smidollati?»

Lo slancio vitalistico, adolescenziale, verso il sesso è una sorta di antidoto a un modo di vivere che mette al primo posto il denaro, il successo, l’apparire e che non consente all’individuo di essere libero nella sua diversità.

Alle maschere imposte da una società che identifica l’individuo con la sua posizione lavorativa, il ruolo che gli è stato cucito addosso e non con la sua interiorità, si contrappone la maschera del personaggio cinematografico.

A volte è il guascone da film d’azione, altre volte una scheggia impazzita di una pellicola di Lynch, oppure un ibrido tra Rocky Balboa, il “perdente” animato da un fortissimo desiderio di riscatto, Dracula e il Cappellaio Matto.

A conclusione di questo percorso allucinato e onirico, il “lucente temerario” non è più solo, ha trovato altri individui che vivono la sua stessa sorte e l’io narrante solitario diventa un “Noi” e il monologo si fa proclama e manifesto di una condizione umana.

«Il vivere per piacerci, non per il “piacere” d’un clero ammansito».

Questo è, se non il fulcro, uno dei perni principali del loro pensiero.

Un inno alla libertà individuale, insomma: dionisiaco, enigmatico e tortuoso, ma non privo di un velo di crepuscolare tristezza.

 

 

di Stefano Falotico

 

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