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Masaaki Yuasa - dalla gavetta alla fondazione di Science Saru
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Quella che segue è la trascrizione di un podcast pubblicato su Spotify e Youtube:

 

Se il concetto di autorialità sembra essere più chiaro al grande pubblico quando si parla di lungometraggi anime, lo è meno quando si parla di serie anime. Tra i vari autori, solo uno mi ha preso a tal punto da volerne approfondire tutta la produzione, ed è Masaaki Yuasa. Vorrei quindi fare un sunto a grandi linee della sua carriera commentando in questo approfondimento la produzione che va dagli esordi alla fondazione del proprio studio di animazione, seguendo un ordine cronologico e non facendo spoiler di alcun tipo.

 

Innanzitutto, Masaaki Yuasa nasce nel 1965 a Fukuoka, città giapponese situata sulla costa settentrionale del’isola di Kyushu.

Comincia a muovere i suoi primi passi nel mondo dell’animazione dall’inizio degli anni 90’, partendo dall’animare qualche opening ed ending fino all’animare veri e propri episodi. Nel ’94 da semplice animatore ottiene il ruolo di direttore dell’animazione per un episodio di The Hakkenden. Nel ’97 ricopre lo stesso ruolo per un cortometraggio animato. Nel ’99 può vantare di essere l’artista incaricato dei key frame di “I miei vicini Yamada”, lungometraggio prodotto dallo Studio Ghibli e diretto da Isao Takahata.

 

I VAMPIRIANI

 

Ed è sempre nel ‘99 che ottiene il suo primo ruolo da regista, dirigendo un cortometraggio pilota di 18 minuti per la serie “I vampiriani”, che verrà poi sviluppata in ventisei episodi.  La serie parla di una famiglia di vampiri vegetariani (che hanno quindi rifiutato di cibarsi di essere umani) e di un bambino che finirà casualmente per intrecciare la sua vita alla loro. Quello che ci si aspetterebbe da un regista a cui viene data una prima possibilità è di attenersi al compitino, di soddisfare le richieste produttive per cercare di consolidare la sua carriera e di avere magari in futuro possibilità di sbizzarrirsi col suo ego artistico. Ma Yuasa stupisce tutti firmando fin da subito un episodio estremamente personale, a parte il character design che a tratti sembra influenzato da quello della Tatsunoko. L’episodio, a parte essere dotato di buone animazioni, riesce a racchiudere in 18 minuti un vero e proprio cortometraggio, dotato se vogliamo di un finale soddisfacente e rappresentativo della fantasia onirica e cinetica del regista. Ci sono spunti divertenti, scene rocambolesche e piccoli semi che germoglieranno poi nel successivo Kaiba, specialmente dal punto di vista dell’estetica.

 

CAT SOUP

 

Ma torniamo indietro di un anno: nel 1998 la mangaka Nekojiru muore suicida. Lo stesso anno le sue opere vengono trasposte in ventisette episodi da due minuti l’uno. Tre anni dopo esce invece, sempre con soggetto le sue opere, un cortometraggio della durata di mezz’ora e diretto da Tatsuo Sato. Ebbene, tra quelle di cui andremo a parlare questa è l’unica opera non diretta da Masaaki, ma è comunque importante dal momento che lo troviamo nel ruolo di padrino artistico, oltre che di sceneggiatore ma soprattutto di direttore delle animazioni. Nekojiru-so, conosciuto in occidente come Cat Soup, è un viaggio surreale, psichedelico e onirico, che unisce la regia di Sato con i personaggi di Nekojiru e le sue tematiche dark, tra cui il cannibalismo, la violenza, la malinconia e lo humour nero, unite alle animazioni e sprazzi di estetica di Yuasa. Molti gli spunti però, a partire dalla scena del tempo sospeso con tanto di balena intenta in un salto, utilizzata solo qualche anno prima da Shigeru Tamura, fino a macabri ecosistemi che ricordano il regista sperimentale Kuri Youji. Il corto parla del viaggio di un fratello alla ricerca di metà dell’anima di sua sorella. Tra le particolarità dell’opera, il suo essere praticamente muta, i pochi dialoghi avvengono infatti grazie a dei fumetti, contenenti le frasi stesse oppure ancora immagini e simboli.

 

MIND GAME

 

Il 2004 è l’anno della svolta. Yuasa dirige finalmente il suo primo lungometraggio intitolato Mind Game. E qui voglio fare una parentesi. La particolarita di Yuasa è che tutte le sue opere sono nel contempo personali ed eterogenee. Intendo che ad ogni sua opera sai che troverai la mano di Yuasa, ma sai anche che troverai qualcosa di completamente nuovo. Questo film tuttavia è un discorso a parte. Con Mind Game, che contiene spunti seminali per opere future come The Tatami Galaxy e Happy Machine, Yuasa sembra aver voluto animare un suo manifesto stilistico.

La cosa che colpisce di più è certamente lo stile grafico. L'autore utilizza diversi stili e tecniche, rendendo erroneamente quest'opera "troppo sperimentale" già per molti. E’ sì sbagliato dire il contrario, ma in molti confondono sperimentale con non-sense, mentre sono due cose molto differenti. Posso inoltre assicurarvi che Mind Game è più sperimentale per quanto riguarda la sceneggiatura piuttosto che per il comparto grafico. L'incipit del film è molto interessante. La telecamera, posandosi sullo schermo di un telefonino nei primi minuti di animazione, ci svela tramite un messaggio scritto in inglese il leitmotiv dell'opera.

 

[YOUR LIFE IS THE RESULT OF YOUR OWN DECISIONS]

 

Si parla di vita, ma si parla soprattutto di scelte e di libero arbitrio. Poi la svolta, due personaggi trasformano l'atmosfera in tarantiniana. Ancora dopo, una lunga sequenza action. Dopo ancora, scene oniriche. E così via, sembra quasi che Yuasa abbia voluto comprendere in questo manifesto stilistico tutti i generi esistenti, per dimostrare la sua poliedricità. Ma il risultato è solamente un calderone, che rovina lo spunto iniziale sfociando poi nella noia della seconda metà del film. Ci sono spunti interessanti - la morte, la vita, le scelte, il riscatto, il sovrannaturale -, ma sono troppi e gestiti male.

E dovendone trovare uno, Yuasa ha questo problema. Ha i mezzi e le capacità per creare opere memorabili, ma perde spesso il punto della situazione. E lo fa quasi spesso volontariamente (a voi decidere se ciò sia un aggravante o meno). Mind Game, quando applica la sua atmosfera romantica e pietosa all' "interpretazione a molti mondi", risulta interessante, ma soprattutto fa riflettere e commuovere. Purtroppo, a partire dalla parte action, si perde, deludendo le aspettative. Secondo me non è riempendo la testa dello spettatore di input visivi che lo si tiene occupato, bisogna anche creare una struttura coerente che renda l'opera memorabile nel tempo, se no ci si ritrova con innumerevoli scene dal forte impatto visivo e registico ma fini a loro stesse.

 

KEMONOZUME

 

Dopo due anni Yuasa ottiene la direzione della sua prima serie e ci dimostra che non solo sa adattarsi ad ogni atmosfera, ma che riesce soprattutto a valorizzarla e interpetarla in modo proprio.

 
["Per voi uccidere gli Shokujinki è un lavoro, per noi mangiare gli umani è un istinto."]

 

Kemonozume riprende Romeo e Giulietta, raccontando la storia d’amore tra un cacciatore di mostri, chiamati Shokujinji, e una shokujinji appunto. In Kemonozume gande importanza la ha la sessualità e il sesso. Queste caratteristiche rendono Kemonozume un'opera adulta, non tanto per la presenza del sesso in quanto tale, ma per il modo in cui viene rappresentato, nella semplicità realistica e passionale di due giovani innamorati. Gli stessi Shokujinji sono schiavi e simboli dell'istinto e dell'eccitazione sessuale.


Tra le opere di Yuasa è forse - insieme a Ping Pong - una delle meno sperimentali, comparto grafico a parte; stilisticamente personale ma privo di esagerazioni, sebbene siano presenti tutti gli spunti che verranno utilizzati nelle serie successive. Ed è anche uno degli anime con la trama più canonica (ma non per questo banale). Cos'è allora che rende Kemonozume speciale? Uno dei suoi più grandi punti di forza è il modo in cui l'opera unisce la realtà assurda con quella ordinaria, in modo semplice ma efficace: la condizione che vivono i nostri protagonisti si inserisce in modo assurdamente naturale e spontaneo nelle loro vita di tutti i giorni. O ancora come tutti i personaggi siano ben caratterizzati ed empatici a un livello stranamente differente dalle altre opere di Yuasa. 

Sebbene Kemonozume inizi a bomba, con una prima puntata con un incipit pulp e buone scene d'azione, il ritmo dopo qualche puntata comincia a calare, complici delle puntate sottotono che hanno anche ridotto notevolmente l'interesse per la visione delle puntate successive. Kemonozume non manca di colpi di scena, possiede delle scene memorabili e delle atmosfere uniche, ma gli manca qualcosa. Inoltre decide di cambiare le carte in tavola nel finale, dove il mix perfetto tra ordinario e straordinario perde il suo equilibrio lasciando pendere la bilancia a favore del surrealismo.

 

GENIUS PARTY

 

Nel 2007 esce Genius Party, una raccolta di sette cortometraggi prodotti dallo studio 4°C. Uno di questi, Happy Machine, è diretto da Yuasa. Questo corto è una metafora della vita, rappresentata in modo assurdo sullo stile di “Kiseichuu no Ichiya”, come era già accaduto in Cat Soup e come riaccadrà nella prima puntata del successivo Kaiba, che uscirà l’anno successivo.

 

KAIBA

 

Kaiba parla di una società distopica in cui i ricordi possono essere modificati e trasferiti di corpo in corpo. La prima puntata di Kaiba è tutto un dire. Un incipit misterioso, interessante e appassionante. Ci viene subito introdotto il protagonista, con il quale condividiamo il primo pensiero: dove ci troviamo? In una movimentata sequenza mozzafiato, assistiamo a una specie di assurda catena alimentare. In quel momento probabilmente il mio pensiero non era condiviso dal protagonista: wow, che figata! Purtroppo questa sequenza lascia subito il posto ad un'altra scena, più fiacca ed accompagnata da un’altrettanto fiacca e fastidiosa musichetta in loop da videogame. Scena che avrebbe lo scopo di introdurci alla straniante quotidianità di un mondo governato da nuova regole sociali ma che finisce solamente per annoiare. La musica in Kaiba ha alti e bassi, se in un momento ha vita propria ed è perfetta a dare enfasi alla scena, altre volte è inadatta e scontata. E per un'opera che fa delle atmosfere il suo forte è un punto a sfavore. E così il ritmo narrativo. Questo anime ha una potenza narrativa enorme e lo dimostra benissimo in svariate scene, ma dimostra anche dei picchi negativi in cui il ritmo si congela, e la prima puntata è rappresentativa in questo. Una cosa che mi è dispiaciuta di Kaiba è vederlo perdersi in troppe puntate (quasi) autoconclusive invece che in episodi che proseguissero la trama. Inoltre gli espedienti utilizzati per empatizzare con lo spettatore sono troppo sfacciati e si reiterano nel corso delle puntate. Kaiba è questo: una serie altalenante. Prendiamo per esempio la sperimentazione grafica, a volte sembra una scelta stilistica ben riuscita (il design pupazzoso dei personaggi cozza con la profondità delle atmosfere creando un effetto inquietante), a volte sembra semplice svogliatezza nel disegnare a animare qualcosa di decente (mi riferisco alla quinta puntata in particolare).

Kaiba è un capolavoro mancato, rovinato da un ritmo inefficace che rende confusionaria la visione. Il rapporto qualità-coinvolgimento è (relativamente) troppo basso, e sebbene Kaiba faccia le scarpe a moltissimi anime e sia qualitativamente superiore alla media generale di due spanne, la delusione per tutto il potenziale inespresso è troppa. Da vedere almeno due volte per apprezzarlo in pieno, anche per via di un eccessivo simbolismo che esplode in particolar modo nella puntata finale.

 

THE TATAMI GALAXY

 

Nel 2010 Yuasa comincia a picchiare duro. Se in Kaiba il regista cercava di farci empatizzare a forza, in Tatami Galaxy non si si denota la minima preoccupazione nel creare protagonisti empatici e simpatici. C'è Akashi ("la lei"), fredda e scortese con quelle sue risposte pungenti. C'è Ozu ("l'altro"), perfido di natura ma che paradossalmente risulta il più simpatico nella sua coerenza di doppiogiochista. Poi c'è Watashi (letteralmente "Io"), che però sfugge alla regola, risultando, nelle sue caratteristiche peggiori empatico con lo spettatore. Watashi, che non sa prendersi le sue colpe e responsabilità. Watashi, che incolpa la società, il sistema e il suo amico Ozu per la sua condizione esistenziale. Watashi, che nasce con mille aspettative e che cresce con altrettanti rimorsi. Watashi, l'ingrediente principale in quella grande ricetta che qualcuno potrebbe chiamare "morale".


La storia utilizza un trick molto semplice ma anche ben gestito. In ogni puntata il protagonista si ritroverà a poter intraprendere una differente strada, ma qualunque scelta egli faccia, la conclusione è sempre la stessa (secondo lui). Una commistione di destino, viaggi nel tempo e mondi paralleli. Fatto sta che, in questo effetto di déjà vu che colpirà lo spettatore in ogni puntata, ogni tanto dei tasselli nuovi andranno ad aggiungersi al puzzle. Tasselli che compongono il minimo comune denominatore di tutte le storie e che vanno a comporre la vera storia. Quella storia che privata di tutte le sue scorie risulta pura e immutabile, qualunque sia la scelta intrapresa. E questa storia non è immutabile in quanto tale, ma è immutabile in quanto il carattere di Watashi è tale: Watashi vive quello che la sua visione della vita gli permette. Quindi il messaggio finale è esattamente all'opposto rispetto al concetto di fato: il mondo che viviamo è una realtà egocentrica (non per niente il protagonista si chiama "Io") che cambia in base ai cambiamenti che vogliamo imporle. Aspettare che l'aiuto giunga da altri, come fa Watashi, è una perdita di tempo. L'anime tra una puntata e l'altra tratta anche diversi temi secondari, ma li sviluppa bene e si denota un certo lavoro di ricerca.

Tecnicamente l'anime è superiore alla media e originale in ogni suo aspetto. I monologhi serrati del protagonista. Il ritmo frenetico delle scene. La gestione dei colori e delle inquadrature. L'inserimento di foto e video reali. L'atmosfera che si respira. Le musiche piacevoli e adatte al contesto. In tutto e per tutto Tatami sa stupire. Ma ciò che è davvero più strano è il fatto che il lavoro registico compiuto da Yuasa è così naturale e spontaneo che tutte queste particolarità non risultano disturbanti, ma anzi. Le intuizioni sono molte e sono simpatiche (basti pensare che perfino il pene del protagonista ha voce attraverso un cowboy istintivo e irrazionale) se non proprio geniali.
E' però uno sbaglio idolatrare (soltanto) Yuasa, Tatami è Tatami perché gli animatori hanno saputo assecondare la pazzia visionaria del regista, perché il character designer ha saputo inserire il suo lavoro in maniera spontanea nell'anime e perché le musiche sono adatte e non invasive. Solo le sigle di apertura e chiusura non sono niente di che.

L'essere tratto da un libro lo rende un'opera pensata e sensata. Il suo essere ripetitivo non risulta quindi un mero esercizio di stile ma semplicemente una molla caricata puntata per puntata e pronta ad esplodere nel climax finale. The Tatami Galaxy è l'esempio di come un anime dovrebbe essere. I velocissimi monologhi del protagonista (la prima puntata è delirante) che rendono difficile godere appieno delle animazioni e la struttura stessa della trama renderebbero necessaria una seconda visione per dare un giudizio più oggettivo.

 

KICK-HEART

 

Nel 2013 Yuasa diventa in qualche modo pioniere, dirigendo il primo anime realizzato da un grande studio [Production I.G] ma finanziato quasi completamente dai fan tramite una campagna su Kickstarter. In particolare parliamo di Kick-Heart, un cortometraggio di una dozzina di minuti. La storia parla della particolare relazione sadomaso tra due wrestler chiamati Romeo e Giulietta (ripetendosi dopo Kemonozume quindi). Il corto non è memorabile ma sono pur sempre 12 minuti di animazione by Yuasa, quindi tutto di guadagnato per i fan. I rimandi più netti alle opere precedenti sono il character design, che si avvicina a quello di Kemonozume e la rappresentazione coreografata della sessualità, cosa che il regista aveva già fatto in una bellissima scena di Mind Game. Questo cortometraggio, che vanta anche la collaborazione di Mamoru Oshii, è stato perfino proiettato a Los Angeles per poter essere preso in considerazione dall’Academy, cosa che però non è successa.

 

PING PONG

 

Ebbene, "Ping Pong The Animation" è un prodotto atipico, snobbato da chi non ne apprezza i disegni e idolatrato da chi ama la sua regia. È difatti quest'ultima, insieme alla dimensione personale che si crea, la caratteristica principale di questo anime. La regia fa da padrona: l'uso intelligente dello split screen, la scelta delle inquadrature, delle angolazioni e dei tempi rendono la visione avvincente e gli incontri facili da seguire. Se poi contiamo che il tutto è unito ad un'animazione fluida raggiungiamo tecnicamente vette molto alte. Una particolarità di questo anime è di essere andato a recuperare addirittura un manga del 1996, purtroppo inedito, da cui riprende certi spunti registici e il character design, a giudicare da una veloce ricerca sul web. Ma questo non toglie meriti a Masaaki Yuasa, che il pubblico già conosce bene per le sue opere precedenti. L'utilizzo della computer grafica è intelligente e non fastidioso. Il character design è da molti ritenuto brutto per via del disegno, e anche i protagonisti non sono il massimo dell'appeal, con quattrocchi, capelli a scodella e personaggi un po' sfigatelli (ma dimenticatevi Peter Parker), tuttavia questo stile è personale e vi ci abituerete subito, e per dirla tutta, tutto questo dire sul disegno è un fermarsi alle apparenze, in quanto questo prodotto ha relativamente molto di più da offrire.

La seconda caratteristica è l'essersi creato una sua dimensione.  "Ping Pong"  da una parvenza di spokon per poi tralasciare non solo gli allenamenti ma anche gli incontri stessi. Si crea un roster di personaggi che non vengono caratterizzati come ci si aspetterebbe. La storia viene strozzata laddove un altro manga comincerebbe a entrare nel vivo e a dimostrare il suo potenziale. La trama presenta sì molti spunti ma risulta fin troppo lineare e priva di colpi di scena.  "Ping Pong"  sembra mancare in tutto ma è questo suo modo di fare che lo rende unico e lo identifica, diventando un'opera non certo memorabile ma divertente e godibile nella sua brevità.  "Ping Pong"  è un prodotto onesto (a partire dal titolo), riesce a svolgere il suo compito (cioè intrattenere), e come fosse una ciliegina sulla torta è sovrastato da una patina neanche troppo velata di crudo realismo, che contribuisce a dare più colore all'atmosfera generale dell'opera.

 

Sempre nel 2014 Yuasa è stato creditato per la regia di due episodi. Uno di questi è diretto per la serie di Shinichiro Watanabe, Space Dandy. Il secondo caso è peculiare, infatti si tratta dell’esordio del regista nell’animazione occidentale, lo troviamo infatti a dirigere un episodio di Adventure Time chiamato “Catena alimentare”. Tema che come abbiamo già visto era presente in altre opere come Happy Machine o Kaiba. Ed è proprio per questa occasione offertagli da Cartoon Network che Yuasa ha aperto nel febbraio del 2013 un suo proprio studio di animazione, che lo ha portato a collaborare con Netflix e a dirigere un nuovo lungometraggio a 13 anni di differenza dal primo.

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