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Essere vecchi, oggi
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«Vecchio

Diranno che sei vecchio

Con tutta quella forza che c’è in te

Vecchio

Quando non è finita, hai ancora tanta vita

E l’anima la grida e tu lo sai che c’è

 

Ma sei vecchio

Ti chiameranno vecchio

E tutta la rabbia viene su

Vecchio, sì

Con quello che hai da dire

Ma vali quattro lire, dovresti già morire

Tempo non ce n’è più

Non te ne danno più»

 

(Renato Zero, Spalle al muro

Testo di Mariella Nava)

 

E chissà quanti Umberto D ci sono, tra quelle masse di vecchi che in questi ultimi giorni ci siamo abituati a derubricare come vittime inevitabili e sacrificabili. Si fa presto a concludere, tra il rassicurante e il consolatorio, che la maggior parte dei morti dell’epidemia ha un’età sopra i 75 anni. Già, se uno ha vent’anni, fa sport, è sano come un pesce, ha le difese immunitarie che scoppiano di salute, perché mai dovrebbe preoccuparsi di una poco più che banale influenza, che falcia un manipolo di vecchierelli che “tanto sarebbero morti comunque”? Al pelo sullo stomaco non c’è mai limite, specie quando di tanto in tanto torna ad instaurarsi la legge della giungla, che pure s’annida sempre lì, in agguato, sotto gli strati di legislazioni umane depositatesi nei secoli. Fate un bel gesto, voi delle televisioni, che con questi chiari di luna, di programmi potete trasmetterne sempre di meno. Mandate in onda Umberto D, una di queste sere. E magari, in questa società che soffre più di tutto la malattia della fretta, quello sì un male incurabile; in questo mondo cane senza futuro né passato; in questo eterno presente che non aspetta nessuno e che corre veloce verso il nulla; e chissà che, pia illusione, quei numerelli percentuali non assumano tutto un altro aspetto. Poveracci che tirano la carretta per tutta la vita. Poveracci che vengono spremuti come limoni per quarant’anni senza il bene di una prospettiva felice o perlomeno decorosa; solo una palata di terra accompagnata da ipocrite parole di frettoloso cordoglio. Come se essere vecchi fosse una colpa, e non invece una condanna. Quante umiliazioni, quante porte sbattute in faccia, quanti bocconi amari masticati, quante bastonate travestite da cordialità, eppure quanta vitalità incontenibile in quei simulacri cadenti! Quanta dignità e quanta eloquenza in quei corpi malandati! Nel miracolo di un Umberto D che si allontana per il parco con il suo cagnolino, senza più una casa, senza più una persona amica al mondo, e che pure trova la forza di trascinarsi un altro giorno ancora, dopo essere stato sospinto a forza dall’intero mondo fra le braccia della morte, c’è tutto il senso dell’esistenza che abbiamo irrimediabilmente perduto, nella foga di misurare le nostre possibilità di sopravvivenza sulla pelle dei milioni di Umberto D dimenticati.

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