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L'Arte di Hiroyuki Kitakubo: cyberpunk tra distopia e realtà storica
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Negli anni Ottanta sono molti i giovani artisti che, trainati dall'entusiasmo planetario nei confronti della fantascienza robotica inventata in Giappone, cominciano a lavorare negli studios più importanti del Paese e farsi un nome nello spietato ambiente dell'animazione seriale. Hiroyuki Kitakubo è sicuramente uno degli animatori di punta di questo periodo, un chiaro esempio di alunno che, con alle spalle anni di esperienza sotto l'ala di due grandi maestri come Katsuhiro Otomo e Mamoru Oshii, ha saputo creare nel tempo una propria dimensione creativa e dirigere alcuni dei film d'animazione più interessanti del periodo 1987/2000. La carriera di Kitakubo ne definisce l'importanza: membro dello staff degli animatori di Lamù (compresi i due film di Oshii), RobotechSF Shinseki Lensman (primo film di Yoshiaki Kawajiri), Mobile Suite Gundam e Akira; regista, oltre che di tre film d'animazione, di due segmenti del film Robot Karnival, della serie Golden Boy e della prima mini-serie tratta da Le Bizzarre Avventure di JoJo (di cui è anche sceneggiatore). I tre film d'animazione che, tuttavia, lo portano ad essere considerato uno dei più importanti registi dell'animazione giapponese sono tre opere che, sia per forma sia per originalità, farebbero invidia a qualunque mestierante che adesso viene acclamato dalla miope critica occidentale (Mamoru HosodaHiromasa YonebayashiMakoto Shinkai).

In ordine cronologico sono disposti i tre medio-lungometraggi con Hiroyuki Kitakubo alla regia.

 

Buona lettura.

 

 

 

1987, Black Magic M-66

 

Il primo mediometraggio diretto da Hiroyuki Kitakubo è una piccola chicca per i fan più sfegatati di Masamune Shirow (Orion, Ghost In the Shell). Si tratta, infatti, del primo anime - targato seinen - tratto dalle opere del profeta del fumetto cyberpunk giapponese. Sia trama sia messa in scena hanno molti elementi da accreditare al capolavoro Terminator di James Cameron, tuttavia vi è una componente che incide in maniera indelebile questa opera nella storia dell'animazione giapponese: la protagonista Sybel. La poco ortodossa giornalista, che domina il film per carisma e bellezza, si presenta agli occhi dello spettatore con un nudo integrale mentre corre dalla doccia alla scrivania. Il suo impianto radar ha catpato dei segnali interessanti provenienti dalla foresta appena fuori città. Nel frattempo, un convoglio di militari è alla ricerca di due cyborg da combattimento fuggiti dalle proprie gabbie di isolamento. L'esercito deve scovarli prima che essi trovino loro, altrimenti sarà un massacro...

Black Magic M-66 non è pienamente riuscito a causa sia del minutaggio dell'opera, per cui sono condensati troppi avvenimenti che avrebbero meritato un maggior approfondimento, sia delle tecniche con cui sono stati realizzati montaggio e animazioni: key frame non sempre scorrevole, tagli netti in sequenza, ritmo che proprio sul finale decellera paurosamente. Sono, invece, da lodare le atmosfere che comunque riesce a plasmare un giovane Kitakubo il quale, anche se acerbo, dà prova di avere una padronanza quasi totale del genere thriller fantascientifico, rendendo gli interni claustofobici e le scene d'azione avvincenti per quanto possibile causa il montaggio impreciso.

 

Voto: **

 

- - - - -

 

 

♦1991, Roujin-Z

 

Katsuhiro Otomo è il maggiore e più visionario autore della corrente cyberpunk giapponese ed è uno dei pochi artisti che ha saputo rivoluzionare più campi dell'arte con la sua straordinaria poesia visiva. Successivamente al successo conseguito con il suo capolavoro assoluto Akira (1988), il genio di Hasama negli anni Novanta si è cimentato in una vasta produzione di opere in cui non sempre figura come regista. Roujin-Z, di cui Otomo è scrittore del soggetto, sceneggiatore e character designer, narra le vicende di un anziano che, utilizzato come cavia da un'imprudente azienda bio-medica governativa, incappa in una serie sempre più pericolosa di eventi che vedono il suo nuovo letto ultra moderno, creato appositamente per accudirlo nei suoi ultimi mesi di vita, distruggere Tokyo dopo aver preso coscienza di sé.

Il surrealismo e la commedia, caratteri da sempre presenti nelle opere di Otomo meno pretenziose ma altrettanto argute, definiscono una trama dai forti connotati sociali in cui sono trattati sia temi cari all'autore come, ad esempio, l'incoscienza dell'essere umano nel voler spingersi troppo oltre i propri limiti conoscitivi, la macchina che da artificio umano si ribella e diventa mezzo autonomo di distruzione di massa, ad altri più originali e formati da lineamenti politici diversi da quelli presenti in Akira: la riluttanza del popolo giapponese nei confronti degli anziani, considerati come un mero peso ingombrante in una società in continua espansione, l'incompetenza delle istituzioni, le quali non solo negano proprie responsabilità ma preferiscono agire sconsideratamente per salvarsi la faccia, siccome di dignità non ne è rimasta, e non per proteggere una popolazione che senza guida si affida al delirio per sopravvivere. Hiroyuki Kitakubo, ancora non esperto tecnicamente ma ugualmente provvisto di talento per l'arte della regia, dirige questa assurda orchestra di elementi umani e meccanici, organici e digitali, scolpendo un ritmo frenetico che toglie il fiato allo spettatore per tutta la durata del film. Il lungometraggio alterna sequenze e tempi di diverso approccio al genere fantascientifico: commedia quando si osservano le grottesche fughe del letto meccanico e gli strampalati discorsi dell'anziano, giallo e spionaggio quando la task force deve pedinare il robot impazzito, azione durante le tante sparatorie che avvengono in interi quartieri messi a ferro e fuoco dalle forze in campo. Roujin-Z, grazie alla regia di Kitakubo (che ne cura anche lo storyboard), acquista una lettura poliedrica della visione e mantiene sempre alto il proprio gradiente di coinvolgimento, mentre per via forse di un budget piuttosto ridotto, non risulta granché nella resa scenica complessiva dei tanti elementi inseriti nel film; pur avendo un ottimo potenziale visivo (e Satoshi Kon come art director), non si scosta da una realizzazione di media qualità seriale.

 

Voto: ***

 

- - - - -

 

 

2000, Blood: The Last Vampire

 

Tratto da un romanzo di Mamoru Oshii intitolato Kemonotachi no yoru (La notte delle bestie), Blood: The Last Vampire è il primo film d'animazione giapponese creato completamente in CGI, una sorta di Toy Story orientale. Questo mediometraggio - circa tre quarti d'ora di durata - narra, in sintesi, una missione sotto copertura che deve affrontare una ragazza vampiro di nome Saya nella base statunitense di Yotaka, in Giappone. Siamo a metà degli anni Sessanta, poco prima che cominci la guerra del Vietnam. Saya è l'ultimo vampiro originale rimasto sulla Terra e, per conto dell'agenzia segreta Red Shield, deve eliminare dei chiotteri rilevati nei pressi di una base militare. I chiotteri sono esseri umani che, dopo essere stati morsi e quindi infettati da un vampiro originale, sono divenuti anch'essi vampiri. Il film, partendo da questo incipit, prosegue seguendo le azioni di Saya, la quale, una volta infiltratasi nella scuola privata che si trova nella base statunitense, scopre che le creature sono proprio all'interno dell'istituto.

Il mediometraggio comincia con una delle scene più riuscite dal punto di vista registico dell'intera storia del cinema d'animazione: un'assassinio in metropolitana diretto magistralmente che, con l'ausilio di tecniche inusuali per un film animato (zoom, carrelli, brevi piani sequenza), genera una tensione palpabile durante tutta la sanguinosa sequenza. Le atmosfere del film sono tetre e oscure, con uno sguardo al gotico anche se radicate saldamente in un universo dark-fantasy dalle scenografie realistiche. Tutto l'apparato tecnico dell'opera, creato dalla Production I.G, si presenta di altissimo livello; una banco di prova per Innocence (2004) di Mamoru Oshii, dopo Wall•E (2008), il miglior film d'animazione di sempre dal punto di vista grafico. La durata del mediometraggio, tuttavia, limita la qualità di una sceneggiatura di Kenji Kamiyama pesantemente incompleta soprattutto nello sviluppo della trama e nella caratterizzazione dei personaggi. Il tema che il film affronta in maniera esaustiva proviene, infatti, dal soggetto originale: la questione imperialista degli Stati Uniti d'America in Giappone (molto cara a Oshii), la quale viene messa in scena sottoforma di sottomissione del popolo giapponese agli usi e costumi statunitensi. Si osserva un popolo culturalmente castrato, incatenato perché perdente, che non ha la minima voglia di riscattarsi. I sottotesti si possono trovare al di là della storia e dei personaggi principali, in quanto niente emerge dalle vicende che accadono ma tutto si può scorgere se si dà uno sguardo ai fondali, a cosa la camera non riprende in primo piano. La città di Yotaka sembra essere sospesa nel tempo, un paese fantasma in cui si nascondono creature aberranti e sangunarie. La protagonista stessa se ne accorge praticamente appena arrivata, quando immediatamente capisce che sia dentro sia fuori la scuola in cui deve indagare qualcosa decisamente non va. I demoni sono coloro che non si fanno mai vedere alla luce del sole.

 

Voto: ****

 

- - - - -

 

Si conclude il capitolo della rubrica Angolo Animazione su Hiroyuki Kitakubo, assoluto professionista dell'animazione fantascientifica ed unico artista che può vantare almeno una collaborazione con tutti e tre i maggiori esponenti della corrente cyberpunk giapponese: Masamune ShirowKatsuhiro OtomoMamoru Oshii.

 

Grazie per l'attenzione.

______________________________________

 

Monografie/Filmografie precedenti:

Hayao Miyazaki

Satoshi Kon

Isao Takahata

Wolfgang Reitherman

René Laloux

John Lasseter

Pete Docter

Keiichi Hara

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