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Zalone, Arbore e il (consapevole) luogocomunismo
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Può sembrare un paradosso, ma che la politica sia ormai ridotta a mero contenitore di vuoto chiacchiericcio e petizioni di principio che si autofagocitano è dimostrato dalla circostanza (apparentemente tautologica) che tutto si riduce alla politica, ai suoi apparati ed ai suoi stinti vessilli, e ad essa viene ricondotto. Anche un film, di quelli che sono fatti per mero intrattenimento e che non hanno da far risaltare alcun intento pedagogico o sociale (almeno in apparenza). Anche una canzone che è stata amo per i pesci dei boccaloni partitici, una canzone trailer che era ben strutturata operazione di marketing, lievemente inconsapevole ma diabolicamente tesa a dimostrare, con ampie e ben riposte aspettative di vittoria, la schizofrenia del potere italiano, intento a tirare acqua al mulino delle proprie convinzioni, e perciò incapace di una qualsiasi valutazione obiettiva. Lo hanno bistrattato da destra e da sinistra, Checco Zalone, gli hanno dato del comunista e del fascista, lo hanno eletto a proprio nemico, o a nemico del popolo e delle elite sovraniste, hanno fatto un caso politico di un film che è il solito, ineffabile, semplice all’apparenza ma più stratificato e scritto di quanto appaia, film di Checco Zalone. Il quale non è ovviamente di destra e nemmeno di sinistra. Non è un fascista e nemmeno un comunista. Semmai, ma lo vedremo meglio, è un luogocomunista. Zalone, ed in questo sta la sua genialità pur grezza, senza patine raffinate, all’acqua di rosa e di facile presa, è un intelligentissimo intercettatore dei gusti medi del pubblico, un moralista senza morale che imbraccia un kalashnikov e spara nel mucchio, facendo morti e feriti in qualsiasi settore che si sia improvvidamente dato un incasellamento preventivo. Zalone pare la versione moderna ed al profumo di burrata della teoria della relatività: non conosce verità e non vuole imporle, pratica la difficile arte del distacco nel momento stesso in cui si cala nelle cose con furore iconoclastico che lo accomuna ad un (consapevolissimo) elefante in cristalleria. Un qualunquista, certo, che non offre soluzioni e nemmeno le ricerca, il cui unico compito, la cui unica volontà è quella di far emergere la dissipatezza, la amoralità, la faciloneria di quegli stessi italiani che ridono con lui e probabilmente di loro stessi. Non siamo nel territorio della commedia all’italiana, proprio perché manca un po’ di cattiveria secca e realmente moraleggiante, siamo nel territorio della pochade fracassona e fescennina. Eppure Zalone è un qualunquista che si distingue dai veri qualunquisti perché sa di esserlo, anzi vuole esserlo, deve esserlo, la sua missione consistendo nel mettersi allo specchio e nel vedersi italiano, sfaccettato e inconcludente, declamatorio e buono d’animo, generoso e infingardo. E quindi Zalone non fa film qualunquisti, scrive film qualunquisti, la differenza è abbastanza evidente. Film che hanno soggetti deboli deboli e sceneggiature che vivono sui consueti colpi d’ala dei suoi rovesciamenti di senso, film che rischiano il giusto ma sanno parlare a chi vuole ascoltarli. Film che con la volgarità ostentata criticano la volgarità, film che non hanno bandiere politiche semplicemente perché ogni bandiera ha lo stesso respingente colore della mediocrità. Zalone che non sarà mai un Fellini né un Sorrentino, non conosce la malinconia delle cose e del tempo né il fascino poderoso e spiraliforme delle immagini, ma, naturalmente, non sarà mai un nemico del popolo (e degli immigrati come, ahimè, gran parte della insana intellighenzia di sinistra ha sostenuto) e nemmeno delle truppe cammellate salviniane (che, di contro, lo hanno eletto ad idolo in servizio permanente effettivo delle idee sovraniste). Tutto ridicolo, e Zalone avrà crassamente riso di loro, di noi, di tutti. Oltre che di se stesso.

 

 

Ma chi è allora Zalone, questo mistero buffo e irrisolvibile del cinema italiano? Un luogocomunista, si diceva. O meglio: uno che gioca con i luoghi comuni perché li conosce alla perfezione e ne ha i pensieri e le tasche piene e che, soprattutto, li rovescia portandoli al parossismo. Nulla è lasciato al caso, e la formula non è nemmeno inedita per quanto poco praticata: da dove nasce la risata se non dalla affermazione insistita del senso comune, e dunque dal suo rovesciamento subliminale? Con un ulteriore colpo di coda: la liberatoria presa per i fondelli del politically correct che Zalone legge, forse nemmeno a torto, come il più soffocante dei luoghi comuni. Gli omosessuali li chiamiamo gay? Ecco una canzone che fa strame della raffinatezza e gentilezza di ogni pensiero al riguardo. I pubblici impiegati sono lavativi e nullafacenti? Ecco l’italiano che vuole fare il lavoro del posto fisso perché, in effetti, non ha voglia di far niente. Gli immigrati sono brutti, sporchi e cattivi? Ecco lo straniero che tradisce, la donna che si prostituisce. Gli italiani lasciano annegare gli immigrati? Ecco l’italiano (brutto sporco e cattivo, nonché corrotto e corruttore) che, pur insegnando a galleggiare ai bambini di colore, si atteggia a Mussolini del XXI secolo. Luogocomunismo che va contro il luogo comune: questa è l’operazione che Zalone ha sempre tentato di portare a termine, con esiti contraddittori e probabilmente non memorabili (in quanto le sue opere non sono destinate ad entrare nelle cineteche) ma con una levità ed una coerenza di fondo (mai disgiunta da una certa scaltrezza imprenditoriale) che non possono esaurire l’analisi del suo cinema all’alzata di spalle dello snob. E poi Zalone ha padri nobili, in particolare uno. Un po’ più intellettuale e sfaccettato, sicuramente più eclettico e versatile, ma con la medesima voglia fanciullesca di infrangere gli schemi riproponendoli nella loro versione estrema. Renzo Arbore ha frequentato poco il cinema ma, quando lo ha fatto, ha prodotto opere sbrindellate e inconcludenti, colorate e gioiosamente volgari, doppiate indecorosamente e montate peggio, e che pure scatenavano l’ irrefrenabile meccanismo della risata, anche perché si avvalevano (diversamente da quelle di Zalone) di una schiera di caratteristi di lunare pregnanza (vogliamo parlare di un Benigni agli albori o degli incredibili camei di F.F.S.S.?) ma anche di una scrittura (come in Zalone, invece) fintamente sciatta e invece profondamente consapevole. Arbore giocava con il fuoco: la Chiesa cattolica, la religione, la eterna diatriba Nord/Sud. Ma riusciva a cavarsela con una serie di ben assestati sberleffi che non lasciavano scampo, piallavano le differenze e le prosopopee, riconducevano tutto sul terreno di una mediocrità consapevole ed esibita. L’orchestra del Pap’occhio, il manager maneggione ed ingenuo di F.F.S.S., Napoli e l’arte di arrangiarsi, Roma e il dolce far niente, Milano e la nebbia. Luoghi comuni di cui Arbore, come il suo moderno epigono, si appropriava e che faceva esplodere. Con, rispetto a Zalone, qualche invenzione linguistica in più (la napoletanite, il dialogo sui socialisti con il portiere della Rai) e con maggior gusto per l’immagine volutamente sgradevole o straniante (la nebbia di Milano, fatta anche e soprattutto di flatulenze, l’incredibile giubbotto color Ape Maia di Only You, il viso totalmente partenopeo di Lucia Canaria/Pietra Montecorvino) ma con la medesima volontà, a suo modo rivoluzionaria, di giocare con i pensieri diffusi e di ribaltarli dando ad essi la massima visibilità e la infinita coloritura dell’’intelligenza applicata al cazzeggio.

 

 

 

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