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TOY BOY (più toy che boy).
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Caliamo un velo pietoso sui cinque ragazzi giocattolo di cui non ci interessa nulla né esteticamente né eticamente – tant’è che sarebbe il caso di cominciare a dare un forte giro di vite a ruoli sociali disfunzionali come escort, toy boy, go-go boy e chiunque si guadagni palate di solti attraverso lo sfruttamento sessuale del proprio corpo – e concentriamoci sul prodotto seriale. Se non fosse per l’interpretazione e il personaggio di Pedro Casablanc e di Adelfa Calvo, la serie sarebbe insostenibile, noiosa e verbosa con l’aggravante del generalismo estremo della modulazione narrativa: punti morti, vicoli ciechi, depistaggi, false piste, colpi di scena improvvisi che tornano su se stessi in due minuti, ovvero plot twist così posticci e banali da risultare imbarazzanti, come molti altri aspetti delle serie tv spagnole, italiane e anche americane: il taglio telenovelico che abbruttisce e annacqua la trama thriller; la faida famigliare, un topico delle soap, che è un po’ il cancro delle serie televisive di qualsiasi genere perché alla fine è lì che si va sempre a parare, all’erba del vicino che è sempre più verde, alla pecunia, all’invidia sociale, temi cari purtroppo alle casalinghe disperate e ad altrettanti disperati uomini in carriera ormai devirilizzati dalle tendenze edoniste del XXI secolo. Insomma, per farla in breve, tutti elementi narrativi inutili che servono solo per prolungare la trama a dismisura per ben 13 episodi da 70 minuti l’uno. Un oltraggio all’intelligenza dello spettatore. Come oltraggiosa è l’iconografia escogitata per compiacere un pubblico culturalmente sprovveduto: una Costa del Sol lussuosa ed esclusiva, con intrattenimenti illeciti ed edonistici, macchine di lusso, ville spettacolari, famiglie ricchissime e corrette. Il pane per i poveri, insomma.

Di Toy Boy si può accettare e applaudire la prima parte del primo episodio, dove veniamo introdotti alla notte del crimine con tanto di scultorei corpi maschili lisci come statue di plastica, giocattoli, disinibiti e sfacciati nella loro sterile ricerca di sesso, feste e denaro. Un incipit antropologicamente interessante, che però non trova riflessioni successive, se non qua e là, telefonate, nei 13 episodi, dove i ragazzi ammettono di essere dei giocattoli e che con loro la gente vuole solo divertirsi, pagare e andare. Ma non c’è profondità né delle caratterizzazioni, né del taglio politico e sociale di questo ormai radicato fenomeno iperedonista del XXI secolo.

Paragonata a Instinto (Campos/Neira, 2019), la serie creata da César Benítez, Juan Carlos Cueto e Rocío Martínez è un insulto all’onestà intellettuale dello spettatore. Se però pensiamo che Instinto e Toy Boy sono serie tv nate per piattaforme molto diverse, la prima per Netflix e la seconda per Antena 3, allora forse Toy Boy ha ragione di essere così castrata, pudica, arrabattata narrativamente, di poche pretese contenutistiche, proprio per venire incontro al suo spettatore medio. Questo aspetto però non giustifica il prodotto finale, uno dei tanti, televisivi come cinematografici, che vogliono parlare della sessualità, della turba sessuale, della carne, dell’ossessione per il sesso e il corpo e di tutte le riflessioni culturali che le gravitano intorno, dalla body theory alla carnalità, la corporalità, la mascolinità, la virilità e così via.

Pubblicizzato come un thriller erotico, Toy Boy è tutt’altro. Interessante infatti la riflessione di Pere Solá Gimferrer su La Vanguardia (La antirecomendación, 2 ottobre 2019) quando parallelizza Toy Boy alla serie 50 sfumature di grigio: «I libri parlavano di una sessualità evidente ed esplicita, si descriveva il membro del sadico impresario e dopo gli spettatori si ritrovavano davanti a un film dove non c’era nemmeno un nudo frontale di Jamie Dornan. Con questo thriller erotico succedo lo stesso. Ci fanno vedere i ragazzoni correre sulla spiaggia, ce li mostrano nella doccia e perfino la mdp si sofferma sui loro pacchi e lo stesso succede con le donne. Però, quando i personaggi di Mosquera e Castaño si addentrano in una orgia VIP la mdp diventa timida. Si insinua che lì c’è molto sesso, ma nessuno si toglie l’intimo. Ci sono gemiti, ma la carne resta coperta».

Avvallo la riflessione di Solá Gimferrer perché è il centro di molte mie riflessioni sull’audiovisivo di oggi in cui molti prodotti che vogliono rappresentare la sessualità e tutte le riflessioni che le gravitano intorno, alla fine cedono davanti all’onestà intellettuale e alla banalizzazione della rappresentazione. Riflessioni, tra l’altro, che avrebbero anche una certa urgenza sociale visti i più recenti fenomeni voyeuristici e l’uso totalmente cambiato del corpo dopo l’avvento dei social media, per non parlare dei reati di cyberbullismo, sextorcion, happy slapping e umiliazioni varie che hanno per oggetto il corpo e la sua nudità. La decontestualizzazione di corpo, nudità e sesso li trasforma in armi di umiliazione, di molestia e crimine, invece che di ricerca del piacere, autodeterminazione, libertà e tutto ciò che può rimare con felicità. I media hanno il dovere di riflettere su queste tematiche e di non farlo castrando il tema centrale di una narrazione con giochetti da educande, ma con audacia e sprezzo.

L’importante è concludere il percorso con una riflessione e non con una accozzaglia di sterili immagini pseudo-erotiche. Anche per scongiurare l’effetto imitativo di molto giovani che credono che vendendo il proprio corpo e prostituendosi fisicamente o via online raggiungono l’apice della piramide sociale oltre che a gonfiarsi le tasche. E già ce ne sono a valanghe, anche minorenni. È eticamente inaccettabile. Andrebbe infatti rivisto Dinero fácil (Carlos Montero, 2010) cortometraggio interpretato dal Mario Casas di Instinto, autodefinitosi depornosexual, sulla scia della nuova definizione di Fischer: un corto molto sensuale e con chiaro contenuto che fa impallidire i 13 episodi da 70 minuti di Toy Boy.

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