Spaccato sociale italico in interni, nella superba cornice delle stanze di Villa d’Este, per la serata di inaugurazione del Villae Film Festival. Una volta dentro mi soffermo a guardare le rappresentazioni delle virtù femminili negli affreschi dei soffitti, prima che i miei occhi inizino a vagare. Il tavolo con la roba da bere attira immediatamente il mio sguardo. Poi quello con i vassoi del cibo. Poi le persone. Il sindaco, i gendarmi (senza pennacchi e senza armi), i critici e i presentatori, gli addetti ai lavori, i volti di persone che diventano personaggi del mio teatro mentale, un cameriere che ricorda quello in perenne stato di ubriachezza di Hollywood Party mentre raccoglie i bicchieri vuoti lasciati in giro.
La gente parla, io afferro un calice di rosso, qualcosa da mangiare, mi appoggio ad uno dei muri e lì rimango incollato. Zona sicura. Ottimo punto di osservazione. Tramezzini a portata di mano. Scandaglio facce e figure. Cerco contatti visivi con scarsi risultati. Sorrido e me ne rimango zitto, le public relations non sono mai state il mio forte.
Terminato il gustoso simposio ci si sposta nella sala attigua a quella del lauto banchetto di benvenuto, scolo quello che resta del secondo (o terzo?) calice di rosso e seguo gli altri, trovo un posto a sedere defilato e mi sistemo, Poi qualcuno inizia a parlare, ci sono dei lunghi ringraziamenti (perché nessuno, soprattutto nell’ambito cinematografico, può fare le cose da solo) seguiti dalla presentazione del film che verrà proiettato, una piccola intervista alla regista e all’attore protagonista, dei brevi commenti critici e infine le luci si spengono e le immagini a formarsi sullo schermo.
The middle of beyond è un’opera low budget girata in digitale, diretta da Keren Cytter, artista audiovisuale israeliana, in cui un uomo sulla trentina con aspirazioni poetiche cerca di trovare la propria identità artistica e umana. Intrappolato nella rete dei social network che condizionano e dirigono la sua esistenza Malte si trascina per le strade di una città tedesca, sognando New York. Tra incontri, conversazioni con la madre, tentativi di imparare a parlare inglese con l’accento americano, letture del Corano e fantasie dinamitarde, il protagonista scivola sempre di più in una dimensione psichica che perde il contatto con la realtà in cui crede di trovarsi. La regista sottolinea questa dissociazione disseminando il suo film di effetti speciali da smartphone, quasi a contaminare in maniera provocatoria il suo film con queste fastidiose interferenze visive, il cinema stesso viene così infettato dalla virulenza visuale di applicazioni a basso costo che lo ibridano e trasformano.
Il tema del festival è quello sul “rapporto indissolubile tra cinema e arte” come dimostra, se non il film scelto per la serata d’apertura, il resto del programma, con opere di Mc Queen, Schnabel e Fellini. Ci saranno presentazioni e interventi critici prima di ogni proiezione (per chi si sente interessato) e ingressi liberi fino ad esaurimento posti.
Mentre torno a casa, ascoltando Miles Davis (The Musing of Miles) e guidando per la Tiburtina che, dopo la pioggia delle ore precedenti, sembra più adatta a mezzi anfibi da sbarco che a macchine con ruote e pneumatici, distrattamente ripenso alla serata.
Il vino non era male e la porchetta, a dire il vero, ottima.
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