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È una marmellata. Un’insieme di cortocircuiti in cui fatico a trovare un filo conduttore. Ma mi ci aggiro da giorni, leggendo cose: alcune arrivano da sé, altre me le sono andate a cercare. Lo stimolo principale è l’uscita nelle sale italiane dell’ultimo film di Polanski, dedicato all’affare Dreyfus. Poi è arrivato un post su Facebook di mia madre (ciao mamma!) che segnalava la morte di Branko Lustig. In mezzo sono arrivati Liliana Segre, e me lo aspettavo, ed Ezio Greggio, e lui proprio non me lo aspettavo. A un certo punto si sono infilati anche chef Rubio (che, lo giuro, non sapevo chi fosse) e Georges Méliès e, ora, se apro la pagina di Repubblica ci si mette pure Jeremy Corbyn. È troppo, lo ammetto. Soccombo.



Mettiamo ordine, proviamoci. Partiamo da Polanski. Che due mesi fa a Venezia ha presentato il suo ultimo film, L’ufficiale e la spia (titolo originale: J’accuse, come il celebre editoriale di Zola pubblicato il 13 gennaio 1898) e che racconta il caso che spaccò la Francia al tramonto dell’800. Una storia pazzesca - l’accusa di altro tradimento fatta a un ufficiale francese ebreo, ingiustamente incolpato e ancor più ingiustamente condannato all’ergastolo - che infiammò la Francia e l’Europa tutta, divise tra colpevolisti e innocentisti. Se non conoscete la storia di Alfred Dreyfus o se la sapete solo a grandi linee, fate una ricerca e scopritela nei dettagli. Oppure naturalmente andate a vedere il film di Polanski, che non ho ancora visto. Immagino che la riassuma correttamente, anche se i dettagli assolutamente incredibili di quanto occorso in dodici anni - tanto passò dal processo del 1894 alla riabilitazione del 1906 - non credo possano avervi trovato tutti spazio. 
Non so nemmeno a che punti si fermi il film, perché il caso Dreyfus in fondo è andato avanti, ancora e ancora. Forse non si è mai chiuso. 

Roman Polanski, figlio di un ebreo polacco e di una donna russa proveniente da una famiglia di ebrei conversi, ha 86 anni. Quando uno gira un film a quell’età è immaginabile che pensi che potrebbe essere l’ultimo. Se poi il regista in questione è uno su cui da 42 anni pendono tremende accuse di stupro e abusi sessuali su minori e se il film che gira racconta di uno dei più clamorosi “errori” giudiziari della storia - e in più fondamentalmente animato dal pregiudizio antisemita - ecco che quell'opera assume sostanzialmente il ruolo di testamento. Lo ha esplicitato Polanski stesso, intervistato dal filosofo francese Pascal Bruckner prima della presentazione del film a Venezia, accompagnata da nuove polemiche: “posso vedere la stessa determinazione nel negare l’evidenza dei fatti e condannarmi per qualcosa che non ho fatto”.   

Curiosamente il soggetto di quello che per Polanski potrebbe (non glielo auguro) essere l’ultimo film è stato il soggetto del primo film “politico”della storia. Girato da Georges Méliès nel 1899, quando il caso era ancora caldissimo e irrisolto. Composto di nove quadretti teatrali con camera fissa di un minuto circa l’uno, il corto di Méliés fu il primo caso di censura politica nella storia del cinema: venne infatti bandito dalle sale dopo che le prime proiezioni suscitarono risse e tumulti tra i le opposte fazioni dei sostenitori e degli oppositori di Dreyfus. Corsi, ricorsi.

La parola ebreo è comparsa sin qui solo due volte: ebreo Dreyfus, ebreo Polanski. Ma da adesso in poi, se vado avanti a dipanare il bandolo di questa matassa, risuona a dismisura. Ebreo, ebreo, ebreo. Ebrea Liliana Segre, lo sapete tutti, spero. Scampata ad Auschwitz ma per nulla fuori pericolo, non nella nostra nazione, oggi. Ebreo Branko Lustig, scampato ad Auschwitz anche lui e morto solo pochi giorni fa. Non se ne sono occupati in molti eppure sui siti di cinema la notizia avrebbe dovuto trovare spazio, perché Lustig - che sopravvisse anche lui ai campi di sterminio - è stato il produttore di due film premiati con l’Oscar: Schindler’s List e Il gladiatore. La prima delle due statuette la donò il 2015 al Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme, Lo stesso luogo dove Jeremy Corbyn, leader del partito laburista britannico, l’anno seguente, si è rifiutato di andare. Una cosa per me semplicemente impensabile: era troppo occupato - si giustificò. Peccato che non lo fosse anche quando nel 2012 prese parte a una cerimonia sulla tomba di uno dei terroristi palestinesi che scatenarono l’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972. E oggi un articolo di Gad Lerner su Repubblica sottolinea come il populismo - di destra quanto di sinistra - non esiti a cavalcare l’antisemitismo, alla bisogna. Ne è (spero irrilevante) sintomo anche questo signore, Chef Rubio, che ha definito in un tweet gli israeliani “esseri abominevoli”, beccandosi una denuncia e perdendo la conduzione di una trasmissione televisiva (tranne poi dire che se ne era andato lui).

Andrò a vedere il film di Polanski, anche se lui non mi è propriamente simpatico. Anche se mi fa abbastanza schifo che si appropri del caso Dreyfus per fini personali. Andrò a vederlo perché in Europa l'antisemitismo sta crescendo. Perché il rapporto pubblicato proprio oggi dall'Anti Defamation League mette in luce che il 25% degli europei dimostrano attitudini antisemite, evidenziando quanto il discorso politico possa influenzare questa tendenza, al punto che in Polonia, dove l'argomento sulla restituzione dei beni sottratti agli ebrei nella II guerra mondiale ha generato una serie di controversie, quasi un cittadino su due ha una visione negativa degli ebrei.
Andrò a vederlo perché spero in qualche modo che ogni gesto, qualsiasi piccolo gesto io possa fare, possa a suo modo trasformarsi in un microgeneratore di attenzione. A partire da questa stessa newsletter.
Perché - da come siamo messi qui - non si tratta di celebrare una volta all'anno la Giornata della Memoria. Si tratta di praticare ogni giorno quella dell'Attenzione. Verso gli ebrei perché verso tutti. Verso tutti perché verso gli ebrei.

 

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