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Venezia 76, Joker vince il Leone d’oro in una edizione atipica
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La 76esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia si è conclusa nuovamente con una decisione che farà discutere (non per forza polemicamente). Dopo la vittoria di Netflix dello scorso anno (che ieri sera invece è rimasto a mani vuote, nonostante l’ottimo Marriage Story in concorso), adesso Venezia apre la strada per il processo di legittimazione culturale di un’industria dell’intrattenimento, quella dei cinecomic, che da anni detta le regole del gioco, ma che è sempre stata snobbata dai festival e dagli Oscar (i riconoscimenti si sono sempre limitati alle categorie tecniche, fatta eccezione per l’Oscar a Heath Ledger, sempre per Joker, che era comunque un premio alla carriera di un attore prematuramente scomparso e non tanto al singolo ruolo). In questo senso la vittoria di Joker non è solo una grande vittoria di Alberto Barbera, che posiziona definitivamente il suo festival come quello più proiettato verso la stagione dei premi in America, ma uno stimolo affinché anche il genere dei cinecomic possa ripartire da un modello diverso da quello targato Marvel. Todd Phillips ha avuto la possibilità di fare il film che voleva. Segno di un atteggiamento, quello della Warner, molto diverso da quello del colosso Disney, che cerca i talenti ma poi li irreggimenta quando esprimono una personalità troppo grande e poco gestibile.

 

Ma in fin dei conti, nonostante le ambizioni artistiche e le ricercate influenze cinematografiche sbandierate (prima su tutte il cinema di Martin Scorsese, da Taxi Driver a Mean Streets, passando per Re per una nottel’opera di Phillips resta di fatto una origin story supereroistica (una di quelle in grado di creare una nuova mitologia, quindi eventualmente espandibile e proseguibile). Joker è un film che cerca un altro tipo di pubblico, attraverso contenuti più maturi e complessi, ma non è qualcosa di esterno da quel genere da cui sembra, faticosamente e un po’ ingenuamente, prendere le distanze. Come dichiarato dalla presidente di giuria (mai così eterogenea) Lucrecia Martel, la decisione del Leone d’oro non è stata presa all’unanimità (come era accaduto lo scorso anno per Roma di Alfonso Cuarón). La vittoria di Joker è quindi frutto di un compromesso e non di una scelta condivisa. Il film di Todd Phillips non scontentava nessuno, pur non soddisfacendo tutti. Il riassunto perfetto di una edizione del festival mai così atipica e indecifrabile. 

 

Roman Polanski è andato il Gran Premio della Giuria, ovvero il secondo premio più importante. Una decisione inevitabile per sgomberare il campo dal sospetto di giudizi preventivi (alimentati dalle dichiarazioni della Martel nei primi giorni del festival) ma anche perché J’Accuse è il miglior film del regista polacco da dieci anni a questa parte, quello che nel corso del festival ha messo d’accordo tutta la stampa (ma il Leone d’oro forse sarebbe stata una concessione troppo grande). Sintesi di discussione molto accesa è stato invece il premio per la Miglior Regia, assegnato a Roy Andersson per About Endlessness. Un riconoscimento difficilmente contestabile (il film è bellissimo) ma inaspettato, dato che Andersson aveva già vinto il Leone d’oro nel 2014 con un lavoro molto simile (Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza). E probabilmente lo scontro più aspro si è consumato in giuria su Ema di Pablo Larraín, dato tra i favoriti nelle ore antecedenti alla cerimonia e invece rimasto a mani vuote. Quello di Larraín non era forse il film giusto per il festival (potenzialmente divisivo per come mette in scena il tema della sessualità) ma sicuramente uno dei più stimolanti e più interessanti di questa edizione. Il regista cileno, beniamino dei cinefili, continua a rimanere a bocca asciutta nonostante abbia in filmografia alcuni capolavori come No e El Club, snobbati sia a Cannes che a Venezia. Una divisione sul film che non ha permesso a Mariana di Girolamo di vincere il Premio Marcello Mastroianni (dato per sicuro e invece assegnato a Toby Wallace per Babyteeth di Shannon Murphy). Altro grande sconfitto (insieme al povero Larraín) è Netflix, in concorso con due film (Marriage Story e The Laundromat) completamente ignorati nel palmarès. 

 

Ne esce benissimo invece il cinema italiano (forse anche grazie ad una attività intensa di Paolo Virzì in giuria). Luca Marinelli vince la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile in Martin Eden di Pietro Marcello (oggettivamente la scelta più ovvia, dal momento che il vincitore del Leone d’oro non può vincere altro, quindi di fatto escludendo Joaquin Phoenix dalla gara) e La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco riceve il Premio Speciale della Giuria. La vittoria di Maresco non è solo un riconoscimento “ufficiale” alla sua inventiva, ma anche la dimostrazione di uno sguardo molto attento dei giurati, stranamente quasi tutti registi (probabilmente nessuno dei giurati stranieri avrà compreso i tanti significati dell’opera, ma non sono comunque rimasti indifferenti al geniale lavoro sulle immagini svolto da Maresco). E non sono mancati anche i riconoscimenti inspiegabili: miglior sceneggiatura a Yonfan per No.7 Cherry Lane (forse il film più deriso del festival) e Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile ad Ariane Ascaride per Gloria Mundi di Robert Guédiguian (chiaramente un premio assegnato alla sua carriera e non al ruolo in un film mediocre).

 

La 76esima edizione della Mostra, inoltre, ha confermato una grande attenzione verso il mondo delle serie tv. Paolo Sorrentino ha presentato la sua nuova serie a Venezia per una questione di tempistiche, data l’imminente uscita di The New Pope, ma Sky ha scelto appositamente il festival come vetrina del nuovo ZeroZeroZero di Sollima (in uscita invece nel 2020). A sorprendere è stata comunque la qualità di entrambi i prodotti. The New Pope segna il ritorno di Sorrentino ai fasti di un tempo (i due episodi presentati a Venezia sono forse la cosa migliore realizzata da lui dai tempi de Il Divo) e ZeroZeroZero conferma la maturità artistica di Sollima, ad ogni lavoro sempre più asciutto (abbiamo visto poco per giudicare, ma alcuni momenti della serie, specialmente quelli riguardanti la famiglia composta da Gabriel Byrne, Andrea Riseborough e Dane DeHaan, sono un gioiello di scrittura). Questa edizione atipica (ma molto appassionante) del festival è ormai conclusa. Appuntamento al prossimo anno. 

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