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Corrotti e sovrani
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Sostenuta da un'incalzante colonna sonora elettronica la prima sequenza di Il regno di Rodrigo Sorogoyen, nelle sale da oggi per Movies Inspired, è subito rivelatrice.
Anche qualora avessimo deciso di andarlo a vedere senza leggere assolutamente nulla della pellicola in questione (cosa che per voi, mi spiace, non è già più possibile a meno che non decidiate di sospendere la lettura in questo preciso momento) basterebbero 60 secondi - immediatamente a valle del primo piano sequenza che si apre su una spiaggia e che inquadra prima da lontano e poi sempre più da vicino un uomo in giacca e cravatta che parla al cellulare e poi risale verso una costruzione bianca, passa attraverso le cucine di un ristorante come se ne fosse il padrone, portandosi via un piatto gigante di carabineros (pregiati gamberoni rossi tipici della cucina spagnola) per portarli alla tavolata alla quale appartiene - per capire di che pasta sono fatti i protagonisti del film. Basterebbe notarne la volgarità con cui agiscono, la voracità con cui si spartiscono il cibo, l'arroganza con cui alzano la voce noncuranti degli altri ospiti del ristorante, per sentire, prima ancora di capire, che ci si trova davanti ad un'oscena tavolata di politici. Corrotti.

Due termini che fino a qualche anno fa in tutta Europa andavano praticamente a braccetto, era quasi impossibile pronunciare la prima parola senza che la seconda si affacciasse sulla lingua per completarne il senso. In Spagna, per dire, luogo in cui si svolge il film di Sorogoyen, la corruzione è stato un tema che ha occupato le pagine dei giornali e i notiziari tv fino ad un paio di anni fa. E in Spagna Il regno, pur non facendo nomi e cognomi, pur non nominando mai la sigla di un partito politico, ha provocato molto dibattito. Non solo per l'efficacia con cui il film mette in luce i comportamenti dei politici corrotti, non perché sveli l'arroganza e l'impunità del "Regno", o perché mostri fedelmente la lotta di un uomo che cerca disperatamente di salvare se non il culo almeno la faccia, ma soprattutto perché, con un'efficace messa in scena, sebbene per i miei gusti troppo televisiva, rappresenta come il potere ramificato divenuto sistema abbia inglobato anche l'industria dei media. Dei media tradizionali, naturalmente, quelli che ancora fino a qualche anno fa svolgevano appunto, la funzione di intermediazione dell'informazione. Esattamente quei media che nell'ultima sequenza del film, che è anche l'ultima sequenza di un periodo storico ben preciso, pur di fronte allo scoop del secolo - in diretta tv - scelgono consapevolmente, cercando in extremis di salvare il proprio ruolo, di trasformare quell'uomo nel capro espiatorio, nella mela marcia e non nell'oggetto di una indagine accurata che possa rivelare tutti i livelli di potere coinvolti nel marciume.

Sotto il profilo cinematografico Il regno di Sorogoyen è un film godibile o poco più ma l'uscita tattica in contemporanea con le attuali cronache e vicende politiche, non solo del nostro paese, lo rende testimone di un'epoca in cui i media tradizionali (stampa e Tv) erano ancora al centro del processo informativo. Nella prima sequenza infatti due partecipanti alla tavolata stanno guardando da vicino il funzionamento di uno dei primi modelli di smartphone ("guarda, è tutto tattile, basta toccarlo, è superintuitivo") ma dopo qualche minuto se ne stanno tutti in silenzio ad ascoltare il notiziario in tv. Il punto di forza del film, alla luce di quel che è accaduto in questi ultimi anni, è proprio ciò che lo posiziona in un luogo temporale distante, se non obsoleto. Non che la corruzione non esista più, semplicemente è sparita dalle cronache. Perché le cronache sono cambiate, sono cambiate le fonti, i luoghi, i media in cui le cose avvengono in diretta: all'interno di bolle che si autoalimentano, che non sono regolate da alcuna disciplina che non sia quella di chi la produce. Tutti i partiti sovranisti europei, a partire da Vox proprio in Spagna (ma non solo, basti pensare a Bolsonaro in Brasile) hanno imparato ad usare queste bolle per distribuire informazioni. Senza dibattito, senza spazio per il contraddittorio, senza alcuna mediazione. Gli account Twitter e le pagine Facebook sono diventate il centro della scena politica. E, in un certo senso, sono anche diventate il riflesso del percorso dell'uomo: da fuori a dentro. Dove il fuori era la piazza, il bar di paese, persino la famiglia estesa, ampia. E il dentro è la cerchia che la pensa come noi, che ascoltiamo solo fino a quando ci "riflette", non oltre. La somma di questi nuovi "dentro" è adesso il terreno perfetto da utilizzare per proporre politiche che esaltano i confini nazionali (e i relativi abitanti) simboleggiati egregiamente dai margini ristretti del nostro nuovo orizzonte: una manciata di pixel. Disintermediati.

Anche se Il regno di Sorogoyen ci racconta di un'epoca politica che appare impolverata, il dibattito sul ruolo dei media tradizionali e sull'inganno della disintermediazione è estremamente attuale. Se avete una decina di minuti di tempo vi consiglio la lettura di un ottimo articolo de Il Sole 24 ore: ci scoprirete come cucinare la Manioca evitando di avvelenarvi lentamente. O meglio: ci scoprirete perché per cucinare la Manioca senza avvelenarsi lentamente non basta Wikipedia. Né, ovviamente, Facebook.

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