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Cinque anni senza il Capitano
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Capitano, mio Capitano, sono passati cinque anni da quando hai deciso di farla finita. Mi hai lasciato orfano di te e non riesco a colmare il vuoto con qualcuno o qualcosa che almeno assomigli alla dolce e geniale follia a cui mi avevi abituato. Mi hai lasciato solo come quando se ne andò, non di sua volontà, John Lennon, o Alberto Sordi e scopro d’un tratto che la vita è tutto un susseguirsi di addii, un continuo amare qualcuno e dovere poi rinunciare a lui, contro la tua volontà, obbligandoti così a fare fronte al mistero della vita cercando di trovare delle risposte che aiutino a proseguire.

Walter Whitman non riusciva a darsi pace quando apprese che il suo Capitano era stato assassinato mentre era a teatro, per opera di un folle che aveva urlato, ancora con la pistola fumante in mano: ”Sic semper tyrannis!”.

 

O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato; la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato.

 

I geni non dovrebbero mai morire. Dovrebbero restare come fari per la nostra povera umanità che, in luogo di migliorare, troppo spesso s’arresta, o arretra. Essi sono, come dice il Nostro Poeta: “[…] come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte”.

 

“Ma o cuore! Cuore! Cuore! O gocce rosse di sangue, là sul ponte dove giace il mio Capitano caduto, gelido, morto”.

 

 

Morto come John, il Capitano di un’America che credeva, ingenuamente, che un mondo nuovo era in arrivo, mentre Jacqueline cercava, altrettanto ingenuamente, di raccogliere pezzi del suo cervello spappolato su una macchina a Dallas, Texas. O gelido come suo fratello Bob, anni dopo, gelido come il futuro che credeva di rilanciare. Piangi America! Piangi, se oggi sei solo un simulacro delle illusioni del mio Capitano!

Io non ho mai avuto un professore come Keating. Se lo avessi avuto, oggi sarei un altro. Forse sarei su una nave dell’Open Arms, o forse farei parte di un’équipe di Médecins sans frontières. Sarei saltato sicuramente su un banco a sputare tutta la mia rabbia verso chi pretende di insegnare senza sentirsi parte di coloro a cui si rivolge.

Perché te ne sei andato, mio Capitano? Mi sento tradito, abbandonato. Mi manca il tuo entusiasmo, Capitano, la tua incrollabile speranza che il mondo migliorerà un giorno. E invece qui, mio Capitano, tutto crolla, tutto sembra franare, come le mie speranze, le mie idee, la mia fede e i miei valori.

 

 

Ma come, tu che hai creato una radio laggiù nel Vietnam che ha rivoluzionato il concetto stesso di radio, ridendo e masticando amaramente, nonostante le umiliazioni di chi pretendeva di darti lezioni, regalando momenti di spasso a molti che, ore o giorni dopo, avrebbero lasciato la vita su un campo di riso oppure in una giungla avversa, tu, proprio tu hai deciso di farla finita?

 

Capitano, mio Capitano, vorrei essere arrabbiato con te, ma non ce la faccio. Se te ne sei andato, vuol dire che proprio non ce la facevi più. Non te la sei proprio sentita di metterti una pallina rossa sul naso e cercare di non pensarci, eh? Quanti sono i Patch Adams che sono germogliati grazie a te e hanno contribuito a rendere meno orrenda il termine di vita di tante piccole creature? O quanti sono i disadattati, ormai senza speranza che, grazie a te, hanno avuto un risveglio temporaneo che ha fatto loro riscoprire ciò che avevano perso per sempre, che il mondo, dopotutto, riserva ancora momenti meravigliosi.

 

No, non riesco a non commuovermi, anche dopo tanti anni, nel vederti lasciare la tua aula, la tua classe, e sentire la voce di uno dei tuoi ragazzi che, in barba a tutte le regole, al grigiore, all’ottusità del sistema, sale su un banco e ti invoca:” Capitano, mio Capitano!”.

Che insegnante sarei stato se fossi come te, mannaggia! Avrei perso il lavoro, certo, ma vuoi mettere che soddisfazione? La mia vita avrebbe avuto un senso che oggi, forse, non ha.

 

Capitano, mio Capitano. Grazie. Così, semplicemente, umanamente.

 

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