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Il Klan di D.W.Griffith un secolo dopo, il razzismo che combatte BlacKkKlansman
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«Griffith è Dio Padre. Tutto ha creato, tutto ha inventato» diceva il grande regista russo Ejzenstein sul padre del cinema, David Wark Griffith. Lo stesso uomo che legittimò il Ku Klux Klan nel 1914 in "The Birth of a Nation". Dopo più di un secolo è Spike Lee a ricordarci come il tema sia ancora attuale in Blackkklansman.

 

Griffith, il padre del cinema moderno

La maggior parte di ciò di cui godiamo oggi al cinema lo dobbiamo a lui, dal montaggio alternato al primo piano, fino al flashback. Nei sei anni alla Biograph, con più di 450 film girati, il regista sperimenta e innova, inventando alcune delle tecniche di ripresa e montaggio tutt'oggi utilizzate dai registi di tutto il mondo. A Corner in Wheat (1909) ci mostra l'utilizzo del montaggio come costruttore di senso, Ramona (1910) l'uso dei campi lunghissimi e dei piani ravvicinati in ottica dell'espressività del dramma. In The Painted Lady è Blanche Sweet la protagonista di uno dei primi primi piani, o quasi, della storia del cinema.

 

 Il finale alla Griffith, quel finale visto per la prima volta in The Lonely Villa (1909), sfrutta il montaggio per dare al pubblico un senso di simultaneità delle azioni. Insomma, due linee narrative che si svolgono in contemporanea e che si ricongiungono nel finale. Ricorda nulla? Siamo nel 1991, Anthony Hopkins interpreta in maniera più che eccellente uno dei cattivi del cinema meglio riusciti di sempre, Hannibal, ne Il Silenzio degli Innocenti. Ma non è lui ciò che ci interessa dell'opera di Jonathan Demme, bensì il pre-finale in cui le immagini degli agenti della CIA sono alternate a quelle del serial Killer Buffalo Bill pronto ad uccidere la sua priogioniera; quando sentiamo suonare il campanello tutti noi ci aspettiamo il ricongiungimento delle due linee narrative, proprio perchè abituati al "Finale alla Griffith", scoprendo poi che le due scene si stavano svolgendo sì in simultanea, ma non in spazi contigui, cogliendo di sorpresa lo spettatore.

The Birth of a Nation, il colossal del Klan

Alla fine del 1913 Griffith era ormai un regista famoso, fremeva per ottenere maggiore autonomia e per la prima volta si affacciava sui lungometraggi di stampo italiano. Nasce in lui la decisione di voler sperimentare la novità, dando più tempo alle sue storie e più spazio ai suoi personaggi. La Biograph insiste nel voler produrre la formula ormai ben consolidata del one-reels (cioè film della durata di un solo rullo, circa un quarto d'ora). 

 

 

Fu così che il regista, abbandonata la Biograph, diresse The Birth of a Nation, un film a cavallo tra l'epopea storica e il dramma individuale, che catturò il pubblico in una visione di più di tre ore. Il genio di Griffith questa volta fu messo però al servizio di una storia e di un'ideologia profondamente razziste. Il film racconta la storia di come, dopo la guerra di secessione, i sudisti siano stati salvati dall'anarchia grazie alla fondazione del Ku Klux Klan. Alcune modifiche apportate dal regista nella seconda parte della pellicola, oltre al titolo modificato dall'originale The Clansman (ben più esplicito), non sono serviti a far ricredere il regista del suo operato. "Ho solamente riprodotto la realtà dei fatti storici" rispondeva il padre del cinema. Risposta particolarmente ambigua, specie perchè pronunciata da un uomo più che consapevole del potere manipolatorio della messa in scena cinematografica.

Il razzismo di The Birth of a Nation

Il razzismo di questo film non è, come siamo abituati oggi, un pregiudizio naif sotteso alle scene più sfacciatamente reazionarie del film - ricordiamo in questo senso la scena in cui Ben Cameron fonda il KKK dopo aver visto dei bambini bianchi, nascosti sotto un lenzuolo, spaventare dei bambini neri o del suddetto Finale alla Griffith, dove un gurppo di bianchi (sia sudisti che nordisti) viene salvato dai cavalieri incappucciati dopo un attacco di un gruppo di neri - ma qualcosa di ben più complicato.

La sua ideologia è stata tessuta scena dopo scena, e quasi ogni elemento del film alla fine risponde tragicamente all'ideologia di Griffith. Un prodotto da far venire i brividi oggi: fa pensare come l'unico momento della pellicola ambientato nei campi di cotone sia quello della bucolica nascita dell'amore tra Margaret e il giovane Stoneman, sotto gli occhi degli schiavi al lavoro. Quasi come se la condizione pre-guerra fosse da considerarsi parte del creato, a sostituire l'immagine letteraria del locus amoenus, della perfezione dell'ambiente naturale.

Un secondo esempio può essere la scena, tragicamente richiamata nel monologo iniziale di Alec Baldwin proprio in BlacKkKlansman, della giovane vergine bianca che, pur di non farsi toccare da un uomo nero, sceglie di lanciarsi giù da un dirupo scegliendo il suicidio alla vergogna di essere stata toccata da un nero.

 

 

Insomma, un capolavoro cinematografico che per tre ore ti immerge nel pensiero del Ku Klux Klan e, più passa il tempo, più riesce ad essere convincente. Una delle pellicole più paurosamente ben riuscite della storia del cinema; il manifesto del Ku klux Klan continua ad aver vita a più di cento anni dalla sua uscita. Una pellicola che mette in luce un pensiero ormai logore, ma mai passato di moda. Come ci aiuta a ricordare Spike Lee, in BlacKkKlansman.

 

 

 

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