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Autoreferenziale. Questa è la parola chiave usata da molti critici professionisti quando vogliono velocemente liquidare una pellicola, o anche l'intera opera di un autore, che non ha incontrato i loro gusti.
L'occasione per ragionare insieme a voi su questo termine, e sul suo valore quando applicato ad un autore cinematografico, si innesta poco dopo la lettura delle prime recensioni della stampa su C'era una volta a... Hollywood, il nuovo film di Quentin Tarantino che è stato proiettato martedì sera in concorso a Cannes. Non mi stupisce che ci sia una linea di demarcazione netta tra gli entusiasti e i detrattori, Tarantino ha sempre diviso critica e pubblico (più la critica che il pubblico, per quanto la differenza sia sempre più esile) principalmente per questi tre motivi: uso eccessivo di violenza, dialoghi fluviali, trame e continuity confuse, alterate e comunque non lineari. Questi sono in sostanza i tre punti sui quali generalmente ci si divide. Questo accade proprio perché gli elementi tipici e differenzianti, come capita quasi sempre anche con le persone, possono essere sia un pregio che un difetto. Violenza eccessiva? Bene! Cosa sarebbe il cinema senza un bel po' di sangue, botte, offese e tensione psicologica? Dialoghi fluviali? Ottimo! Cosa c'è di meglio di un lungo dialogo per entrare in profondità o per starsene anche placidamente a gozzovigliare sulla superficie delle psicologie dei personaggi? Continuity sballata? Eccezionale! Chi l'ha detto che le storie devono essere raccontate in maniera lineare quando la nostra intera vita, quando quel che si svolge nel nostro maledetto cervello è tutto fuorché lineare? Quando non facciamo altro che prendere le cose che accadono e, nello spostamento all'interno, agganciarle al nostro passato o proiettarle nel futuro generando visioni e producendo sentimenti che risultano quindi completamente indipendenti rispetto alla continuity della nostra esistenza?

La prima volta che vidi Pulp Fiction mi trovavo all'estero e quindi mi immersi in quelle due ore e mezza di dialoghi fluviali in lingua originale con sottotitoli in francese. Fu una botta incredibile. La costruzione della storia, i salti temporali, inclusi alcuni possibili paradossi, mi si appiccicarono addosso, dando vita ad un mondo che si muoveva in perfetta sintonia con il mio orologio interno. Ne volevo ancora, di quella roba buona: vederla su uno schermo e non solo dentro la mia testa mi aveva fatto sentire, forse, meno solo. Molto postmoderno, dissero i critici più conservatori del tempo. Come se quello sfasamento temporale, quell'andamento ad anello irregolare, quello spostamento di attenzione da "cosa succederà?" a "cosa è successo?" fosse caratteristica esclusiva delle nuove generazioni nate dopo i boom economici - e prive di una visione unitaria del mondo e del futuro - e non la più pura e semplice tra le domande esistenziali. Come se non fossimo tutti schegge veloci, eppure ferme in un istante zenoniano, che cercano di dare una direzione o un senso al passato invece di cooperare per costruire un futuro migliore. Come se il futuro debba meritare la nostra attenzione a prescindere dalle circostanze che ci hanno generato e che hanno generato un preciso momento.

Da postmoderno ad autoreferenziale il passo è breve. Forse perché la colpa atavica di cui il cinema di Tarantino si è macchiato, agli occhi dei detrattori di casa nostra, non è esattamente quella di avere sbalestrato la direzione naturale del racconto ma quella di essersi posizionato su un registro completamente opposto al cinema del reale, al cinema che racconta storie anche piccole ma dal respiro universale, al cinema che ha una morale o che collabora alla costruzione di un'idea, possibilmente futura, possibilmente condivisibile.
La mancanza di questa condivisibilità, di questa universalità del messaggio, renderebbe Tarantino un soggetto autoreferenziale. Come se l'autoreferenzialità non fosse parte fondante dell'essere autore. Come se esistesse la possibilità di essere autore, regista cinematografico, romanziere, pittore, architetto, fotografo, disegnatore di fumetti porno, senza macchiarsi del reato di autoreferenzialità. Dire che un regista è autoreferenziale significa per me solo certificare la sua natura di autore, ossia l'esistenza di una forma forte e riconoscibile in qualsiasi cosa egli produca. Non si tratta di un'offesa, anzi. Si può chiamare anche stile. Poi, probabilmente, non me lo sceglierei come compagno di vita, ma questa è un'altra storia.

Diventa, invece, a mio parere un aspetto perlomeno controverso quando ad essere autoreferenziale è il critico, che per professione dovrebbe essere capace di valutare un prodotto culturale o artistico con i ricchi strumenti a disposizione inserendo l'opera analizzata in un contesto e sforzandosi, se la cosa non avviene a livello chimico, per comprenderne il valore. (Quasi) meglio ammettere candidamente che il cinema di Tarantino non rientra nelle sue corde; non ci sarebbe proprio niente di male, se non facesse quel mestiere, ecco. Perché comunque le argomentazioni sono sempre necessarie, per fare quel mestiere.

Noi comuni spettatori, invece, per vedere e valutare C'era una volta a... Hollywood dovremo aspettare parecchio. Perché a dispetto del fatto che il film esce nel resto del mondo tra la fine di luglio e la metà di agosto, noi dovremo aspettare fino al 19 settembre. Guardando la tabellina delle uscite di IMDb si vede chiaramente, siamo l'ultimo paese del calendario. Con buona pace degli ottimi propositi dei nostri Moviementori.

Ops, mi sono citato. Sono autoreferenziale anche io?
Vi segnalo, per chiudere, la bella recensione di EightAndHalf (o Marco) direttamente dal festival.
Se seguite Cannes trovate tutto qui.

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