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Perché la sospensione dell'incredulità è una sciocchezza
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O meglio: perché la lettura stigmatizzante che si dà talvolta alla sospensione dell'incredulità è una beata scemenza. Quante volte mi è capitato di leggere solenni baggianate del tipo "Questo film è troppo assurdo per essere preso sul serio", "Bisogna armarsi di tanta sospensione dell'incredulità per non ridere" e infiorature simili. C'è una folta letteratura, per esempio, circa il film di fantascienza del 2013, Gravity, che viene da più parti stroncato per la sua carenza di realismo. Gli astronauti si muovono troppo velocemente, il trasferimento da Hubble alla stazione spaziale è impossibile perché si trovano su diverse orbite, l'abbigliamento dei cosmonauti è errato, George Clooney fa troppo il gigione... A dire il vero, gli elementi di menzogna sono la parte migliore del film. Se il regista avesse dovuto descrivere un fatto plausibile, avrebbe ottenuto un film molto noioso, oppure non avrebbe potuto nemmeno girarlo, il film. Di certo, il pubblico non è composto da laureati in astrofisica: e senza il sapientone che espone il ditino a denunziare le imprecisioni una per una, esse finirebbero tutte inosservate. Il cinema è spettacolo, mentre al contrario la scienza è negazione dello spettacolo, riduzione della realtà a protocolli matematici. Fare copia e incolla per il film di Scott del 2015, Sopravvissuto.

E' stata tuttavia la visione del capolavoro di Hickox, Oscar insanguinato, a consentirmi di elaborare definitivamente un pensiero sull'argomento in esame. Il film è la storia di un istrione teatrale che si vendica, per mezzo di supplizi shakespeariani, di quei critici che mai hanno voluto assegnargli l'ambito premio di miglior attore. Ci sono almeno tre motivi per i quali un simile fatto non sarebbe replicabile nella realtà. Uno, perché nessun attore ucciderebbe mai un'intera giuria di critici solo per essere stato da loro stroncato e mortificato (al limite potrebbe pensarlo, e qui ci torneremo in seguito). Due, perché se anche gli venisse in mente di mettere in atto un simile disegno, non si ispirerebbe certo a Shakespeare. I serial killer reali sono una tale pizza, per quanto sono prevedibili. Tre, se pure avesse la prontezza di spirito di rifarsi al Bardo, poi gli sarebbe praticamente impossibile mettere in pratica il progetto. Gli antagonisti di Lionheart - i poliziotti e i critici - sono un ammasso di fessi che sembrano mettercela tutta per agevolare il nostro giustiziere. Purtroppo nel nostro mondo i fessi sono sempre di meno, e i furbetti sempre di più.

Oscar insanguinato ci suggerisce che il cinema non è primariamente descrizione notarile della realtà. Anzi, il più delle volte è indagine sui desideri più inconfessabili e repressi del nostro inconscio. Per ogni attore che avrebbe voluto far soffrire il critico che l'ha stroncato, dal comodo della sua poltrona, ma non ha potuto farlo per l'impedimento dato dai codici sociali e morali, c'è un Lionheart che prende il coraggio a quattro mani e fa ciò che va fatto senza esitare. 

Il cinema, già dai suoi primordi, prende le mosse dalla necessità della sospensione del dubbio. I Lumière inventarono il mezzo, girarono anche dei film di vita reale, ma fu poi Méliès a esplorare il territorio nascosto e illimitato che si celava dietro il mezzo cinematografico. Fu Méliès, con la sua luna pacioccona e i suoi bellicosi seleniti, a consentire al cinema di fare il balzo da scoperta scientifica a mezzo di intrattenimento. 

Il cinema è manipolazione. La stessa esperienza sovietica del Cineocchio, che bandiva il cinema di finzione in quanto invenzione borghese per irretire le masse, fu manipolazione. Vertov, ne L'uomo con la macchina da presa, impressiona sì su pellicola scene di vita quotidiana, ma nel momento in cui sceglie lui che cosa filmare, e come montarlo (in maniera peraltro assolutamente fantasiosa e inconsueta), compie una manipolazione della realtà. Vertov non sta mettendo in scena la realtà così come è, ma così come arriva ai suoi occhi. Che è la manifestazione suprema della soggettività cinematografica. Quando noi guardiamo l'opera di Vertov, non è la vita quotidiana quella che scorre sullo schermo, ma la lettura che ne offre il regista. E c'è quindi bisogno della sospensione dell'incredulità per non dubitare della veracità della sua lettura. Lo stesso Hitchcock, in Nodo alla gola, cerca di convincere lo spettatore dell'assenza di un montaggio, e quindi dell'assenza di un intervento umano a modificare il tessuto filmico: eppure, il fine inganno è realizzato proprio grazie al montaggio. E' pur vero che Sokurov in Arca russa ha risolto l'opera in un unico effettivo piano sequenza, ma solo dopo svariati tentativi. Inevitabilmente, naturale, ma c'è qualcosa di più adulterato del provare e riprovare e apparecchiare a tavolino tutto quanto affinché il tentativo risolutivo riesca alla perfezione?

Il cinema è spettacoloindagine sull'inconsciomanipolazione. Non ha nulla di autentico né per quel che concerne la messa in scena, né per quel che concerne il piano narrativo, né per quel che concerne la tecnica. La sospensione del dubbio di fronte a un'opera cinematografica non solo è ineludibile in forza del senso stesso del cinema, ma è anche necessaria. La realtà aumentata odierna, una sorta di film iperrealistico - ahinoi - privo di montaggio e di un pensiero fondante, è composta di barbare d'urso, di felpe, di contumelie lanciate via etere, di indignazioni che durano dall'alba al tramonto, di idoli d'argilla, di disperazioni taciute o peggio gettate in pasto all'avida platea, di un nulla che sempre più nero minaccia di sommergerci. Abbiamo il dovere di evadere da questa realtà e abbiamo il dovere di non ritrovarla anche al cinema. E se poi, come ne La rosa purpurea del Cairo di Allen, scopriremo che l'evasione è stata vana, non sarà stato per questo meno degno e giusto tentarla.

 

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