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Perché il finale di Game of Thrones è perfetto
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Il pezzo che segue lo trovate anche sul mio blog. Contiene spoiler.

 

  

Game of Thrones è finito. Con il sesto episodio di quest’ottava stagione (The Iron Throne) si conclude una cavalcata lunga nove anni. Questo finale è stato anzitutto un grandissimo evento mediatico, vista la portata globale del successo della serie, e come tutti i finali più attesi non poteva che dividere nettamente il pubblico. Eppure, a parere mio sembra che i cosiddetti “fan” abbiano perso l’orientamento e si siano dimenticati cosa effettivamente sia questo grandioso show; oppure semplicemente non lo hanno mai capito. Perché tra chi è rimasto deluso per “le poche morti” o chi è convinto che “gli sceneggiatori hanno rovinato i personaggi”, un po’ piange il cuore a chi invece è riuscito a godersi ed apprezzare una conclusione che, a conti fatti, chiude perfettamente l’intera opera rispettandone a pieno l’essenza.

 

Certo, dei difetti ci sono, ma sono pochi e anche abbastanza usuali per una grande narrazione fantastica come questa: la coerenza logica delle forze in campo e la compressione degli eventi narrati. Partendo da quest’ultimo, al sottoscritto pare ovvio che, con la diminuzione delle storyline da raccontare, non si sia più reso necessario allungare gli archi temporali per fare il punto su tutte le varie situazioni; per intenderci, se ci sono venti personaggi disseminati in altrettanti luoghi diversi, lo spostamento di uno di questi deve, per forza di cose, occupare più spazio nel minutaggio degli episodi, così da permettere nel frattempo di mostrare cosa avviene contemporaneamente da altre parti. Venute a mancare le innumerevoli vicende che erano solite “allungare il brodo”, si è potuto velocizzare quest’aspetto e, a questo punto, la palla passa nelle mani del pubblico, il quale deve rivelarsi capace di collegare due scene separate da un taglio di montaggio: sicuramente non si tratta di una pretesa così eccessiva. Per essere chiari, il reale problema delle ultime due stagioni è la gestione dei draghi, i quali sono estremamente forti o, viceversa, vulnerabili a seconda delle necessità. Si tratta di un problema evidente, ma davanti al quale si può benissimo chiudere un occhio, dato che Game of Thrones è sempre stata una storia di personaggi, molto prima che di intrighi politici o esseri sputafuoco contro morti viventi.

 

Quindi arriviamo al tanto criticato sviluppo degli (anti)eroi. Tra i più criticati c’è sicuramente Tyrion Lannister, il nano dalla mente eccelsa, ma leggermente arrugginita nelle ultime annate. A ben vedere, il Folletto è stato caratterizzato come un uomo dal sarcasmo brillante, ma quando si è ritrovato in posizioni di potere ha sempre fallito (tanto che nessuno lo prende sul serio quando rivendica la vittoria nella battaglia delle Acque Nere). In questi ultimi episodi, il personaggio compie il suo percorso di crescita quasi socratico: la saggezza tanto paventata si palesa dopo i tanti fiaschi, la maturazione definitiva è la consapevolezza di essere fallibile. Jaime e Cersei finiscono la loro vita come l’avevano cominciata, assieme, amandosi profondamente, come sempre hanno fatto; lei la vediamo per la prima volta umana e fallibile, lui prende atto del suo percorso di redenzione e riesce finalmente ad accettare se stesso: bontà e malvagità, colpevole di essere innamorato di un mostro (“Le cose che faccio per amore” disse nel primo episodio in assoluto), né bianco né nero come ci ha insegnato GoT. Amore che è il tallone d’Achille che tutti ereditano dalla tradizione tragica, così come Daenerys nella sua giusta fine: dopo averci indotto a parteggiare per lei quando conquistava e puniva con metodi tirannici i suoi nemici, gli autori invertono il punto di vista, denudano per l’ennesima volta l’occhio ingenuo dello spettatore, alla ricerca del paladino della giustizia, e la fanno morire come Cesare. Il cesaricida Jon Snow è un altro esempio di eroe fantasy canonico rovesciato, il cui finale in anticlimax rimarca per l’ennesima volta il vero stile di Game of Thrones: destrutturare e ribaltare il genere.

 

Ciò è avallato ulteriormente dalla precoce morte del Night King: il fantasy in questo show è sempre stata un’appendice dovuta, la magia una minaccia a tratti grossolana (fino alla quinta stagione), affascinante nel suo essere fuori luogo e fuori tempo massimo nel mondo realistico di Westeros. Draghi ed Estranei sono elementi sovraumani che costringono l’essere umano a prendere coscienza delle sue debolezze e, quindi, a migliorarsi. Il Re della Notte è la nemesi del Corvo con Tre Occhi, garante della conoscenza, quindi giusto sovrano. Ed è ironico che a sedere sul trono sia proprio la persona che si è rivelata più abile a manovrare gli altri come pedine del suo grande disegno (e si torna al gioco degli intrighi delle prime stagioni). Il drago, invece, da simbolo del potere utilizzato senza cognizione di causa si trasforma in entità saggia, quasi divina, che comprende i limiti dell’uomo e lo aiuta a liberarsene (distruggendo il trono). Ovviamente si sta parlando di Drogon, il quale sembra capire gli errori della madre, non uccidendone l’assassino, quindi rivelandosi forse come uno dei personaggi più saggi della storia. “I draghi sono intelligenti. Più intelligenti degli esseri umani, dicono i maestri” disse Tyrion nel secondo episodio della sesta stagione. L’essere umano viene riportato per l’ennesima volta in una dimensione di fallibilità e l’uscita di scena di Drogon, che sparisce all’orizzonte, oltre a far conservare al mondo di GoT il suo alone di fantastico e mistero, lascia ai sopravvissuti la consapevolezza che qualcuno di più grande di loro potrebbe controllare il loro operato, come fosse una sentinella simile alle aquile tolkieniane.

 

A guardare bene, è sempre su una linea sottile che si gioca il tutto, tra il cliché e lo spiazzamento, perché a conti fatti i veri vincitori del gioco del trono sono proprio gli Stark, discendenti di quello che all’origine di tutto sembrava essere il protagonista e la cui morte ha creato lo spauracchio del “tutti possono morire”. Bran governa i Sei Regni, Sansa il Nord e Jon oltre la barriera, mentre Arya sembra pronta a “colonizzare” l’America. Qui la tradizione viene rispettata e si ha finalmente la rivalsa dei giusti. Ma se Game of Thrones ha conquistato il cuore di milioni di persone è stato anche grazie alla sua messinscena medievale; inoltre, di tale periodo ne è a tratti una rilettura: l’incipit è dichiaratamente ispirato alla guerra delle due rose e, anche se accademicamente sforiamo nell’età moderna, le nozze rosse si rifanno alla notte di San Bartolomeo, mentre la devastazione di Approdo del Re è il sacco di Roma del 1527. In una puntata finale che pone l’accento sull’importanza delle storie di ogni personaggio, la fine degli Estranei e la scomparsa del drago all’orizzonte consegnano tutto ciò che è stato alla leggenda, rende gli uomini più consapevoli e apre, infine, il mondo fantasy alla ragione; non a caso, assistiamo alla fine della monarchia assoluta.

 

Per concludere, bisogna ricordare che Game of Thrones è stato e si è riconfermato come un grande ed epico racconto visivo. Il terzo episodio, The Long Night, è l’apice in cui l’estetica va di pari passo con il concetto che tale battaglia si porta appresso: l’utilizzo del buio, sinonimo di notte e morte, in contrasto col fuoco dei vivi ed il ghiaccio delle ombre bianche. Anche il finale ha alcuni momenti estremamente potenti: Daenerys con alle spalle Drogon che spiega le ali è un’inquadratura di una potenza espressiva che ormai si vede di rado anche nei cinema, mentre l’immagine che chiude l’opera è pura poesia: le terre oltre la barriera tornano ad essere popolate, in totale opposizione all’inizio della serie, nel quale due guardiani della notte venivano uccisi dagli Estranei. La definitiva vittoria della vita sulla morte.

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