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Pratolini, Metello e la Fiorentina ye-ye
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L’uomo stava per andare sulla Luna. E Piazza Fontana non era ancora deflagrata, con i suoi echi e le sue scie che segnarono decenni, epoche. C’era ribellione nell’aria, nuove istanze, vecchi malcontenti. Si preparava Woodstock ed era fiorita la Primavera di Praga, a Città del Messico si sparava e si uccideva, prima delle Olimpiadi dei pugni chiusi, e si sparava ed uccideva anche ad Avola (Sicilia, Sud). E poi Jan Palach e Golda Meir. E il Vietnam, specchio della coscienza americana. 1968-1969. In Italia succedevano cose strane, cose mai viste e che poco si vedranno in seguito. Nello sport, ad esempio. Nello sport accadeva che una squadra di calcio formata prevalentemente da giovani vincesse il campionato. Accadeva che un centrocampista tracagnotto e dal sedere basso martellasse palloni ed avversari tanto da meritarsi il soprannome di Picchio e conducesse quella nidiata di pedatori alla conquista. Firenze sogna. E Firenze sognò davvero, in un cielo viola, quel David impettito in piazza che si inventava inesistenti Golia e dava loro il nome di Juventus e Inter e Milan. E Cavallo Pazzo Chiarugi che dimenava i riccioli e mulinava le gambe, imprendibile. E il brasiliano triste Amarildo, già campione del mondo del 1962, che faceva coppia con Mario Maraschi, ed alzi la mano chi ricordi quest’ultimo, tra quelli che non l’abbiano visto giocare. E fu scudetto, per la seconda ed ultima volta, in quella pazza fine di decennio (pazza perché nel 1970 arrivò il Cagliari, tutta un’isola al centro del continente, e ci fu Rombo di Tuono Riva e ci fu anche Comunardo Niccolai che aveva quel nome comunista e si divertiva in tempi non sospetti con l’autolesionismo – autorete alla Niccolai si diceva allora e si dice ancora oggi - ). La Fiorentina proletaria, delle madonne toscane nominate forse a sproposito ma mai invano, la Fiorentina ye-ye che twistava cross, gol e calci d’angolo, che danzava sul pallone. La Fiorentina operaia, con le mani nodose ed i calli da lavoro. La Fiorentina che faceva, a suo modo, la rivoluzione contro i padroni.

 

 

A gioire per quell’insperato successo c’era anche uno scrittore che aveva già assaporato la gloria, una gloria un po’ clandestina, una gloria che sicuramente non ricercava, una gloria che gli fu conferita soprattutto postuma, come accade quando il tuo tempo corre più veloce della tua capacità di creare empatia. Perché erano tempi in cui gli intellettuali non temevano alcuna contaminazione con lo sport, con il calcio; perché il calcio era materia per intellettuali (e ci fu Gianni Brera, e ci fu Giovanni Arpino che, con Azzurro tenebra, scrisse forse l’unico romanzo in cui un'aspra disfatta sportiva – i Mondiali del 1974 – seppe trasformarsi in soffice e ironica materia letteraria); perché il calcio era, allora, fatto romantico, lacrime e sangue, gioia e rivoluzione (Paolo Sollier che alza il pugno. Gianfranco Zigoni che si accomoda in panchina vestito di pelliccia, Gigi Meroni, il quinto Beatles che cantava i dribbling, dipingeva e, incredibile, portava i capelli lunghi e conviveva con una donna sposata). Quello scrittore era Vasco Pratolini, fiorentino del popolo, che girava tra il popolo, a San Frediano a vedere le temibilissime ragazze, nel Quartiere a schizzare figurine di pulzelle altezzose e vendicative e di disastrati playboy dei vicoli. Pratolini che rivangava la giovinezza e l’aspro lezzo della fine che ogni giovinezza emana in controluce, Pratolini che cantava la malinconia e te la faceva toccare in pochi sapidi tratti, in descrizioni che la mente non riesce a contenere tanto, a volte, risultano vivide. Pratolini che era comunista, quando questa parola poteva avere un significato, e si metteva a fianco dei suoi eroi ed eroine, li conduceva alle battaglie, li faceva vincere e perdere, sputare sangue, vedere tenebre o nuovi soli. Pratolini che, non c’è dubbio, era capace di esaltazione per un gol di Amarildo, per una veronica di Picchio De Sisti. Pratolini che, qualche anno prima (era il 1952), aveva creato una specie di prototipo del fiorentino verace, pronto alla pugna e alla lotta vera, fascio irrisolto di sentimenti umani, romanticismi, politica e passioni, debolezze della carne e ripensamenti della mente, letture confuse e mani che lavorano e spezzano il pane, anarchismi e scioperi, ottimismo della volontà sempre e comunque, perché il peso delle cose non vale la bellezza di costruirle, ripartendo sempre da capo. Quell’eroe era Metello Salani, operaio comunista.

 

 

In un articolo apparso sul Guerin Sportivo del 16 febbraio 1982 (Cronache di povero fan) Oreste del Buono racconta di un suo incontro con lo scrittore. Lo definisce uno dei più grandi narratori che l’Italia abbia avuto in questo secolo, uno scrittore sul serio non un bestsellerologo, un uomo sul serio, non un tuttologo. E rivela l’amore che Pratolini aveva per lo sport, per il calcio, per la Fiorentina. Era l’anno in cui i viola si battevano per lo scudetto con la Juventus, in quel febbraio del 1982 erano primi in classifica, avevano vissuto incanti e tragedie (il capitano Antognoni, il ragazzo che gioca guardando le stelle, quasi morto dopo uno scontro con il portiere del Genoa Martina), e Pratolini sembra non insensibile al fascino di quel possibile traguardo, durante il colloquio con del Buono gongola e, tra una rievocazione di Metello, uno sguardo all’opera inedita nel cassetto (“Pare poesia perché vado spesso a capo”) e un accenno alla Polonia di quei tempi, sospesa tra Solidarnosc e un difficile processo di democratizzazione del Paese, c’è tempo anche per una stoccata alla squadra del cuore di del Buono.”Però siete conciati male, voi del Milan. Eh…”. Tanto che del Buono confessa, più serio che faceto: “Me ne sono venuto via da casa sua un poco rancoroso”. La Fiorentina non vincerà lo scudetto quell’anno, e Pratolini non concluderà un altro episodio del ciclo Una storia italiana. Le cose non accadono sempre, le cose non accadono sempre come vogliamo, come sarebbe bello accadessero. Pratolini non visse un’altra gioia profana, Metello non vide un’altra rivoluzione.

 

 

Eppure quello stesso Metello fu riportato in vita, nell’immediatezza della gioia fiorentina, da un film che rileggeva il romanzo, ne accentuava alcuni caratteri bozzettistici, introduceva quello che può leggersi come un parallelismo tra le istanze di cambiamento della Firenze di fine ‘800-inizio ‘900 e la rivoluzione in calzoncini corti che, nel 1969, alcuni impavidi ragazzotti avevano compiuto alla faccia dell’establishment. È il 1970 quando esce Metello, per la regia di Mauro Bolognini. E il regista affida il ruolo del protagonista ad un ragazzino napoletano, Massimo Ranieri (anche Napoli, come Firenze, sportivamente negletta, in quegli anni ancor di più, in quegli anni Maradona era un ragazzino che prometteva bene ma non immaginava di poter avere su quel popolo l’effetto di un Vesuvio buono, non minaccioso). Metello cresce e impara, Metello suda e abbraccia il socialismo, Metello lavora e tradisce, Metello scende in sciopero, vede morire compagni e agonizzare gli ideali, Metello ricompone tutto nella dimensione intima delle gioie private. Perché il Metello di Bolognini (forse appena più inutilmente teatrale dell’originale pratoliniano, ma il cinema è immagine e l’immagine qualcosa deve concedere agli eccessi di drammaturgia) è come una sgroppata di Chiarugi, una parata di Superchi, una geometria di Merlo: è la vita che irrompe là dove non te l’aspetti, è il sangue che irrora una speranza, la coltiva e la vede crescere, è la volontà belluina e ferina che ha la meglio sugli errori, su tutte le diffidenze altrui. Metello è Firenze e la malinconia dei fiorentini, nascosta sotto le boiate ed i troiai: si può vincere una volta, e con fatica. Poi chissà.

 

 

(Nel luglio del 1969, una settimana prima dello sbarco sulla Luna, un ragazzo si sposava e, quasi contemporaneamente, si innamorava della Fiorentina. Più in là avrebbe un po’ confusamente raccontato di quella strana passione per una squadra così lontana. Quel ragazzo era mio padre.)

 

 

 

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