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HOSTILES : POLITICAMENTE CORRETTO O REALTA’ STORICA?
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Politicamente corretto, ossia lo strato ideologico che si deposita sul nostro modo di pensare e lo insidia, lo permea con la (supposta) forza dell’idea di civiltà che dovrebbe (dico dovrebbe) essere il nostro faro.

Civiltà? Quale? E che cos’è la civiltà? Viene spontaneo ricordare Paul Valéry:

Nous sentons qu’une civilisation a la meme fragilité qu’une vie(La crise de l’Esprit, première lettre)

Il grande poeta francese lo scriveva nel 1919, oscuramente (forse) consapevole di quanto sarebbe successo vent’anni dopo. Quale civiltà? “Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome” sospirava Madame Roland attimi prima di essere ghigliottinata; basterebbe sostituire la parola ‘libertà’ con ‘civiltà’ per darci modo di sospirare anche noi? La nostra civiltà si fonda sul diritto, sulla legge; tutto giusto, basterebbe citare Cicerone nella sua orazione Pro Cluentio quando scrive.” Legum servi sumus, ut liberi esse possimus”: bello, bellissimo. Peccato che lo stesso oratore latino nella Pro Milone scrivesse:” Silent leges inter arma”. E allora? Allora dobbiamo accettare, sempre con Valéry, che le nostre civiltà siano mortali e che questo strato, questo ‘overlay’ fatto di tolleranza, di apertura verso l’altro e il diverso, di capacità di ascoltare e capire, sia flebile, fragile, a volte perfino evanescente si vada a situare nella categoria del “dobbiamo” più che in quella del “siamo”. Il politicamente corretto è ideologia che spesso si scontra con la dura realtà quotidiana, con ciò di cui siamo fatti e cioè sangue, nervi, ossa e muscoli.

 

 

 

Basta pensare a ciò che sta succedendo nel nostro Paese, qui ed ora, nella nostra patria del diritto, in certe periferie come Torre Maura, dove sentiamo ragazze urlare:” Io li brucio, li odio!” e sappiamo bene a chi si riferisce. O a Minerbe, paesino del Veronese, dove il sindaco ordina di dare a una piccola allieva straniera un pasto diverso solo perché i suoi non pagano la retta. E’ questa la “civilisation”? E la sinistra? Quanti errori si sono commessi in tuo nome!” parafrasando ancora Madame Roland. Pensare molto agli “ultimi” e dimenticare “i penultimi” come ricorda Federico Rampini nel suo recentissimo LA NOTTE DELLA SINISTRA: DA DOVE RIPARTIRE. Questi penultimi, dimenticati pure loro, ma a differenza di altri, pure mazziati, che non votano più “il partito” ma la destra estrema, disperati alla ricerca di qualcuno che li ascolti, che renda loro giustizia, una volta per sempre.

 

 

“Les banlieues” sono lì a ricordarci che la storia non perdona, che lo strato del politicamente corretto, quando non si deposita su un humus fatto di giustizia sociale e di educazione civica, non germoglia, diventa sempre più fragile sino a seccarsi, inaridirsi, per lasciare spazio alla barbarie, mostro atavico, mai domo, mai estinto e sempre pronto a ringhiare ed offendere.

Il politicamente corretto spesso lascia tracce anche nell’espressione artistica e pure nella ricerca storica. Quanto ha lottato e subito, ad esempio, Renzo De Felice per portare avanti la sua ricerca, che a volte contraddiceva la vulgata del politicamente corretto della sinistra?

 

 

Nel cinema è successo e succede ancora che il politicamente corretto finisca per inquinare, in luogo di arricchire, un prodotto. E’ una lunga storia, che inizia con CHEYENNE AUTUMN (Il grande sentiero) John Ford (1964), dove il regista volge uno sguardo diverso verso i nativi, rompendo la tradizione del pellerossa feroce e del bianco buono. Questa tradizione, per la verità, era stata infranta da Delmer Daves con BROKEN ARROW (L’amante indiana)(1950). Venne poi il periodo della contestazione giovanile, della guerra in Vietnam. Poco a poco, il “politically correct” che prima identificava i bianchi come portatori della civiltà, ora li vede come biechi usurpatori, avidi assassini razzisti, pieni di odio, portatori dei disvalori che il mondo occidentale corrotto semina come tante metastasi nel tessuto sociale delle popolazioni native, viste come “il buon selvaggio” rousseauiano, tutto ingenuità e innocenza. Ecco quindi prodotti come ULZANA’S RAID (Nessuna pietà per Ulzana) di Robert Aldrich (1972), SOLDIER BLUE (Soldato blu) di Ralph Nelson (1970) ed altri. La guerra in Vietnam, che non poteva essere trattata al cinema per motivi di censura, almeno per diversi anni, trovava un facile riferimento nei “pellerossa identificabili con i coraggiosi ed eroici soldati vietnamiti”.

 

 

In HOSTILES (Ostili) di Scott Cooper (2017), il politicamente corretto finisce per inquinare un prodotto che, una volta tanto, sembrava descrivere una storia con gli strumenti dell’indagine seria. Un prodotto promettente, come lo era stato GERONIMO di Walter Hill (1994), vero capolavoro, capace di stare in equilibrio fra le ragioni di ambedue le parti in conflitto (gli Apaches Chiricahua di Geronimo e“Cappotto d’Orso” Nelson Miles).

 

 

Lo “scarto” ideologico tra la prima parte del film e la seconda, più che una presa di coscienza, assomiglia a una resa a quella che oggi è la nostra sensibilità, anno 2019. Non è umanamente, psicologicamente, razionalmente possibile che due “mostri” di crudeltà come lo sono stati fino a ieri Falco Giallo (splendido, come al solito, Wes Study) e il capitano John Blocker (un ottimo Christian Bale), capaci di stragi orrende, pieni ancora (all’inizio del film, almeno per John) di odio, finiscano, in pochi giorni per agire e parlare come due vecchi saggi che rinnegano tranquillamente il loro cupissimo passato.

Ma è politicamente corretto che i due grandi nemici si riconcilino ed è hollywoodianamente normale che la signora Quaid (Rosamund Pike), che ha perso, pochi giorni prima, marito e tre figli, per colpa di un attacco Comanche, e il buon Bale inizino una più che probabile storia amorosa.

Scott Cooper, giovane ed interessante attore e regista americano CRAZY HEART (2009), OUT OF THE FURNACE) (Il fuoco della vendetta)( (2013) BLACK MASS- (Black Mass- l’ultimo gangster) (2015), ha capito molto bene da che parte tira l’aria e, tra una concessione al politicamente corretto e un’altra al love affair, si mette il cuore in pace, non prima però di aver dato prova di una certa maestrìa ( o mestiere?).

 

 

I punti di riferimento sono abbastanza evidenti, certe inquadrature sono fordiane, assolutamente, così come sembra evidente il richiamo a Bob Aldrich (soprattutto nelle fasi concitate dello scontro con i pellerossa).

Lo iato fra il primo e secondo tempo ci introduce ad un’atmosfera diversa, accompagnata da una musica malinconica e da lunghe pause che ricordano Terrence Malick de THE NEW WORLD (Il nuovo mondo) (2005); la presenza di Q’Orianka Kilcher e dello stesso Bale sembra confermarlo. Il film così, da una solida storia (il richiamo a John Sturges e, forse, a Raoul Walsh non mi sembra tanto assurdo), cambia poco a poco (ma non così tanto) tono e passo e diventa elegia. L’elegia è componimento essenzialmente lirico, che esprime pensieri personali usando un tono malinconico. In effetti, nel film, si respira sempre di più quest’atmosfera, grazie alle musiche suggestive di Max Richter e alle indubbie qualità delle scene. Da nemici acerrimi ed irriducibili, Falco Giallo e John Blocker diventano, in pochi giorni, due vecchi saggi che si lasciano alle spalle odi, pregiudizi e rancori, indossando la toga che si confà a chi ha ormai lasciato la sabbia intrisa di sangue dell’arena per sedersi sui nobili scranni dei patres senatoriali. Il tono elegiaco è lo strumento che permette da un lato ai due “capi” di vedere i loro trascorsi come qualcosa di ormai lontano, quando la loro gioventù era piena di speranze e di promesse, prima che si contaminasse con le radici dell’odio e con l’abisso. Quei tempi, forse, ora che il tramonto della vita si avvicina, forse possono ancora tornare, dando un significato meno negativo a tutta un’esistenza.

 

 

E’ evidente, però, che il meccanismo non può funzionare. Il cammino della redenzione segue percorsi lunghi, complicati e sofferti. Tutti lo sappiamo, anche il buon Scott Cooper. La redenzione suppone un cammino interiore di auto-coscienza ed auto-critica crudele, fatto di passi indietro e passi avanti, in modo spesso disordinato, contradditorio. E non sempre succede.

Il peccato originale di HOSTILES sta proprio qui, in questa mancanza di profondità interiore, che lascia solo intravvedere, a volte, nelle smorfie di sofferenza e di pianto di Blocker, l’inizio del cammino.

L’ostilità (origine del titolo) è la misura del nostro mondo. Non ci sono persone, gruppi, tribù, alieni a questo sentimento. Siamo tutti ostili verso qualcuno. Il Western, con l’arrivo del ‘bianco’ diventa il luogo per eccellenza dell’ostilità invece di essere quello della concordia. E’ come se il mondo senza legge fosse in qualche modo più umano e civile di quello portato dalla nostra civiltà. Ostile.

E risulta quindi più un augurio (ingenuo) quello della riconciliazione fra i due mondi che la realtà vera, dura, acida e sgradevole sembra contraddire ogni giorno di più.

 

 

 

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