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Chi scriverà la nostra Storia: intervista alla regista del film Roberta Grossman
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Scritto e diretto da Roberta Grossman e prodotto da Nancy Spielberg, Chi scriverà la nostra storia fa entrare lo spettatore nel ghetto di Varsavia attraverso l'esperienza della compagnia segreta di giornalisti, ricercatori e storici, conosciuta con il nome in codice Oyneg Shabes, sorta per combattere le menzogne della propaganda nazista con carta e penna. Abbiamo incontrato la regista nel corso del tour europeo organizzato per la presentazione del film. Queste le sue parole

 

 

 

Non è la prima volta che la memoria dell’Olocausto sopravvive attraverso gli scritti di chi ne è stato vittima. Nel caso di Chi scriverà la nostra storia, però, la forma utilizzata non è quella diaristica tipica degli scritti di Anna Frank e, ancora, di Hetty Hillesum. Ciò che sappiamo, infatti, sulla storia del ghetto di Varsavia deriva dal ritrovamento dell’archivio Oyneg Shabes, scientificamente organizzato e diretto dallo storico Emanuel Ringelblum.

 

Sono d’accordo e in disaccordo con la dichiarazione di cui sopra. Sì, l’archivio era un rigoroso istituto di ricerca delle profondità dell’inferno che commissionava saggi su argomenti diversi come il tasso di mortalità da tifo, il ruolo delle donne nel Ghetto, la natura mutevole della vita per strada. Ma il documento è pieno di scrittura intima, che svela i sentimenti più reconditi, i sogni e le speranze, le paure di molte persone. Il diario di Anna Frank è il secondo libro più pubblicato nella storia dell’editoria, secondo solo alla Bibbia. L’archivio di Ringelblum contiene dozzine di diari di notevole forza letteraria ed emotiva. Solo quello di Abraham Lewin è un documento imponente che ci permette di sapere come vivevano e morivano gli ebrei del ghetto di Varsavia, come cercavano di prendersi cura gli uni degli altri, preoccupandosi per i loro figli, soprattutto per quanto riguarda la ricerca del cibo necessario a sfamarli. Di farci conoscere quello che sapevano – quando lo sapevano – e come il cappio sempre più serrato della violenza nazista li stesse stordendo e immobilizzando e come poi si fossero uniti per continuare a resistere, cercando di rimanere in vita un altro giorno.

 

Raccontata dal punto di vista della scrittrice e giornalista Rachel Auerbach e dello stesso Emanuel Ringelblum, la narrazione si allarga all’esperienza degli altri componenti della cosiddetta compagnia Oyneg Shabes. Partendo da questa considerazione, volevo chiedere in che rapporto sta la sceneggiatura del suo film rispetto al libro di Samuel D Kassow.

 

Il libro di Sam Kassow è un capolavoro della Storia. È un testo accuratamente studiato e ben scritto, che ha richiesto dodici anni per un lunghezza superiore alle ottocento pagine. Un film normale conterebbe al massimo un trentina di pagine di materiale, Il libro di Sam è una bibbia. Il mio film è un Haiku.

 

La necessità di scrivere la propria storia, evitando che a farlo siano i vincitori, è uno dei temi più ricorrenti nella cultura di ogni popolo. Pur sapendo molto a proposito dell’Olocausto, spesso ci si dimentica – e il film ce lo rammenta – che gli unici filmati relativi al ghetto di Varsavia sono frutto della propaganda nazista: manipolati da chi li realizzava per umiliare le vittime, facendole apparire sporche e malate.

 

L’ironia di Chi scriverà la nostra storia è che i filmati d’archivio, girati in quel momento in bianco e nero, sono quelli che normalmente consideriamo il “vero” e le drammatizzazioni sono normalmente considerate “false”. Nel caso del mio film, direi che è vero il contrario. Le unità della propaganda nazista filmavano continuamente all’interno del Ghetto. Tutti i membri del Oyneg Shabes ne parlano nei loro diari. Erano lì per creare una propaganda che sarebbe stata usata per convincere i tedeschi e il resto del mondo che gli ebrei erano sporchi, brutti, subumani e che loro, i nazisti, stavano facendo un favore al mondo sterminandoli. Mi sento a mio agio nell’utilizzare parti di questi filmati contenenti tale estremo pregiudizio, perché alla fine ci hanno fatto un grande favore girando pellicole e scattando fotografie della sofferenza degli ebrei nel Ghetto. D’altra parte gli inserti di fiction del mio film sono ricavati direttamente dagli scritti dell’archivio e da quelli di Rachel Auerbach (uno dei tre membri sui sessanta di Oyneg Shabes sopravvissuti allo sterminio) del dopoguerra. Non ho inventato niente. Dialoghi e situazioni nascono dal materiale reperito. Non esisteva nulla che mi potesse aiutare a ricostruire visivamente le vite interiori, i momenti privati ??e il funzionamento dell’Archivio. Ho cercato di creare drammatizzazioni di alta qualità e storicamente accurate capaci di fornire la forza emotiva di un film drammatico e la gravitas di un documentario. Raccontare la storia, preservare la verità, registrare la loro umanità e la bestialità dei crimini nazisti, era così importante per Abramo Lewin, che continuò a scrivere anche il giorno in cui sua moglie di ventuno anni, Luba, fu deportata a Treblinka. L’archivio di Oyneg Shabes è la più grande raccolta di testimonianze sopravvissute all’Olocausto. E Ringelblum fece di tutto per assicurarsi che la voce “uomo medio” fosse inclusa nell’archivio

 

Tra le tante informazioni di cui il film ci mette a conoscenza mi ha colpito quella per cui alla fame dilagante la comunità del ghetto rispose con un aumento degli spettacoli di intrattenimento, sopratutto quelli musicali.

 

Questa affermazione non è accurata. La vita culturale del Ghetto iniziò dal momento in cui questo si costituì. Non ci fu un aumento nella vita culturale, perché questa fu sempre presente. La cultura era una forma di resistenza, un modo per riaffermare la nostra identità e umanità, nonostante tutto. C’era uno sforzo cosciente per cercare di continuare la vita della comunità culturale nel modo più normale e lungo possibile. Come scrisse Ringelblum in una delle sue ultime lettere, inviata a YIVO a New York pochi giorni prima che venisse ucciso: “I leader della comunità ebraica organizzata tenevano il vessillo della cultura nelle loro mani fino alla morte“. Lui intese la cultura come espressione dell’umanità contro i nemici della stessa, i nazisti.

 

Con Il Pianista di Roman Polanski il cinema era già entrato nel ghetto di Varsavia durante i giorni più drammatici della sua storia. Qui, però, lo spirito è differente perché a emergere è l’amalgama e la collaborazione tra le persone coinvolte nella tragedia.

 

Il pianista è un film fantastico. Le vicende raccontate da Chi scriverà la nostra storia hanno una differente matrice. Una delle differenze è che il film di Polanski è basato sulla memoria del dopoguerra. L’archivio, invece, è costituito da resoconti di testimoni oculari. Sono entrambi inestimabili.

 

Il film è la somma di immagini di archivio e sequenze cinematografiche girate con veri e propri attori. Mi ha colpito la ricostruzione del ghetto di Varsavia. Ambientazioni e luoghi appaiono in tutta la loro autenticità. Come siete riusciti a realizzarle?

 

I nostri talentuosi scenografi, Marek Warszewski e Frank Gample, e il loro team, hanno lavorato per sei mesi insieme allo studioso polacco Jacek Leociak in Polonia prima dell’inizio delle riprese. Jacek ha controllato ogni penna, ogni mobile, per assicurarsi che fosse accurato dal punto di vista storico. Il loro lavoro è stato ispirato da una straordinaria collezione di fotografie scattate dal Joint Distribution Committee nel 1940-41, inerenti cucine, mense, orfanotrofi, ecc. Se guardate le fotografie delle cucine e del cibo e le confrontate con quelle del nostro set sono praticamente identiche. Lo stesso vale per l’ufficio della sussistenza ebraica. Ci vuole tempo, denaro e intenti per raggiungere la precisione storica in un film. Immaginate, ad esempio, la sfida nella scena denominata “Weeping of Dead Things”, quando Rachel Auerbach attraversa un cortile cosparso di oggetti deportati. È già  abbastanza difficile creare una strada del ghetto intatta, figuriamoci quanto lo sia trovare e rendere obsoleta la spazzatura.

 

Parlando ancora della forma del film si può dire che la bellezza degli attori scelti per interpretare i personaggi principali sia anch’essa un modo di scrivere la Storia, restituendo alla fisiognomica originale le migliaia di persone rappresentate in maniera distorta  dai filmati dei cineoperatori tedeschi?

 

La mia intenzione era di presentare gli attori-membri degli Oyneg Shabes come individui con cui ci si poteva relazionare e anche innamorare. Spero di aver raggiunto questo obiettivo.

 

Una parte importante del film sono le voci narranti che vedono la presenza di due attori del calibro di Brody e Allen. Il primo, in particolare, lo ricordiamo per essere stato il protagonista de Il pianista. Le posso chiedere in che modo ha diretto le loro voci?

 

Joan Allen e Adrien Brody apportano al loro mestiere così tanta intelligenza, profondità e abilità che la necessità di dirigerli è stata minima.

 

(pubblicata su taxidrivers.it/conversation)

 

 

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