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Il cinema di Sorrentino. Uno sguardo a due sguardi
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Nella convinzione, e nell’ossessione, che Paolo Sorrentino crei una forma di dipendenza psicologica in chi guarda i suoi film (poiché il regista è bravo a seminare indizi che si fanno dubbi, dubbi che si trasformano in verità, verità che tornano ad essere indizi di qualcosa che non torna, mai), uno dei pensieri più ricorrenti è quello che egli realizzi un unico tipo di opera. Meglio: un’intera, lunga opera-fiume incentrata sul concetto basico della malinconia (nella variabile impazzita eppure ad essa rigidamente connessa della nostalgia). Dal cantante de L’uomo in più con il suo passato da dimenticare eppure pregno di onori (come se, in Sorrentino, la felicità abbia sempre qualcosa di maledetto o di assolutamente imperfetto) al calciatore dello stesso film (che vive in un passato che non diventa mai reale viatico per il futuro), dall’usuraio de L’amico di famiglia che al laido passato infine ritorna, abbandonando l’incongruo sogno di un amore (ecco, come vedremo meglio, l’amore in Sorrentino è catastrofe, annullamento di sé o prospettiva irrealizzabile, a meno di non trasportarlo sul terreno della idealizzazione) al viaggiatore con sete di vendetta di This must be the place, sino (e qui basta il concetto, finanche la parola) ai vegliardi di Youth. Ma è con due personaggi che tale idea ricorsiva, tale ossessione concettuale diventa poetica scopertamente distillata. Due personaggi che sono, in realtà, due sguardi, due inquadrature finali quasi fisse, due memorie che si affastellano e si confondono, due tentativi di abbracciare ciò che si è stati quando ancora ci si poteva concedere la inebriante speranza di essere altro. Sono gli sguardi di Jep Gambardella e di Titta Di Girolamo.

 

 

JEP E L’AMORE. È tutto un trucco. Cosa, esattamente, è tutto un trucco? Niente di più, niente di meno che la vita, quell’insieme di cose che, secondo i baci Perugina, accadono mentre siamo impegnati a fare altro e che invece, secondo Sorrentino, accedono a noi come una seconda pelle e ci rivestono con i loro contraddittori effluvi. È un trucco il successo, con gli obblighi di dover essere che porta con sé; è un trucco la felicità da ostentare; è un trucco la noia che ti prende nel fare cose che non ti va più di fare; è un trucco la religione e l’odore di santità, sono un trucco quei modus vivendi troppo rigidi e assolutistici per abbracciare le contraddizioni (anche se l’aderire a qualcosa con tutto se stesso, o con le residue forze di un corpo in disfacimento, producono, in Jep o in chi guarda, una fascinazione che è reale passione per le infinite e mai esplorate possibilità del pensiero); è un trucco l’amore, l’innamorarsi sapendo che finirà male, se mai inizierà. L’amore, appunto. Je suis tombè amoureux de vous (Jep a Fanny Ardant, in una delle scene più belle del film, incongruamente e stoltamente tagliata). L’innocenza di una passione senza sbocchi, la forza possente dell’idealità, l’amore trasportato in un territorio arcadico, l’unico possibile, l’unico che non lasci amaro in bocca. I personaggi di Sorrentino sono in fondo eterni adolescenti, bambinoni che la vita alleva, cresce e fa crescere, lasciando in essi granelli di polvere di memoria duri a dissolversi. E allora, alla fine del film, forse di tutto, Jep guarda in macchina, riflette e si abbandona alla verbosità (come lo stesso Antonio Pisapia nel prefinale de L’uomo in più: fiume di parole naturalmente ancorato al passato, all’Arcadia, gioia, malinconia, nostalgia in un viluppo inestricabile). E rivede un volto di ragazza, l’unico volto incontaminato che gli sia stato dato in dono di conoscere. Quando tutto era possibile, quando ancora c’erano pagine da scrivere, drink da bere, battute stanche da pronunciare e tutto il bla bla bla. La grande bellezza è ciò che si è perso o ciò che non si è mai realmente avuto, è la forma più lancinante di nostalgia, quella delle cose che non potranno più accadere. Recuperarla anche solo per un attimo è un dono che rende possibile il superamento di tutti i trucchi, quelli che ci si è dati per vivere. Può ricominciare il romanzo, o le ultime pagine di esso ancora da scrivere.

 

 

TITTA E L’AMICIZIA. In un film che si chiama Le conseguenze dell’amore e che dell’amore fa il suo invisibile, negletto, oscurato fil rouge, l’ultima inquadratura (e, ancora, l’ultimo monologo interiore) è dedicata ad un’amicizia. Al sentimento di un’amicizia, al fare di quel rapporto magari volante, se non addirittura unilaterale, il contenitore e la cornucopia di tutta quella minuscola bellezza che ci ha sfiorato ed il cui ricordo attenua il senso della fine. Perché anche qui, come sempre, l’amore è il solito trucco, l’innamorarsi una possibilità non contemplata e soprattutto non contemplabile, stante la evidente corruzione dei sentimenti e dei pensieri, data l’acqua passata sotto i ponti, le compromissioni, i compromessi, l’afonia (che intacca corde vocali ma anche cuore) che altri ci hanno imposto. Non si hanno vocaboli per esprimere un sentimento, non si hanno parole per confessare una malefatta irrimediabile, non si hanno pensieri ad illuminare un futuro che non c’è più (l’amore, in questo film, è fatto di brevissimi flash: la moglie in virginale abito da sposa, Titta che si siede finalmente al bancone, la ragazza che lo guarda, quella stessa ragazza ed il suo fatale ritardo che altro non è che la conferma di una impossibilità). E allora, in punto di morte, non si può rimpiangere un amore che non è mai nato, semplice embrione di riscatto, modesta ombra cinese di un’Arcadia ormai perduta. Non resta che affidarsi ad un’amicizia, ed a farlo è Titta, uomo senza amici. Dino Giuffrè (quando si è stati amici una volta lo si è per tutta la vita, e questa è una cosa bella ma anche molto consolatoria, l’ennesimo trucco forse), Dino Giuffrè che, perso in una tormenta di neve, pensa a Titta Di Girolamo. Le conseguenze dell’amore e la necessità dell’amicizia. Il freddo del cemento versus il calore di un abbraccio fraterno. Sempre di nostalgia si tratta, di necessità di vivere quando vita non c’è più. Se amore non può essere, ma tuttavia occorre abbandonarsi alle sue conseguenze, che resti l’amicizia, la si idealizzi, la si trasformi in un inafferrabile tutto. L’uomo ha bisogno di trucchi per andare avanti e per accettare la morte. E, al netto di quel vero che insegue affannato e impotente, è bravissimo nell’architettarli.

 

 

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